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Sulle virtù del ricercatore

Ottobre 2014
Giuseppe Savagnone
Docente di Dottrina Sociale della Chiesa presso LUMSA di Palermo.

Quali sono le virtù del ricercatore? Oggigiorno sembra strano accostare il termine “virtù” al termine “ricerca”. Perché queste due parole dovrebbero essere correlate? Il mainstream dominante tende a veicolarci l’immagine del ricercatore brillante come tutto genio e sregolatezza, intento a scoprire nuovi panorami del sapere in attimi di mistiche visioni. In verità la pratica scientifica è molto più un continuo, nascosto e paziente lavoro quotidiano che non un lampo di genio.

È interessante notare che il termine “pratica” nel greco antico poteva anche tradursi come “ascesi”, cioè come un lento cammino verso la perfezione. La tradizione aristotelica in particolare ha sempre sottolineato che all’interno di ogni “pratica”, “ascesi”, vi è sempre un fine e delle regole immanenti all’attività stessa e non affidati all’arbitrio del soggetto, ma rigorosamente vincolanti per chiunque voglia rettamente svolgerla.

Se pensiamo a quella pratica che è l’esercizio della vita intellettuale, ci accorgiamo che essa non può avere altro fine e altre regole che quelli che derivano dalla sua stessa dinamica, vale a dire, per usare un termine consacrato dalla tradizione, del conoscere inteso come adaequatio intellectus et rei. Dunque le virtù etiche e intellettuali di un ricercatore devono abilitarlo a perseguire questo fine. Infatti praticare rettamente un’attività significa essere capaci, essere abili nell’esercizio di quella specifica azione, cioè possedere delle virtù.

Se la pratica della ricerca scientifica si perfeziona nel suo sviluppo e se questo perfezionarsi manifesta delle virtù, significa che una buona vita intellettuale non coincide mai con un’asettica attività cerebrale. Essa non può svilupparsi senza una grande passione per la verità e un intenso desiderio di conoscerla. Platone diceva che la forma suprema dell’eros è l’amore per la bellezza della verità. Questo però non nasce automaticamente. C’è una preparazione indispensabile, che comincia con il nostro approccio alla realtà. Platone e Aristotele concordavano sul fatto che la ricerca nasce dalla meraviglia. Con questo termine essi non intendevano certo lo sbalordimento di fronte a eventi eccezionali, ma quella capacità di vedere ciò che si trova da sempre sotto i nostri occhi e che l’abitudine, la fretta, la pigrizia ci impediscono di scorgere in tutta la forza della sua realtà. Una buona vita intellettuale richiede una certa dose di calma, silenzio, solitudine, che rendano il ricercatore capace di sperimentare questa meraviglia. 

Solo in questo clima interiore, infatti, gli occhi del corpo e della mente si possono veramente aprire. E solo se ciò accade brilla davanti al nostro sguardo la stella della ricerca. Che può essere piccola e fioca, come lo è una stella e richiede perciò grande generosità nell’avventurarsi fuori dai propri schemi abituali, sfidando il buio della notte, per seguirla: grande costanza e forza d’animo per non scoraggiarsi, anche quando essa scompare; grande umiltà, nel riconoscere i propri errori di percorso senza avvilirsi. È il desiderio a rendere possibile questo esodo, come avvenne per quello dei Magi.

Dunque le virtù del ricercatore, lungi da essere freddo raziocinio, si radicano bensì nelle passioni, mettendole in circolo con la ragione che ne consente la piena esplicazione grazie al mantenimento del giusto mezzo. In questa prospettiva non c’è virtù senza passione e senza desiderio, così come, reciprocamente, passioni e desideri raggiungono la loro piena realizzazione solo grazie alle virtù. Sono le virtù a dare alla passione per la verità la sua necessaria misura. Tommaso d’Aquino parla, a questo proposito, della virtù della studiositas che, sorprendentemente, si collega alla temperanza, perché mira a moderare la curiositas. Vi è una frenesia di conoscere tutto che impedisce di conoscere davvero qualcosa. Chi conduce una ricerca deve saper rinunziare ai mille rivoli d’interesse che lo tentano lungo il percorso e che lo disperderebbero.

Le virtù del ricercatore inoltre implicano la rinunzia ai propri capricci e alle proprie incontrollate simpatie e ai propri irrazionali pregiudizi. Il che non significa ignorare la lezione dell’ermeneutica circa l’imprescindibilità nell’accostarci ad un testo o ad un oggetto, di una precomprensione che ci colleghi ad essi, ma sottolineare ciò che la stessa ermeneutica insegna, e cioè che questa precomprensione è feconda nella misura in cui entra in dialogo con il testo o l’oggetto in questione, lasciandosene modificare e non pretendendo di sostituirsi ad esso. Ma questo significa che la ricerca della verità non si può far coincidere solo con lo studio dei libri. Le riserve espresse da Platone, nel Fedro, sulla scrittura, sono da tenere sempre presenti. C’è il rischio che il libro, invece di una finestra, di un’apertura attraverso cui guardare la realtà, si trasformi in un filtro che ci esonera dall’affrontarla nella sua concretezza. E che ci si creda sapienti solo perché si sono letti e si possano citare molti libri.

È importante che, oltre a conoscere, si impari a pensare, dando a questo termine la valenza forte di una visione d’insieme capace di ricondurre la parte all’orizzonte più ampio che è il tutto, cogliendo il senso dei singoli elementi nella luce dell’intero. Un’estrema specializzazione può portare alla sterilità. L’eccellenza nella vita intellettuale non può essere vissuta che in una comunità di studiosi e, più ampiamente, in una dimensione sociale. Il cammino della scienza e del sapere in generale procede grazie ad una orchestra, che non può essere fatta tutta di brillanti solisti. Una pratica comunitaria ha una storia e si inserisce in una tradizione. Nessuno è chiamato a partire da zero. Questo significa che si diventa ricercatori con l’aiuto di un maestro che ci mette in comunicazione con le ricchezze del passato, aiutandoci a coglierne l’importanza per leggere il presente e la fecondità per progettare il futuro. Un vero studioso sa essere docile.

Questo riferimento ai maestri interpella fortemente chi deve educare altri alla vita intellettuale. Essa non è solo un mestiere, ma risposta ad una vocazione. L’ascesi che richiede si può affrontare adeguatamente solo se si ha davanti agli occhi una testimonianza. «Quali possibilità abbiamo noi di svegliare e stimolare, nei nostri figli, la nascita e lo sviluppo di una vocazione?» si chiedeva Natalia Ginzburg. E rispondeva «Questa è forse l’unica reale possibilità che abbiamo di riuscir loro di qualche aiuto nella ricerca di una vocazione, avere una vocazione noi stessi, conoscerla, amarla e servirla con passione» (Natalia Ginzburg, Le piccole virtù).