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La scienza e il mondo invisibile

Arthur S. Eddington
1929

Science and the Unseen World, Swarthmore Lectures

Qual è il problema che ci si porrà quando dovessimo discutere il possibile conflitto fra la concezione scientifica e quella religiosa? Penso che - per quello che ci è dato ora di enunciare - potremmo definirlo  come il problema sollevato dall' esperienza: il problema di un giusto orientamento della mente nei confronti dei diversi elementi dell'esperienza. Se la scienza afferma e pretende di essere, in qualche modo, una guida alla vita, ciò avviene in quanto essa ha rapporti  con l'esperienza, o con parte di essa. E se la religione non propone precisi atteggiamenti nei riguardi dell'esperienza, e se essa è appunto un credo che postula un essere ineffabile il quale non ha contatto con noi stessi, allora non è per questa specie di religione  che vogliamo schierarci.

La nostra esperienza è data dai reciproci rapporti che intercorrono fra noi stessi e il nostro ambiente. Parte di tali rapporti consistono in sensazioni associate con impulsi che  ci vengono attraverso gli organi di  senso; ed  è appunto seguendo questo elemento di esperienza che noi raggiungiamo il problema scientifico del mondo fisico.  L'esperienza, però, è sicuramente più vasta di quanto abbiamo ora ammesso, e il problema dell'esperienza di conseguenza, non è limitato all'interpretazione delle impressioni sensoriali.

Immaginate che la  coscienza sia, anzitutto, un miscuglio di impressioni sensoriali e nulla più. Mentre le sensazioni subentrano una dopo l'altra e sono esaminate da una coscienza o un'altra, ci viene  da chiedere: "Che cose dobbiamo pensare di tutto ciò? Che cosa è mai tutto questo?". Dare una risposta a questa domanda è compito specifico della scienza.

Ma immaginate di nuovo la coscienza, questa volta non come  un miscuglio di impressioni sensoriali, ma come intimamente la conosciamo, cioè responsabile, elevata, piena di slanci e di dubbi, e che dia origine in sé stessa a impulsi tali come quelli che sospingono lo scienziato nella sua ricerca del vero; ebbene, alla  domanda: "Che cosa dobbiamo pensare di tutto ciò? Che cosa è mai tutto questo?". La risposta dev'essere, questa volta, molto più ampia, molto più avvolgente, e non chiusa nei confini di una risposta tipicamente scientifica. 

È di solito mio compito diffondere la verità della scienza, insistere sulla sua preminente importanza, e preparare da me stesso quella via per mezzo della quale essa va alla ricerca di una comprensione del fenomeno che noi sperimentiamo. È ben lontana dal mio pensiero l'intenzione di gettare il discredito su quanto abbiamo conseguito per mezzo queste ricerche. Lo scienziato segue, come fa in realtà il mistico, una luce; e non si tratta di una luce falsa o inferiore. D'altronde, le risposte che ci sono fornite dalla scienza presentano una singolare perfezione, che è tanto più apprezzata quanto più lunga è stata la serie di difficoltà, delle lotte e delle conquiste che l'hanno preceduta. Perché non produco, allora, qui, una di queste risposte scientifiche? Semplicemente perché prima di dare una risposta è buona norma  prestare ascolto alla domanda  che viene posta. Non si può infatti pretendere di ricevere una risposta sicura se  non si pone la domanda che è in gioco. Per quello che ne posso dire, la specie di domanda che ora mi sono proposto é la seguente: qual è il giusto orientamento di un essere razionale verso quell'esperienza cui sente, così misteriosamente, di partecipare? Quale concezione dell'ambiente circostante dovrebbe guidarlo quando si accinge alla realizzazione della vita a lui donata? Quali di questi sentimenti e ambizioni, che costituiscono la sua natura, devono essere alimentati e quali invece rigettati come il seme dell'illusione? Il desiderio di verità così prominente nelle ricerche della scienza, tra liberazione dello spirito dal suo isolamento verso qualcosa di ultraterreno, una risposta alla bellezza nella natura e nell'arte, una luce interiore di convinzione e di guida: sono forse tutte queste cose una parte del nostro essere, così come la nostra sensitività fa parte delle impressioni sensoriali?

Non ho una risposta da dare, così su  due piedi, a simili domande. Lo studio del mondo scientifico non può indicarci l'orientamento di qualche  cosa che è esclusa dal mondo scientifico. Le risposte della scienza rivestono un gran peso se riguardano le impressioni dei sensi collegate  con le rispettive reazioni dello spirito, che formano, invero, una parte importante del contenuto mentale. Per il resto, lo spirito umano deve rivolgersi al mondo invisibile, al quale esso stesso appartiene.

Alcuni vorrebbero porre la domanda in questa forma: "Il mondo invisibile, quando ci viene rivelato dalla concezione mistica,  è forse una  realtà?". Giova però rilevare che la realtà è appunto una di quelle parole  indeterminate che non possono  che condurci a infinite e  inconcludenti discussioni filosofiche. Ne deriva che c'è minor pericolo di malinteso se poniamo invece la domanda in quest'altra forma: "Quando seguiamo la concezione mistica, abbiamo di fronte a noi dei veri e propri fatti di esperienza?". Ma certo che li abbiamo. Penso che quanti desiderano prendere conoscenza esclusivamente delle misure del mondo scientifico, che sono eseguite solo dai  nostri sensi fisici, stanno appunto eludendo uno dei fatti più immediati dell'esperienza,  vale  a dire  che la coscienza non è interamente, e neppure prevalentemente, un mezzo inteso a farci ricevere le impressioni sensoriali. Possiamo pertanto insistere, e nel modo più audace, che c'è un'altra concezione all'infuori di quella scientifica, visto che, in pratica, una concezione di gran lunga più trascendentale è quasi universalmente  ammessa. Nulla di meglio - a chiarire ciò - che riportare un passo memorabile pronunciato da J.S" Hoyland nel 1928 nella "Conferenza Swarthmore ". 

 "C'è una certa ora nella notte indiana, e precisamente un istante prima delle luci dell'alba, in cui le stelle sono incredibilmente brillanti e splendenti di un chiarore oltre ogni immaginazione in quella terra accaldata. Gli alberi se stanno intorno a noi silenziosi, ma facendoci sentire la loro amichevole presenza. Fino a quel momento non si è fatto ancora sentire il cinguettio degli uccelli prossimi al risveglio; ma l'intero mondo sembra essere tutto intento, palpitante, tutto fremito e ardore. In tale momento il velo fra le cose visibili e quelle invisibili si fa così tenue da interporre  una barriera davvero esile fra la bellezza  e la verità eterne e l'anima che le afferra".

È un'esperienza di cui l'«osservatore» - come viene tecnicamente denominato  secondo le teorie scientifiche - non sa proprio nulla. Gli apparecchi di misura dichiarano che le stelle sono tanto lontane quanto sono sempre state, ed egli non può trovare alcuna scusa, nelle misure in parola, per il pensiero mistico  che ha preso possesso  della mente e che ha dominato le impressioni sensoriali.  Eppure, chi non apprezza questi momenti  che ci rivelano proprio  la poesia dell'esistenza? Non chiediamo se la filosofia possa giustificare una tale concezione della  natura, dobbiamo  confessare - piuttosto - che i nostri sistemi filosofici sono essi stessi sotto processo; ed essi devono resistere o cadere a seconda che risultino sufficientemente vasti così da accettare e inquadrare una tale esperienza come un elemento della vita.  Quel senso dei valori che possediamo nell' intimo  del nostro essere ci fa riconoscere  che questa è  una prova che dev'essere superata; ed è tanto essenziale che la nostra filosofia  debba sopravvivere a  una tale prova quanto e essenziale che debba sopravvivere alle prove sperimentali fornite dalla scienza.

Nel brano che ho ricordato non figura alcun diretto riferimento al misticismo religioso: infatti esso descrive un orientamento, nei confronti della natura, egualmente accettato da colui che è religioso come da colui che non lo è, come proprio dello spirito umano, e ciò anche se non è proprio dell'«osservatore» ideale, i cui giudizi formano il canone dell'esperienza scientifica. Lo scienziato che assume, di tanto in tanto, un simile atteggiamento, non si sente affatto preso dal rimorso come se la sua devozione per la verità fosse venuta meno; al contrario,  sarebbe molto preoccupato qualora  notasse che lui stesso sta perdendo il potere di provare quest'ordine di sentimenti.

In breve: l'ambiente in cui viviamo può e deve significare qualcosa, per noi, che non può essere misurato con gli strumenti del fisico, né descritto dai simboli metrici del matematico. Non possiamo argomentare che poiché il misticismo naturale è, in una certa misura, universalmente ammesso ne deriverebbe che anche il misticismo  religioso dovrebbe necessariamente esserlo; senonché le obiezioni al misticismo religioso perdono la loro efficacia  qualora vengano egualmente rivolte contro il misticismo  naturale. Se affermiamo che l'esperienza, che ci viene nei nostri silenziosi incontri con le cose è uno dei preziosi elementi che danno corpo alla pienezza della nostra vita, non  vedo come la scienza potrebbe contraddirci. È necessario però essere prudenti prima di darci anima e corpo ad applicare le supposte prove scientifiche: una tale prova, infatti, ci porterebbe troppo lontano, strappando alle nostre vite non soltanto la religione, ma anche tutti i sentimenti,  che non  appartengono  alla funzione di un' arida macchina misuratrice.

Volendo giustificare il posto che spetta all'esperienza religiosa nella vita umana, non dobbiamo affatto considerarla dal punto di vista di un «credo» da propagandare. Non siamo di quelli che mandano missionari ai ciechi onde si persuadano che sarà loro esclusivo beneficio credere che un mondo di luce e di colori esiste per altri uomini dotati di vista. Non ci metteremmo certo a discutere con un uomo cieco che sostenesse che la vista è un'illusione alla  quale alcune persone anormali soggiacciono.

Ne deriva che quando parlo di esperienza religiosa non intendo affatto provare l'esistenza dell'esperienza stessa, e ciò più di quanto uno che stia tenendo una conferenza sull'ottica non tenti di provare l'esistenza della vista. Ciò che mi preme è di allontanare l'idea che nell'usare gli occhi del corpo o quelli dell'anima, e incorporando nella  nostra concezione della realtà ciò  che viene così rivelato, noi  stiamo facendo qualcosa di irrazionale e disobbedendo al richiamo di quella verità  che, come scienziati, siamo tenuti a servire. 

          

A.S. Eddington, La scienza e il mondo invisibile, Ares, Roma 2018, pp. 70-75.