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Logica e teologia in J.R.R. Tolkien

Agosto 2010
Claudio Antonio Testi
Istituto Filosofico di Studi Tomistici di Modena

John Ronald Reuel Tolkien è universalmente noto come l’autore de Il Signore degli Anelli, un testo che, nei sondaggi, risulta sempre essere tra i libri preferiti e maggiormente letti dai lettori intervistati. Non è altrettanto noto, e nemmeno evidenziato e studiato adeguatamente dalla critica, il fatto che il tema centrale della sua opera sia quello della morte e dell’immortalità: 

«… potrei dire che se il racconto tratta di “qualcosa” (oltre che di se stesso), questo qualcosa non è, come tutti sembrano supporre, il “potere”. La ricerca del potere è solo il motivo che mette in moto gli avvenimenti, ed è relativamente poco importante, penso. Il racconto riguarda principalmente la morte, e l’immortalitàı» [Lettere n. 211; cfr. n. 181, 186, 203, 208, 211, 245].

Ancor meno nota, almeno al pubblico italiano, è l’esistenza di uno scritto esplicitamente dedicato al tema della morte, che può considerasi un vero e proprio trattato di “teologia naturale” e che contiene un rigoroso ragionamento logico: si tratta del dibattito tra il principe elfico Finrod e la saggia Andreth (Athrabeth Finrod ah Andreth, pubblicato nel volume Morgoth’s Ring, edito da Christopher Tolkien, Harper Collins, London 2002).

In questo editoriale vorrei illustrare brevemente il contenuto logico e teologico di questo dialogo, scritto tra gli anni 1958-1960: è questo il periodo nel quale J.R.R. Tolkien raggiunge l’apice nella sua meditatio mortis, iniziata durante la I Guerra Mondiale (cfr. Libro dei Racconti Perduti del 1917-1920) e portata avanti in tutte le sue opere fino al termine della sua vita (1973): già da questo breve esame spero possa emergere la “grandezza” di questo autore, che oltre a essere uno scrittore per ragazzi, è certamente un classico della cultura di ogni tempo. Per chi volesse approfondire l’esame tolkieniano della morte e dell’immortalità, sia sul piano biografico, che storico, che esegetico, mi permetto di rimandare al volume collettaneo La Falce Spezzata. Morte e immortalità in Tolkien (a cura di R. Arduini e C.A. Testi) recentemente pubblicato da Marietti 1820 (Novembre 2009).

Il dialogo è ambientato nelle Terra di mezzo, ma molti secoli prima delle vicende de Il Signore degli Anelli, e i due protagonisti Andreth e Finrod, rappresentano il punto di vista umano e elfico sul tema della morte. Gli Elfi sono un popolo immaginario, che vive fino a che il mondo dura: la loro anima si può separare dal corpo (per una ferita violenta a un forte dolore spirituale), ma in questo caso ritorna nel mondo in un nuovo corpo. Essi quindi faticano a comprendere la morte dell’Uomo (che è senza ritorno) e per una loro antica tradizione la considerano un “dono” particolare proprio dell’Uomo: in questo dialogo si approfondisce questa “opinione” fino ad arrivare alla “vera” posizione sulla morte umana. Tolkien usa quindi la sua sub-creazione letteraria, nell quale vivono popoli immaginari, per approfondire il tema più radicale che l’esistenza umana in questo mondo.

Tolkien stesso nel suo commento a questo dialogo (sempre pubblicato in Morgoth’s Ring), ci spiega come questo si basi su due fatti che in Arda (il mondo) sono da tutti accettati (I - l’esistenza degli Elfi; II - l’esistenza dei Valar, corrispondenti agli Angeli della Teologia Cattolica) e su sette “assiomi” che Finrod ritiene veri perché conosciuti grazie alla sua natura, all’esperienza, al ragionamento e a rivelazioni angeliche fatte agli Elfi:

A - l’esistenza di Eru (Dio);

B - l’esistenza di due popoli “incarnati” (gli Uomini e gli Elfi) i cui membri sono costituiti dall’unione anima/corpo;

C - l’armonia tra anima e corpo intesa come loro legame reciproco e perpetuo;

D - l’innaturalità, sia per gli Elfi sia per gli Uomini, della separazione di spirito (o anima) e corpo, dovuta dalla “Corruzione di Arda” da parte di Melkor (il Satana della Teologia Cattolica);

E - l’immortalità elfica intesa come “longevità seriale”, ovvero limitata alla Storia del nostro universo;

F- la possibilità per uno spirito elfico senza corpo di tornare (grazie al potere dei Valar) a una vita incarnata;

G- il destino dello spirito umano slegato dalla durata del mondo.

Basandosi su questi assiomi, il dialogo mostra (proprio come avviene nei dialoghi platonici) due importanti conseguenze: la necessità che i primi uomini venissero assunti in cielo prima della separazione dell’anima dal corpo, e la resurrezione futura in un mondo rinnovato.

È la Saggia donna coglie subito una prima inferenza necessaria: dapprima ipotizza che il corpo sia destinato ad essere abbandonato nel mondo da parte dell’anima (ipotesi I); dopo di che capisce che se questa ipotesi fosse vera,  ed essendo lo spirito umano slegato dalla storia di Arda (assioma G), ne seguirebbe disarmonia (negazione dell’assioma C). Dunque, da I e G deriva la negazione di C ovvero, come dirà Finrod, dividere corpo e spirito implica dolore, dis-armonia (non-C).

Finrod usa poi questo “risultato” di Andreth per dimostrare la necessaria falsità dell’abbandono del corpo in Arda (ipotesi I):

«Perché, se la tua asserzione è vera, allora, ecco! un fëa [anima], che qui non è che un viaggiatore, [assioma G] è sposato indissolubilmente ad un hröa [corpo] di Arda [assioma C]; dividerli è una ferita dolorosa [I e G implicano non-C] […]. Dunque deve sicuramente conseguirne questo: il fëa, quando si diparte, deve prendere con sé il hröa [negazione della ipotesi I]. E cosa può significare questo, se non che il fëa avrà il potere di innalzare il hröa, quale suo eterno sposo e compagno, ad un’eterna esistenza al di là di Eä e al di là del Tempo?»

Dunque se da I e G deriva la negazione di C (come ha mostrato Andreth poco prima), e G e C sono assiomi veri, I deve essere falsa. Questo ragionamento per assurdo si può esprimere usando la logica proposizionale con la formula:

Che significa intuitivamente:

Se [(Se dalla verità di I e G segue non-C) e G e C sono vere] allora segue non-I

La falsità di I, ovvero la negazione dell’abbandono del corpo su Arda, è quindi il primo significativo risultato ottenuto da Finrod, la cui dimostrazione si basa proprio sull’armonia di spirito e corpo (C), una verità che verrebbe contraddittoriamente negata assumendo come vera I (e G). Anche il corpo deve quindi lasciare il Tempo per ricongiungersi in armonia perenne con lo spirito: era questo che doveva avvenire (prima del Peccato Originale) tramite l’assunzione del corpo stesso:

«In altre parole, questa “assunzione” era il termine naturale di ogni vita umana, benché, per quanto ne sappiamo, lo è stato solo per quei membri dell’Umanità che “non sono caduti” ».

Da notare che l’idea di un’assunzione originaria (che Tolkien estende anche all’Immacolata Madre di Gesù) è presente anche in sant’Agostino (De Genesi ad Litteram 9,5,6, 10-11) e san Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae, I, q. 102, art. 4). Che poi Tolkien (un devoto cattolico romano) abbia letto san Tommaso d’Aquino è cosa certa, visto che è in mio possesso un’edizione della Summa Theologica posseduta da Tolkien e contenente numerose annotazioni, probabilmente fatte di suo pugno.

Questa Assunzione ora però, a causa della Caduta Originale, non si verifica più (visto il corpo si corrompe) ma, essendo una verità dimostrata, deve tuttavia avvenire. Da ciò si deduce così il necessario risanamento futuro della materia di Arda, nella quale i corpo verrà “ricostruito” e potrà ricongiungersi al suo spirito. Finrod “dimostra” così (in ultima analisi sempre grazie all’assioma C) la prospettiva futura di un’Arda Ricostruita ad opera di Dio, che entrerà nella Sua creazione tramite l’Uomo, e nella quale spirito e corpo degli Incarnati si riuniranno in eterna armonia

Come Tolkien stesso ammette nel suo commento al dialogo, questi due “teoremi” non hanno una validità universale, ma sono conseguenza necessarie per chi assume come validi alcuni assiomi: non si tratta tuttavia di un mero gioco letterario, ma di un’autentica e rigorosa disamina filosofica, basata su ipotesi ben definite e un rigoroso ragionamento per assurdo.

Questo dovrebbe bastare per farci capire che, ben lungi dall’essere un autore per bambini, J.R.R. Tolkien è un letterato con profondi interessi teologici, che ha esplorato – non solo con lo strumento della finzione, ma con la logica! – i problemi più profondi dell’umana esistenza. Purtroppo la sua grandezza deve ancora essere pienamente compresa, specie in Italia, dove la critica (salvo lodevoli eccezioni) non mostra di essere aggiornata sulla letteratura secondaria estera, e preferisce reiterare tematiche  (Tolkien di destra o sinistra? Tolkien neo-pagano e esoterico?) ormai datate e che soprattutto, non colgono il proprium di questo straordinario intellettuale del ‘900.