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La teoria dell’etere e la propagazione della luce (1924)

Albert Einstein
1924

Quando qui si parla dell’etere, non si tratta naturalmente dell’etere materiale della teoria meccanica delle onde, che obbedisce alle leggi della meccanica di Newton, e ai singoli punti del quale si attribuisce una velocità. Questa struttura teorica, secondo il mio convincimento, dall’enunciazione della teoria della relatività speciale ha esaurito definitivamente il suo ruolo. Si tratta assai più in generale di quella cosa pensata come fisicamente reale che, accanto alla materia ponderabile costituita da particelle elementari elettriche, gioca un ruolo nel nesso causale della fìsica. Invece che di “etere” si può parlare altrettanto bene di “qualità fìsiche dello spazio”. Si potrebbe altresì sostenere l’opinione che sotto questo concetto cadano tutti gli oggetti della fìsica, poiché in una teoria di campo conseguente anche la materia ponderabile, ossia le particelle elementari che la costituiscono, si possono considerare come “campi” di un tipo particolare, ovvero come particolari “stati dello spazio”. Tuttavia si deve ammettere che allo stato attuale della fìsica una siffatta interpretazione sarebbe prematura, poiché finora tutti gli sforzi dei fisici teorici diretti a questo scopo sono falliti. Pertanto allo stato attuale delle cose siamo costretti a distinguere tra “materia” e “campi”, ma possiamo sperare che le future generazioni supereranno questa concezione dualistica e la sostituiscano con una unitaria, come la teoria di campo nei nostri giorni ha tentato inutilmente.

Si crede abitualmente che la fisica di Newton non abbia riconosciuto alcun etere, e che invece per prima la teoria ondulatoria della luce abbia introdotto un mezzo onnipresente che contribuisce a determinare i fenomeni fisici. Tuttavia le cose non stanno così. La meccanica di Newton ha il suo “etere”, nel senso implicito, che si indica altrimenti come “spazio assoluto”. Per riconoscerlo chiaramente e contemporaneamente per elaborare un po’ più precisamente l’idea di etere, dobbiamo prendere le mosse un poco più da lontano.

Consideriamo prima di tutto una branca della fisica che fa a meno dell’etere, cioè la geometria di Euclide, intesa come la scienza dei modi possibili di portare tra loro in contatto i corpi praticamente rigidi. (Prescindiamo qui dai raggi luminosi, che parimenti possono intervenire nella formazione dei concetti e delle leggi della geometria.) Le leggi sulle configurazioni dei corpi solidi con l’esclusione degli effetti dei moti relativi, della temperatura e delle deformazioni, da cui idealmente si astrae nella geometria di Euclide, danno luogo all’idea di corpo rigido; quegli effetti del mezzo, che esistono indipendentemente dai corpi, che agiscono sui corpi e che si possono pensare influenzino le loro leggi di configurazione, la geometria euclidea non li riconosce. La stessa cosa vale per le geometrie non euclidee a curvatura costante, quando le si assumano come (pensabili) leggi di natura sulle configurazioni dei corpi. Altrimenti accadrebbe, se si trovasse necessario introdurre una geometria con curvatura variabile; ciò significherebbe che le possibili posizioni di contatto di corpi rigidi della pratica sarebbero diverse in casi diversi, sarebbero condizionate dall’influenza del mezzo. Nel senso di questa esposizione si dovrebbe qui dire che una siffatta teoria si serve di un’ipotesi dell’etere. Il suo etere sarebbe altrettanto fisicamente reale quanto la materia. Nel caso che le leggi delle configurazioni non fossero influenzabili da fattori fisici, come la concentrazione e lo stato di moto dei corpi nei dintorni etc., ma fossero immutabili, si indicherebbe questo etere come “assoluto” (cioè indipendente dall’infìuenza di un qualche altro oggetto).

Altrettanto poco, quanto la geometria euclidea (interpretata fisicamente) adopera un etere, ne ha bisogno di uno la cinematica ovvero foronomia della meccanica classica; le sue leggi hanno un significato fìsico chiaro solo quando si assuma che gli effetti del moto sui regoli e sugli orologi introdotti dalla teoria della relatività speciale non esistano.

Le cose stanno diversamente nella dinamica di Galilei e Newton. La legge del moto “massa x accelerazione = forza” non implica solo un’affermazione sui sistemi materiali, neppure quando secondo la legge astronomica fondamentale di Newton la forza è espressa in funzione della distanza, e quindi per mezzo di quantità, la cui definizione reale si può fondare su misure compiute con regoli rigidi. Infatti la definizione reale dell’accelerazione non si può fondare completamente su osservazioni condotte con corpi rigidi e orologi. Essa non può essere ricondotta alle distanze misurabili tra i punti che costituiscono il sistema meccanico. Per la sua definizione si ha bisogno di un sistema di coordinate, cioè di un corpo di riferimento in un opportuno stato di moto. Se lo stato di moto del sistema di coordinate fosse scelto diversamente, rispetto a questo le equazioni di Newton non varrebbero. In quelle equazioni entra per così dire il mezzo, nel quale i corpi si muovono, implicitamente come fattore reale nelle leggi del moto accanto ai corpi reali e alle loro distanze definibili con regoli. Nella teoria del moto di Newton lo “spazio” possiede realtà fisica - in contrasto con quanto avviene nella geometria e nella cinematica. Indicheremo questa realtà fisica, che interviene nella legge del moto di Newton accanto ai corpi ponderabili osservabili, come “etere della meccanica”. La comparsa della forza centrifuga in un corpo (rotante), i cui punti materiali non mutino le distanze tra loro, mostra che questo etere non va interpretato come una costruzione fantastica della teoria di Newton, ma che esso corrisponde a qualcosa di reale della natura.

Vediamo che per Newton lo “spazio” era qualcosa di fisicamente reale, malgrado il modo singolarmente indiretto in cui questa realtà giunge alla nostra conoscenza. Ernst Mach, che per primo dopo Newton ha sottoposto i fondamenti della meccanica ad una analisi profonda, lo ha riconosciuto chiaramente. Egli tentò di evitare l’ipotesi dell’"etere della meccanica", cercando di ridurre l’inerzia all’interazione immediata tra la massa considerata e tutte le restanti masse dell’universo. Questa concezione è logicamente possibile, ma come teoria dell’azione a distanza per noi oggi non si può più prendere seriamente in considerazione. L’ etere meccanico, da Newton designato come “spazio assoluto”, dev’essere quindi da noi considerato come una realtà fisica. Ma naturalmente l’espressione “etere” non deve indurre a credere che con essa si pensi come nella fisica del diciannovesimo secolo a qualcosa di analogo alla materia ponderabile.

Quando Newton designa lo spazio della fisica come “assoluto”, pensa ad un’altra proprietà di quello che qui chiamiamo “etere”. Ogni entità fisica influisce su altre e in generale è viceversa influenzata dalle altre. Ma quest’ultima proprietà non vale per l’etere della meccanica newtoniana. La proprietà di procurare inerzia di quest’ultimo infatti secondo la meccanica classica non è influenzabile da nulla, né dalla configurazione della materia, né da qualcosa d’altro; per questo lo si può designare come “assoluto”.

Che per il carattere privilegiato del sistema inerziale rispetto ai sistemi non inerziali si dovesse assumere una cosa reale come origine fu chiaro per la prima volta ai fisici negli ultimi anni. Storicamente l’ipotesi dell’etere nella sua forma attuale è derivata dall’ipotesi meccanica dell’etere dell’ottica per sublimazione. Dopo lunghi sforzi infruttuosi si è giunti al convincimento che la luce non si dovesse interpretare come moto di un mezzo dotato di inerzia e di elasticità, che in particolare i campi elettromagnetici della teoria di Maxwell non potessero essere interpretati meccanicamente. Sotto l’impressione di questo insuccesso i campi elettromagnetici sono stati considerati gradualmente come realtà fisiche ultime, irriducibili, come uno stato non ulteriormente spiegabile dell’etere. Ciò che resterebbe ancora dell’etere della teoria meccanica sarebbe il suo stato di moto determinato; esso identificherebbe in un certo senso una “quiete assoluta”. Mentre nella meccanica di Newton per lo meno tutti i sistemi inerziali erano ugualmente legittimi, nella teoria di Maxwell-Lorentz lo stato di moto dei sistemi di coordinate ammessi (quiete rispetto all’etere) risulta essere completamente determinato. Si assume tacitamente che il sistema di coordinate privilegiato sia allo stesso tempo un sistema inerziale, cioè che rispetto all’etere elettromagnetico valga il principio d’inerzia.

La concezione di fondo dei fisici cambiò ancora in un secondo modo sotto l’influenza della teoria di Maxwell-Lorentz. Poiché i campi elettromagnetici erano stati assunti come entità fondamentali, irriducibili, pareva che li si dovesse chiamare a sottrarre alle masse inerziali ponderabili il loro significato fondamentale anche in meccanica. Si concludeva dalle equazioni di Maxwell che un corpo elettricamente carico in moto è circondato da un campo magnetico, la cui energia in prima approssimazione dipende quadraticamente dalla velocità. Che cosa vi è di più immediato dell’interpretare tutte le energie cinetiche come energia elettromagnetica? Si poteva così sperare di ridurre la meccanica all’elettromagnetismo, dal momento che precedentemente la riduzione dei fenomeni elettromagnetici a quelli meccanici era fallita. Ciò appare tanto più promettente, dal momento che sembra sempre più probabile che tutta la materia ponderabile sia costituita da particelle elementari elettriche. Tuttavia non si possono superare due difficoltà. In primo luogo infatti le equazioni di Maxwell-Lorentz non permettono di capire come possa esistere in equilibrio la carica elettrica che costituisce una particella elementare elettrica malgrado la forza di repulsione elettrostatica. In secondo luogo la teoria elettromagnetica non permetterebbe di spiegare la gravitazione in maniera in qualche misura naturale e soddisfacente. Tuttavia i successi che la teoria elettromagnetica della fisica otterrebbe sarebbero così importanti, che essa sarebbe considerata come un dominio della fisica completamente sicuro, come quello la cui acquisizione sarebbe la meglio fondata.

La teoria di Maxwell-Lorentz ha influito infine sulla nostra formulazione del problema dei fondamenti teorici, che ha condotto all’enunciazione della teoria della relatività speciale. Si è riconosciuto che le equazioni elettromagnetiche in verità non individuano nessuno stato di moto determinato, e che invece per queste equazioni come per la meccanica classica è ugualmente ammissibile una molteplicità infinita di sistemi di coordinate in moto uniforme, purché solo si usino formule di trasformazione opportune per le coordinate spaziali e per il tempo. E’ ben noto come questa conoscenza abbia avuto per conseguenza una modificazione profonda della cinematica e della dinamica. All’etere dell’elettrodinamica non si doveva più attribuire uno stato di moto determinato. Esso causava ora - come l’etere della meccanica classica - non il carattere privilegiato di un determinato stato di moto, ma solo il carattere privilegiato di un determinato stato di accelerazione. Inoltre, poiché non si poteva più parlare in senso assoluto di eventi contemporanei in posizioni di verse dell’etere, l’etere risultava in un certo senso tetradimensionale, e non si aveva alcun ordine obbiettivo dei suoi eventi in funzione soltanto del tempo. Anche nella teoria della relatività speciale l’etere era assoluto, la sua influenza sull’inerzia e sulla propagazione delle luce andava pensata come indipendente da effetti fìsici d’ogni sorta. Mentre nella fisica classica la geometria dei corpi era assunta come indipendente dallo stato di moto, secondo la teoria della relatività speciale le leggi della geometria euclidea sono competenti a descrivere le posizioni di corpi in quiete l’uno rispetto all’altro soltanto quando questi corpi siano in quiete rispetto ad un sistema inerziale[1] : ciò si può facilmente concludere dalla cosiddetta contrazione di Lorentz. Pertanto la geometria dei corpi come la dinamica è condizionata dall’etere.

La teoria della relatività generale elimina un inconveniente della dinamica classica: in quest’ultima inerzia e gravità appaiono come fenomeni del tutto distinti e indipendenti, malgrado il fatto che entrambi siano determinati mediante la stessa costante del corpo, la massa. La teoria della relatività generale supera questo difetto, poiché fissa il comportamento dinamico del punto materiale elettricamente neutro mediante la legge della linea geodetica, nella quale le azioni dell’inerzia e della gravità non sono più tenute separate. L’etere ha in essa proprietà variabili da punto a punto, che fissano la metrica e il comportamento dinamico dei punti materiali, e che a loro volta sono determinate da fattori fìsici, cioè dalla distribuzione della massa ovvero dell’energia. L’etere della teoria della relatività generale si distingue quindi da quelli della meccanica classica e della teoria della relatività speciale perché non è “assoluto”, ma nelle sue proprietà dipendenti dalla posizione è determinato dalla materia ponderabile. Questa determinazione è poi completa, se l’universo è spazialmente finito e chiuso in sé. Che nella teoria della relatività generale non esistano coordinate spaziotemporali privilegiate, univocamente associate alla metrica, è più caratteristico della forma matematica della teoria che del suo contenuto fisico.

Anche con lo sviluppo dell’apparato formale della teoria della relatività generale non si riesce a ridurre tutta l’inerzia delle masse a campi elettromagnetici, in generale a campi. Inoltre a parer mio per il momento non siamo andati oltre un inserimento superficiale della forza elettromagnetica nello schema della teoria della relatività generale. Il tensore metrico che determina assieme i fenomeni della gravitazione e dell’inerzia da un lato, e il tensore del campo elettromagnetico dall’altro, appaiono come espressioni essenzialmente distinte dello stato dell’etere, la cui indipendenza logica si tende a mettere assai più in conto all’incompletezza della nostra costruzione teorica che in conto alla complessa struttura della realtà.

Invero Weyl ed Eddington per generalizzazione della geometria riemanniana hanno trovato un sistema matematico che fa apparire i due tipi di campo congiunti sotto un punto di vista unitario. Ma le leggi di campo semplicissime che una tale teoria produce non mi paiono portare ad un progresso della conoscenza fìsica. In generale mi pare oggi che siamo assai più lontani da una conoscenza delle leggi elementari elettromagnetiche di quanto apparisse all’inizio di questo secolo. A fondamento di questa opinione posso qui brevemente accennare al problema dei campi magnetici terrestre e solare ed al problema dei quanti di luce, problemi che per così dire riguardano la struttura su grande scala e su piccola scala del campo elettromagnetico.

La terra ed il sole possiedono campi elettromagnetici la cui orientazione e il cui verso coincidono approssimativamente con l’asse di rotazione di questi corpi celesti. Secondo la teoria di Maxwell questi campi possono derivare da correnti elettriche che fluiscano in senso opposto alla rotazione del corpo celeste attorno all’asse. Anche le macchie solari, che con buona ragione si possono intendere come vortici, possiedono campi magnetici analoghi, molto forti. Ma non è pensabile che in tutti questi casi vi siano davvero delle correnti elettriche di conduzione o di convezione di sufficiente intensità. La cosa appare piuttosto come se moti ciclici di masse neutre producessero campi magnetici. Né la teoria di Maxwell nella sua forma originaria né la teoria di Maxwell estesa nel senso della relatività generale consentono di prevedere una siffatta generazione di campi. Ci pare qui che la natura indichi una relazione fondamentale fino ad oggi non compresa teoricamente[2].

Se or ora si è trattato di un caso che la teoria di campo nella sua forma attuale non appare in grado di trattare, i fatti e le idee raccolti nella teoria dei quanti minacciano in generale di far saltare l’edificio della teoria di campo. Crescono infatti gli argomenti secondo i quali i quanti di luce si devono intendere come realtà fisiche, e il campo elettromagnetico non può essere considerato come una realtà ultima, alla quale si possono ridurre le altre realtà fisiche. Dopo che la teoria della formula di Planck ha mostrato chiaramente che il trasferimento dell’energia e dell’impulso tramite la radiazione avviene come se quest’ultima consistesse di atomi che si muovono con la velocità della luce c, di energia hν e d’impulso hν/c, Compton, mediante esperimenti sulla diffusione dei raggi Rontgen da parte della materia, ha mostrato che avvengono processi di diffusione nei quali quanti di luce urtano gli elettroni e trasferiscono ad essi una parte della loro energia, di modo che i quanti di luce mutano energia e direzione. Il fatto è per lo meno che i raggi Rontgen sperimentano a seguito della loro diffusione variazioni di frequenza (previste da Debye e da Compton) come le richiede l’ipotesi dei quanti. Tra poco apparirà inoltre un lavoro dell’indiano Bose sulla derivazione della formula di Planck, che per il seguente motivo è di particolare significato per la nostra concezione teorica: finora in tutte le derivazioni complete della formula di Planck si è fatto uso in qualche modo dell’ipotesi della struttura ondulatoria della radiazione. Così per esempio il fattore 8πhν3/c3 di questa formula risulterebbe, secondo la nota derivazione di Ehrenfest-Debye, dal conteggio del numero di oscillazioni proprie della cavità, che appartengono all’intervallo di frequenza . Bose sostituisce questo conteggio fondato sulla rappresentazione della teoria ondulatoria con un calcolo della teoria dei gas, che egli applica al quanto di luce che si trova nella cavità, pensato alla maniera di una molecola. Si impone la domanda, se non si possano incorporare nella teoria dei quanti anche i fenomeni di diffrazione e di interferenza in modo tale che i concetti di campo della teoria rappresentino solo espressioni delle interazioni tra quanti, mentre al campo non si attribuirebbe più alcuna realtà fisica indipendente. La circostanza importante, che nella teoria di Bohr la frequenza della radiazione emessa non è determinata da masse elettriche che eseguano moti periodici della stessa frequenza, può solo rafforzarci in questo dubbio sulla realtà indipendente del campo ondulatorio.

Ma perfino qualora queste possibilità maturassero in vere teorie non potremmo fare a meno in fisica teorica dell’etere, cioè del continuo dotato di proprietà fisiche; la relatività generale, al punto di vista fondamentale della quale i fisici si atterranno sempre, esclude un’interazione immediata a distanza; ogni teoria di azione per prossimità presuppone campi continui, e quindi anche l’esistenza di un “etere”.


Note

[1]Per corpi, che siano in quiete l’uno rispetto all’altro, ma che nel loro insieme ruotino rispetto ad un sistema inerziale, per esempio, non vale (secondo la teoria della relatività speciale) la geometria euclidea. 

[2]È naturale secondo l’analogia elettrodinamica proporre ima relazione della forma dH = –C dm[v]/r3 dove dm è una massa che si muove con la velocità v, r ovvero r = |r| indica la distanza del punto d’osservazione da questa massa (La formula può tuttavia considerarsi al massimo per moti ciclici e come prima approssimazione). In questo modo il rapporto tra il campo solare e il campo terrestre viene dell’ordine di grandezza giusto. La costante C ha la dimensione (costante gravitazionale)1/2 /velocità della luce. Da qui si può ricavare tentativamente l’ordine di grandezza della costante C. Se si sostituisce questo valore numerico nella formula precedente essa dà – applicata alla terra rotante – il corretto ordine di grandezza per il campo magnetico della terra. Questa coincidenza merita considerazione, ma può derivare dal caso.


titolo or.: Über den Äther, «Verh. d. Schweiz. Naturf. Ges.» 105 (1924) 85-93. tr. it. di Salvatore Antoci, dalla raccolta di articoli Quando la fisica parlava tedesco.