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I coraggiosi avventurieri di Barbiana: note sul progetto educativo di don Lorenzo Milani

Febbraio 2024
Leonardo Laterza
Dottorando in Scienze dell’Economia Civile, Università Lumsa, Roma

 

In una sua ricerca, Katherine Simon si è occupata di evasione pedagogica. «Anche se le questioni esistenziali e morali sorgono frequentemente – ella scriveva – ancor più spesso vengono messe a tacere. Se esse non vengono zittite del tutto, il più delle volte sono relegate a compiti individuali, piuttosto che affrontate in discussioni pubbliche in classe» (Moral questions in the classroom: how to fet kids to think deeply about real life and their school work, Yale University Press, 2001, pp. 53-54).  La conclusione è che meno del 2% delle lezioni a cui ha preso parte (di letteratura, storia e biologia in una public school e in due religious school americane) affrontavano in modo approfondito domande sulla vita, morte o sul loro significato. In un’altra ricerca, Robert Kunzman, Professor of Education all’Università dell’Indiana, ricordando l’inizio della sua carriera, osserva come abbia più volte evitato di proporre cosa sia il bene ai suoi studenti e come l’elusione del “corpo a corpo” sarebbe stata molto apprezzata da un dirigente scolastico che avesse partecipato alla sua lezione. È su questo “corpo a corpo” che si sosterà in questo editoriale. O meglio, sull’omissione o evasione di/da una proposta educativa. Da una prospettiva pedagogica, cercheremo di rispondere alle seguenti domande: Cosa significa non rischiare un’ipotesi esistenziale (il “corpo a corpo” con il bene) nel rapporto con gli adolescenti? È indifferente non proporre, non offrire un’ipotesi di risposta alle domande del cuore?

 

Alcuni autori contemporanei possono aiutare a capire perché l’evasione pedagogica sia problematica, soprattutto durante l’adolescenza. Il filosofo Alasdair MacIntyre ha osservato che «privando i ragazzi delle storie li si trasformerebbe in balbuzienti ansiosi e senza copione […]. Non esiste nessun modo per comprendere qualsiasi società, compresa la nostra, se non attraverso l’insieme delle storie che costituiscono le sue risorse originarie» (Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Armando Editore, Roma 2009, p. 258). Ne è convinto anche don Luigi Giussani: «per educare occorre proporre adeguatamente il passato. Senza questa proposta del passato, della conoscenza del passato, della tradizione, il giovane cresce cervellotico o scettico. Se niente propone di privilegiare un’ipotesi di lavoro, il giovane se la inventa, in modo cervellotico, oppure diviene scettico, molto più comodamente, perché non fa neanche la fatica di essere coerente all’ipotesi che si è presa» (Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005, p. 16). Per il sociologo Amitai Eztioni molti genitori presterebbe attenzione ai bisogni immediati del figlio e sottovaluterebbero la formazione di ideali e valori, “formando in modo eccellente i corpi, dimenticandosi però delle anime”. Per questi autori l’educazione è un processo attraverso cui gli adulti di una società si prendono cura della generazione più giovane aiutandola a stabilire un rapporto positivo e concreto con la realtà attraverso la proposta della tradizione, che funziona come ipotesi di risposta ad una domanda sollecitata dalla vita, come una “ipotesi esplicativa della realtà”, secondo l’espressione di don Giussani.

 

Oggi assistiamo «ad una drastica anticipazione della libertà di giudizio e di scelta del giovane, dell’affermazione autonoma di una sua propria visione. L’obiezione – che trova oggi più di una conferma nel dilagante disagio giovanile e un certo sostengo in alcuni esponenti della psicologia contemporanea – è che una simile concezione non rispetti le leggi e i tempi del percorso di crescita dell’essere umano, sia cioè antropologicamente e psicologicamente inadeguata» (Carmine Di Martino, Introduzione alla realtà totale. Saggi sul pensiero pedagogico e sociale di Luigi Giussani, Rizzoli, Milano 2023 p. X). Questa è la tesi: prendere sul serio la libertà di giudizio e di scelta esige un lavoro intenso sul proprio dato di partenza originario, ossia la tradizione e l’adolescenza è il tempo della verifica (critica) di quanto assorbito durante la fanciullezza. L’esito di questo lavoro intenso è l’adesione (o rifiuto) cosciente al dato originario, perché capace (o incapace) di dar piena risposta alle domande sollecitate dalla realtà. L’adolescente è colui che sperimenta l’utilità, per la propria esistenza, di una tradizione, per diventarne erede. Un tempo, dunque, di messa alla prova di una “dote”, per testarne la capacità di risposta alle esigenze del cuore. Ma se manca la proposta, quale “ipotesi esplicativa” utilizzerà l’adolescente per rispondere alle domande suscitate dalle esperienze esteriori ed interiori che vivrà? Senza una possibile “mappa” da verificare, come districarsi nella realtà? Il rischio è l’introversione, la rinuncia ad essere, il disorientamento, il “nomadismo esistenziale”, secondo don Giussani, l’incertezza. Esattamente ciò che la realtà, oggi, sta restituendo. Che fare dunque? 

Scuola di BarbianaRischiare il “corpo a corpo”. Ma non è sufficiente proporre il passato, la tradizione. «Il passato può essere proposto ai giovani solo se è presentato dentro un vissuto presente che ne sottolinei la corrispondenza con le esigenze ultime del cuore. Vale a dire: dentro un vissuto presente che dia le ragioni di sé» (L. Giussani, Introduzione alla realtà totale, Rizzoli, Milano 2023, p. 17). Si è appena descrittala figura dell’autorità, da intendere nel suo senso etimologico come “ciò che fa crescere” e non come autoritarismo pedagogico (indottrinamento forzato). L’autorità è una persona ricca di coscienza della realtà che con la sua vita testimonia la verità della proposta esistenziale che fa, perché lui, prima dell’adolescente, ne ha verificato consistenza e capacità di risposta rispetto alle domande del cuore. Così, sempre Giussani, descrive l’esperienza dell’autorità: “si impone a noi come rivelatrice, ci genera novità, stupore, rispetto. C’è in essa un’attrattiva inevitabile e in noi una inevitabile soggezione”. Ed è proprio lo stupore, il “sussulto” ad attrarre verso l’ipotesi di senso e a provocare il desiderio di rischiarla nella propria avventura umana. Se questa persona così ricca di coscienza della realtà, così concreta e non astratta, mi suscita questa attrattiva inevitabile perché non dovrei fidarmi ed accogliere la sua proposta? È questa la domanda attivata dall’incontro con un maestro, presenza autorevole e provocante, che muove il desiderio di esplorare il valore a cui lui si dà. 

 

La proposta della tradizione e la funzione orientatrice del maestro autorevole rappresentano, metaforicamente, la “mappa” di un’ipotesi di senso consegnata da una persona che l’ha seguita e ne ha sperimentato la bontà: la capacità di rispondere pienamente al desiderio di felicità. Ma non basta. Osservando le storie delle grandi esperienze educative ci si accorge di un altro elemento del metodo educativo: la comunità. “Nessun grande genio educatore si mosse mai senza immediatamente generare comunità”, ripeteva don Giussani. La comunità è una condizione del fatto educativo perché è l’ambiente in cui il ragazzo può sperimentare la tradizione, dato che lo sollecita e alimenta esperienze intime ed esteriori attraverso relazioni e incontri con altri. La comunità però non è il solo ambiente in cui impegnarsi secondo un ideale, dato che il cammino educativo invita a sperimentare quella “mappa” in tutta la realtà, in tutte le esperienze. L’avventura umana peserebbe troppo se fosse affrontata da soli perché senza l’altro, senza l’aiuto della compagnia, “l’uomo è troppo alla mercé delle tempeste del suo cuore, nel senso non buono e istintivo del termine”, ricordava ancora Giussani. Ci vogliono compagni d’avventura e questo vale sia durante l’adolescenza, età di verifica, che dopo. Una comunità, dunque, come uno degli ambienti in cui verificare la verità dell’ideale ma anche come luogo di confronto, di condivisione delle esperienze, di scoperta della comune appartenenza ad un destino. 

 

Rischiare dunque. Come ha fatto don Lorenzo Milani nelle scuole popolari di San Donato e Barbiana. Tradizione, autorità, verifica e comunità sembrano, a chi scrive, categorie vive del suo metodo educativo. Emergono in Lettera a una Professoressa (Scuola di Barbiana, Lettera a una Professoressa, Mondadori, Milano, 2017) e in altri documenti. Tra questi, una lettera scrittal’1 ottobre 1958, firmata Benito Ferrini (uno dei primi studenti a Barbiana) e contenuta in La parola fa eguali. Il segreto della Scuola di Barbiana (L. Milani, La parola fa eguali. Il segreto della Scuola di Barbiana, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2005, pp. 30-34).

Don Milani e Paulo Freire sono i pedagogisti della parola. Le esperienze da loro avviate, sviluppate in contesti e realtà differenti tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, hanno a cuore il possesso della parola. Non si tratta solamente di insegnare a leggere e scrivere. La parola rimanda all’uomo, ad una proposta di senso.

Don Milani aveva capito che “a noi poveri ci manca solo l’italiano”. È stata questa la sua idea fissa: «io so che vi occorre solo la lingua e la lingua è fatta delle parole di tutte le materie diverse messe insieme. Se ti insegnassi solo a disegnare saresti una bestia che disegna e non serviresti né a te né a nessuno. Te invece devi diventare un Uomo che disegna» (La parola fa eguali, Libreria Editrice Fiorenti, Firenze 2019, p. 31). La padronanza della parola può liberare la cultura dei poveri dalla marginalità, farle esprimere i suoi valori e la sua capacità di interpretare il senso della vita. In una pagina meravigliosa di Lettera a una Professoressa i ragazzi di Barbiana offrono la loro cultura, di cui sono coscienti, come dono, anzi come “un po’ di vita nell’arido dei vostri libri scritti da gente che ha letto solo libri”. Cosa offrono? Cultura agricola e umana: «anche sugli uomini ne sapete meno di noi. […] Forse lei no, ma i suoi ragazzi che sanno Cicerone di quanti vivi conoscono la famiglia da vicino? Di quanti sono entrati in cucina? Di quanti hanno portato in spalla i morti? […] Vuole che le dica tutto su centinaia di creature, decine di famiglie, parentele, legami?» (pp. 95-96). “Soli come cani”, è il titolo del paragrafo che sintetizza il giudizio sulla cultura borghese. È la constatazione di chi riconosce la ricchezza, la vitalità del proprio modo di stare al mondo e ha, ora, le parole per custodirla e per proteggerla. 

 

Don Milani riconosce questa cultura “altra”, più ricca e significativa e sa che solo dando la parola questa sarebbe potuta emergere. Libera la parola ma rischia anche una tradizione, un’ipotesi di senso. Nel capitolo di Lettera a una Professoressa dedicato alle proposte per riformare il sistema scolastico, ce n’è una che risponde alla domanda: cosa dare agli svogliati, come ridestare in loro il desiderio? Risposta: dare uno scopo, un fine. In questa pagina, densa di umanità, è messa in scena tutta la dinamica del “corpo a corpo”, del non sottrarsi alla quotidiana proposta di un senso: «Cercasi un fine. Bisogna che sia onesto. Grande. Che non presupponga altro nel ragazzo null’altro che d’essere uomo. Ciò che vada bene per credenti ed atei. Io lo conosco. Il priore me lo ha imposto fin da quando avevo 11 anni e ne ringrazio Dio. Ho risparmiato tanto tempo. Ho saputo minuto per minuto perché studiavo. Il fine giusto è dedicarsi al prossimo» (Lettera a una Professoressa, p. 78). La gratitudine del ragazzo sta nell’aver sperimentato la verità della proposta. Nessun autoritarismo pedagogico. Nessuna imposizione ideologica. Vi è coscienza, consapevolezza matura che quella ipotesi di senso corrisponde al vero, perché dà pienezza all’esistenza. Ma l’ipotesi di senso è sempre offerta da un altro, da un maestro autorevole e il ragazzo è chiamato ad aderirvi lealmente e a verificarla nel suo ambiente. La maturità passa dalla verifica della verità di un’eredità offerta da un testimone. C’è un verbo, nel passaggio citato, che potrebbe generare confusione. L’imporre (“il priore me lo ha imposto”) sembrerebbe distante da quanto si è detto sull’autorità. In Lettera ad una Professoressa, c’è un paragrafo che potrebbe aiutare a leggere meglio questo verbo: «Io sono un ragazzo influenzato dal maestro e me ne vanto. Se ne vanta anche lui. Sennò la scuola in che consiste? La scuola è l’unica differenza che c’è tra l’uomo e gli animali. Il maestro dà al ragazzo tutto quello che crede, ama, spera. Il ragazzo crescendo ci aggiunge qualche cosa e così l’umanità va avanti» (Lettera ad una Professoressa, p. 92). Il risultato? L’essere un “ragazzo che a 15 anni sa quello che vuole”. È la “legge” dell’Io: si diventa se stessi seguendo un altro. È quella che si è descritta come esperienza dell’autorità, che “dà” la propria eredità, verificata nella propria esistenza come qualcosa che corrisponde al vero. Il maestro dà sempre, richiama quotidianamente. È in questo senso che dobbiamo intendere l’imporre. Ma chiede anche di essere seguito, domanda la fiducia della sequela, proprio perché ha scoperto un “tesoro” e desidera ardentemente condividerlo con gli altri, accompagnarli in quello che di meglio ha vissuto e scelto nella vita: “chi non si fida di me si levi dai piedi”, ricorda Benito Ferrini nella sua lettera. 

 

Ed infine la comunità. È vero quanto ha scritto Giussani che “nessun grande genio educatore si mosse mai senza immediatamente generare comunità”. Don Milani lo conferma. La dimensione comunitaria per realizzarsi ha bisogno di modalità organizzative e operative concrete. Nella scuola di Barbiana sono state promosse molte esperienze comuni fattive. Lettera ad una Professoressa è il frutto di una di queste (scrittura collettiva). Il senso di comunità informala didattica ma anche la progettazione degli spazi: «Barbiana, quando arrivai, non mi sembrò una scuola. Né cattedra, né lavagna, né banchi. Solo grandi tavoli intorno a cui si faceva scuola e si mangiava. D’ogni libro c’era una copia sola. I ragazzi gli si stringevano sopra» (Lettera ad una Professoressa, p. 9). Ma la comunità è anche l’ambiente relazionale in cui sperimentare l’ipotesi di senso offerta da don Milani e cioè che “il fine giusto è dedicarsi al prossimo”, sintetizzata nel motto “I care”. Come i ragazzi potevano fare esperienza della bontà, della verità di questa eredità? «Il più vecchio di quei maestri aveva sedici anni. Il più piccolo dodici e mi riempiva di ammirazione. Decisi fin dal primo giorno che avrei insegnato anch’io. […] L’anno dopo ero maestro. Lo ero cioè tre mezze giornate la settimana. Insegnavo geografia, matematica e francese a prima media. […]. Se sbagliavo qualcosa poco male. Era un sollievo per i ragazzi. Si cercava insieme. Le ore passavano serene senza paura e senza soggezione. Lei non sa fare scuola come me» (Lettera ad una Professoressa, pp. 10-11). La comunità è, infine, anche il luogo della compagnia, dell’amicizia, della scoperta della comune appartenenza ad un destino, della gratuità. 

 

Agli adulti è affidato un compito: rischiare il “corpo a corpo” con gli adolescenti, offrire loro quanto di più vero nella propria esistenza si è incontrato, ciò che ha dato pienezza al proprio vivere. Perché l’adolescenza è quel momento in cui la vita dovrebbe dischiudersi al mondo e fiorire. Il dramma è se in questo tempo l’Io si ritira perché disorientato o vaga come un nomade nel deserto alla ricerca disperata della sorgente con cui dissetare il proprio cuore. Ecco quindi l’urgenza della tradizione, dell’autorità e della comunità. Perché per imparare a stare al mondo e diventare sé stessi bisogna seguire un altro che prima di noi ha trovato quella sorgente. Don Milani sapeva dove fosse e l’ha indicata ai tanti ragazzi che ha incontrato e che di lui si sono fidati. Da nomadi son diventati coraggiosi avventurieri dell’esistenza umana. 

 

In conclusione sorgono alcune domande: la nostra scuola si assume il rischio educativo? Favorisce o neutralizza il “corpo a corpo” con il bene? Seleziona maestri o solo tecnici della conoscenza? Educa coraggiosi avventurieri? Rispondere a queste domande è compito degli educatori del XXI secolo.