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Chi è il vero Maestro? Rileggendo una pagina del Siracide

Marzo 2018
Giuseppe Tanzella-Nitti
ordinario di Teologia fondamentale - direttore del Centro di ricerca DISF

Chiunque, credente oppure no, aprendo la Bibbia si sia imbattuto in una pagina dei libri sapienziali, si sarà sentito spinto a soffermarvisi, attratto dai ritmi cadenzati dei Proverbi, dall’attualità dei contenuti del Siracide, dalle domande esistenziali del Qohelet o dalle raccomandazioni della Sapienza. Questi testimoni di saggezza, che insieme con il libro di Giobbe costituiscono il cosiddetto “Pentateuco Sapienziale”, sono il risultato della confluenza nella cultura di Israele di tradizioni sapienziali provenienti dalla Mesopotamia e dall’Egitto, aree con le quali il popolo dell’Alleanza aveva interagito durante la propria storia. Due di questi libri, il Siracide e il libro della Sapienza, pur apprezzati e impiegati nella vita spirituale e sociale del popolo ebreo, non entrarono però a far parte del suo canone biblico, perché scritti in lingua greca, mentre la Bibbia cristiana li accolse fin dai primi secoli e la Chiesa li impiegò nella liturgia. La presenza nella tradizione religiosa ebraico-cristiana delle riflessioni raccolte in questi documenti costituisce un importante esempio di “inculturazione”: riflessioni filosofiche, morali e pedagogiche, sorte in ambienti diversi dal popolo di Israele vengono da questi rilette, commentate e assimilate, perché espressione di una sapienza condivisa. Sappiamo che tale assimilazione fu operazione critica e che alcuni riferimenti politeisti furono purificati, perché ogni cosa veniva compresa e spiegata alla luce della fede in Jahvè, unico Dio creatore del cielo e della terra. Era comunque chiaro che le tradizioni sapienziali extra-bibliche veicolavano e mettevano in luce domande comuni a molti popoli, almeno a partire dall’orizzonte geografico-culturale mediterraneo, del vicino e medio Oriente.

Fra le principali finalità dei libri sapienziali, il Siracide e i Proverbi in particolare, vi era quella di contribuire alla formazione dei giovani, quasi un prontuario di consigli di vita per svolgere con profitto un lavoro, formare una famiglia, educare i figli, muoversi oculatamente nella società distinguendo gli amici leali dai fannulloni e dagli intriganti. Erano i libri di testo, per dirlo in qualche modo, sui quali studiava la futura classe dirigente. Varie pagine fanno riferimento al rapporto fra insegnante e discepolo, esponendo le virtù dell’uno e dell’altro e gli opportuni suggerimenti affinché il sapere venisse efficacemente trasmesso lungo le generazioni. Il cap. 39 del libro del Siracide ci offre in proposito una pagina istruttiva, nella quale si illustrano le caratteristiche del “maestro” (cf. Sir 39,1-11). Riletta a distanza di quasi 2500 anni suscita ancora oggi interesse e, perché no?, suggerisce qualche considerazione anche per il presente.

«Il maestro – vi si afferma – ricerca la sapienza di tutti gli antichi… conserva i detti degli uomini famosi, penetra le sottigliezze delle parabole, ricerca il senso recondito dei proverbi». Egli deve dunque saper guardare al passato ed esaminare le fonti con attenzione, valorizzandole e applicando loro la giusta ermeneutica. Quanta distanza dalla figura di chi, ai nostri giorni, pretende di insegnare trascurando il passato, pensando che le domande che affronta siano state formulate oggi per la prima volta. Il maestro, invece, ricerca la sapienza degli antichi e conserva con cura quanto ricevuto dalle auctoritates. Il suo non è conservatorismo, né può essere qualificato tradizionalismo; è invece il buon senso di chi conosce che le idee hanno una storia, nota che le grandi domande filosofiche attraversano in modo trasversale le diverse epoche e le diverse discipline, sa riconoscere la sostanza dei problemi oltre l’evoluzione del linguaggio e la diversità delle categorie. «Svolge il suo compito fra i grandi – continua il libro del Siracide – lo si vede tra i capi, viaggia in terre di popoli stranieri, sperimentando il bene e il male in mezzo agli uomini». Chi insegna deve essere uomo di larghe vedute, uscire dal limitato orizzonte della località per aprirsi alla dimensione internazionale, oggi diremmo globale. Deve farlo, a sua volta, circondandosi di persone da cui imparare – i capi e i grandi – e non per mera curiosità o improvvisazione. Il maestro, ancora, deve essere persona laboriosa, cominciare presto le sue giornate, desideroso di far buon uso del tempo a disposizione, consapevole che ogni giorno è un dono del Creatore, di fronte al quale dovrà un giorno rispondere delle sue azioni: «Gli sta a cuore alzarsi di buon mattino per il Signore, che lo ha creato; davanti all'Altissimo fa la sua supplica, apre la sua bocca alla preghiera e implora per i suoi peccati».

Egli non tiene la sua scienza per sé, ma «come pioggia effonderà le parole della sua sapienza». La conoscenza resta un diritto di tutti e chi sa di più ha anche la responsabilità di trasmettere agli altri quanto egli sa, con il fine di promuovere tutti. La conoscenza deve tradursi in servizio, la scienza in fattore di progresso dei popoli. Il vero maestro non parla in modo inopportuno o solo per ostentare erudizione, ma «saprà orientare il suo consiglio e la sua scienza, e riflettere sui segreti di Dio». Quante volte siamo oggi raggiunti da informazioni che non orientano bensì invadono, non aiutano a decidere, ma solo moltiplicano possibilità offrendole ad una libertà ormai rimasta debole perché ha rinunciato a credere nella verità. Se solo un decennio fa eravamo preoccupati su come immagazzinare sempre più dati, oggi abbiamo il problema di come gestirli. Il vero maestro, dunque, pensa e opera con “unità di vita intellettuale”. Conoscenze profane e conoscenza di Dio si armonizzano, la riflessione sulla natura diventa contemplazione delle opere di Dio: «Manifesterà la dottrina del suo insegnamento, si vanterà della legge dell’alleanza del Signore».

Il ricordo del vero maestro, afferma infine il Siracide, sarà perenne: «Molti loderanno la sua intelligenza, egli non sarà mai dimenticato; non scomparirà il suo ricordo, il suo nome vivrà di generazione in generazione. I popoli parleranno della sua sapienza, l’assemblea proclamerà la sua lode». Chi di noi volge lo sguardo al passato non ha difficoltà a riconoscere la verità di queste parole. Chi ha avuto la fortuna di incrociare veri maestri lungo la sua vita li ricorda molto volentieri e riconosce il loro influsso sulla propria formazione non solo professionale, ma soprattutto umana. Forse non ricordiamo più il contenuto delle loro lezioni, ma sì il loro atteggiamento di fronte alla vita, le loro virtù intellettuali, il loro giudizio equilibrato sulle cose, la loro capacità di ascolto. Sono i maestri ad averci insegnato che la specializzazione non si oppone all’unità del sapere, quando è capace di comprendere il ruolo della propria disciplina all’interno del tutto; sono loro ad averci chiarito la differenza fra una persona colta e un semplice erudito, fra chi solo colleziona dati e chi invece sa anche a cosa servono. I veri maestri non avevano timore di far entrare nelle aule anche la domanda sui “perché”, specie quelli più importanti, senza fermarsi a spiegarci il “come” dell’efficienza pragmatica. Con loro capivamo che il vero motore della ricerca erano proprio le passioni intellettuali alimentate da quei perché.

In un’epoca, come la nostra, ove la superficialità e la scarsa formazione critica rischiano di compromettere quanto sappiamo costruire con l’ingegno, dove l’assenza delle riflessioni che orientano e giudicano corre il pericolo di volgere contro noi stessi il frutto delle nostre mani, riscoprire i veri maestri, anche se solo attraverso i libri che ci hanno consegnato, può essere risolutivo per affrontare con saggezza il futuro. E risolutivo diviene anche il desiderio di saper essere, noi stessi, maestri per gli altri: «Hai avuto la grande fortuna di incontrare veri maestri, amici autentici, che ti hanno insegnato senza riserve tutto ciò che hai voluto sapere; non hai avuto bisogno di trappole per “rubare” la loro scienza, perché ti hanno indicato la via più facile, anche se a loro è costato duro lavoro e sofferenza scoprirla... Ora, tocca a te fare altrettanto, con questo, con quell'altro, con tutti!» (Josemaría Escrivá, Solco, n. 733).