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Credere in qualcosa o in qualcuno?

Ottobre 2023
Giuseppe Tanzella-Nitti
Ordinario di Teologia Fondamentale, Pontificia Università della Santa Croce

Nell’anno 1938 la rivista francese Recherches des sciences religieuses ospitava un saggio di 60 pagine scritto da un giovane teologo francese di 37 anni, Jean Mouroux, intitolato Struttura “personale” dell’atto di fede. Le virgolette sull’aggettivo personale non sono casuali e determineranno, nei decenni successivi, una svolta nel modo di concepire la fede. A 50 anni dalla scomparsa di Mouroux, nato a Digione il 16 marzo 1901 e morto nella stessa città il 14 ottobre del 1973, desidero farvi conoscere quale senso avessero quelle virgolette e quale rinnovata concezione della fede avrebbero promosso.

In realtà, la prima teologia della fede la troviamo già nelle pagine dei vangeli. Chi si accostava a Gesù di Nazaret per ottenere una guarigione o un miracolo, si sentiva spesso ripetere: Credi tu nel figlio dell’Uomo? Credi tu che io possa far questo? Nel Nuovo Testamento san Giovanni impiega diffusamente una costruzione poco usuale nel greco classico, pisteuo eis auton: credere in lui. In questa articolazione, eis che regge il caso accusativo sembra comunicare quasi il dinamismo di un abbraccio: credo in te, cioè vengo verso di te per unirmi a te. Questa prospettiva era presente, in modo più o meno esplicito, nella teologia cristiana di tutti i tempi, ma la decadenza teologica del barocco l’aveva dimenticata, né l’Ottocento fu un periodo adatto a recuperarla. Numerose eresie di stampo razionalista diffusesi nel XIX secolo toglievano forza conoscitiva alla fede obbligarono il Magistero della Chiesa a sottolineare l’aspetto “contenutistico” e oggettivo di questa virtù. Come sancirà la costituzione Dei Filius del Concilio Vaticano I, la fede «è una virtù soprannaturale, con la quale, sotto l’ispirazione e la grazia di Dio, crediamo che le cose da Lui rivelate sono vere, non per la loro intrinseca verità individuata col lume naturale della ragione, ma per l’autorità dello stesso Dio rivelante». La fede non è un sentimento, né uno stato d’animo, né un moto soggettivo, ma una conoscenza oggettiva. Affermazione vera, ma certamente suscettibile di un completamento. Nelle prime decadi del XX secolo fu il modernismo a causare un ulteriore irrigidimento verso una comprensione oggettiva e poco personalista della fede. Per arginare il pensiero dei modernisti, la neoscolastica vedeva la fede soprattutto come adesione ai dogmi, alle verità rivelate da Dio, volendo con questa prospettiva rispondere alle critiche che la filosofia e le scienze muovevano alla Rivelazione considerandola una mera “esperienza religiosa” dai contenuti cangianti. Per dirlo in modo sintetico, per tutto questo periodo, fino alla metà del Novecento, la fede è intesa soprattutto come fede in qualcosa.

Quali visioni sopite intendeva svegliare Mouroux, parlando della struttura “personale” dell’atto di fede? Quasi rasentando un ossimoro, il teologo francese afferma all’inizio del suo scritto: i principi oggettivi della fede sono soggettivi, sono cioè di ordine personale. Recuperando la prospettiva di Agostino di Ippona e di Tommaso d’Aquino, Mouroux ricorda che la fede si presenta con la triplice declinazione di un credere Deumcredere Deo credere in Deum. Senza le ultime due articolazioni, la prima non darebbe ragione, da sola, della completezza dell’atto di fede. La fede è credere certamente a un contenuto, il mistero di Dio (Deum), ma il credente si fonda su una testimonianza personale (credere Deo) e, soprattutto, si nutre di una relazione personale unitiva (crederein Deum). «La fede – sintetizza Mouroux – nella sua essenza, sarà la risposta della persona umana al Dio personale, e perciò l’incontro di due persone» (J. Mouroux, Io credo in te, Morcelliana, Brescia 1966, p. 41). E la persona, precisa Mouroux, la si conosce solo mediante un contatto spirituale, perché credere è un fenomeno di comunione. Ecco come il teologo francese spiega i due approcci, quello analitico a quello esistenziale, alla comprensione dell’atto di fede, esortando alla necessaria rivalutazione del secondo: «Una teologia della fede può essere costruita sotto due diversi punti di vista. Il primo è analitico e astratto: si tratti della genesi o della struttura della fede, di solito se ne studiano soprattutto gli elementi: fattori soggettivi (intelligenza, volontà, grazia) o dati oggettivi (credibilità, oggetto materiale, motivo formale). È il punto di vista abituale dei teologi. Il secondo è sintetico e concreto: si studia soprattutto la fede come totalità concreta e si tenta di spiegarne la natura esistenziale. È il punto di vista abituale della Scrittura e dei Padri. Su questo piano a noi sembra che la fede si spieghi come un insieme organico di relazioni personali» (Io credo in te, pp. 11-12).

Grazie a Mouroux, la teologia potrà nuovamente presentare la fede teologale come l’incontro vitale fra due persone, Dio e l’uomo. In questa prospettiva potranno adesso inserirsi i guadagni della filosofia personalista francese, che prendeva quota proprio in quegli anni, provvedendo ad un graduale recupero della categoria di “esperienza”, una nozione di cui il modernismo aveva abusato in senso soggettivista, obbligando il Magistero e la teologia cattolica a parlarne con eccessiva sobrietà. Quasi trent’anni dopo la pubblicazione dell’articolo Struttura personale dell’atto di fede, superate ormai le crisi razionalista e modernista, il Concilio Vaticano II potrà finalmente impiegare una presentazione della fede di taglio personalista e pneumatologico, che in qualche modo completa e riequilibra quella del Vaticano I. È quanto ci verrà offerto dal n. 5 della costituzione Dei Verbum (1965): «A Dio che rivela è dovuta l'obbedienza della fede con la quale l'uomo gli si abbandona tutt'intero e liberamente prestandogli il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà e assentendo volontariamente alla Rivelazione che egli fa. Perché si possa prestare questa fede, sono necessari la grazia di Dio che previene e soccorre e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi dello spirito e dia a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità».

La donazione personale che la fede implica e richiede era proprio la prospettiva suggerita trent’anni prima da Mouroux. «L’atto di fede – egli aveva scritto nel suo saggio – è un atto semplice perché è il dono di tutto l’uomo. L’analisi vi scoprirà la volontà, il pensiero, i sentimenti spirituali, ma tutto ciò è dato nell’unità di un atto di vita, dall’atto di una persona che si unisce ad un’altra persona» (Io credo in te, p. 42). Volendo condensare in una frase la svolta personalista di Mouroux sulla fede, potremmo affermare che, con nuova chiarezza, viene adesso recuperata l’idea che la fede sia fede in qualcuno e non in qualcosa; o meglio, se è fede in qualcosa, lo è perché quel qualcosa lo dice qualcuno. La fede è sì conoscenza, ma conoscenza generata dall’amore: «si comprende quindi che l’amore è la porta della fede» (Io credo in te, p. 43). Mediante la fede si conosce attraverso qualcuno, con gli occhi di qualcuno, non perché, semplicemente, ci si fidi di lui, ma perché lo si ama e vi sono delle ragioni per amarlo.

Questa visione personalista e relazionale della fede sarà raccolta dalla teologia successiva confluendo nella prospettiva cristocentrica che presenta la persona di Gesù Cristo come causa formale e finale della fede: credo grazie a Lui e credo in Lui. Sulla scia del Concilio Vaticano II, così si esprimeva Giovanni Paolo II in una sua Catechesi del 1985: «Così dunque dicendo credo, esprimiamo contemporaneamente un duplice riferimento: alla persona e alla verità; alla verità, in considerazione della persona che gode di particolari titoli di credibilità. In nessun caso come nella fede in Dio, si attua il valore concettuale e semantico della parola così usuale nel linguaggio umano: Credo Ti credo» (Udienza generale, 13.3.1985).

Può questa visione personalista della fede generare guadagni anche nella comprensione del rapporto fra fede e ragione, o fra fede e scienza? Ritengo di sì. Ogni conoscenza, anche quella razionale, filosofica o scientifica, possiede una dimensione personalista. Il rapporto fra fede e ragione non si gioca solo a livello epistemologico, valutando la compatibilità dei contenuti e la correttezza delle implicazioni. Esso coinvolge anche il piano antropologico, segnato dall’adesione personale alla verità cercata, dalle passioni intellettuali, dalla percezione della dimensione etica. Inoltre, Mouroux sembra voler dire ai ricercatori contemporanei che non si potrebbe conoscere la natura senza legarsi emotivamente ad essa, senza sentirsi legati alla verità che essa incarna e significa, senza riconoscerla come sede di un mistero eccedente. Occorre accettare per fede le sue leggi, la sua realtà altra e irriducibile. La conoscenza della natura, ci direbbe Tommaso d’Aquino, è in fondo anch’essa un rapporto fra due persone, fra due intelligenze, quella di Dio e quella dell’uomo (cf. De veritate, q. 1, a. 2).