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Determinismo

Anno di redazione: 
2002
Alberto Strumia

I. Determinismo e indeterminismo nel pensiero filosofico - II. Determinismo e indeterminismo nelle scienze - III. Caso e finalità.

I. Determinismo e indeterminismo nel pensiero filosofico

1. Una definizione. Per «determinismo» si intende, comunemente, il fatto che le «leggi che governano l’universo (o un suo sottosistema), unitamente alle condizioni iniziali, sono tali da determinare univocamente tutta la sua evoluzione temporale». Viceversa per «indeterminismo» si intende la negazione di questa affermazione.

L’uso abituale di questa terminologia è piuttosto recente. Essa risale al 1927, all’epoca cioè del “principio di indeterminazione” di Heisenberg (1901-1976) ed è stata utilizzata per tutto il XX secolo dai fisici e nel mondo scientifico. Essa, tuttavia, nasconde problemi che sono di natura filosofica e, come tali, sono molto più antichi e vasti dell’attuale questione dell’interpretazione della meccanica quantistica, o delle teorie fisiche in genere: si tratta dei classici problemi della necessità o della contingenza dell’essere e del divenire, della causalità o della casualità degli eventi. Già Aristotele (384-322 a.C.) osservava, in proposito, che «si suol dire che sono cause anche la fortuna e il caso, e che molte cose sono e divengono mediante la fortuna e il caso» (Fisica, II, 4, 195b), ma «poiché vediamo che alcune cose avvengono sempre allo stesso modo e per lo più, è chiaro che di nessuno di questi due gruppi di cose, ossia né di ciò che avviene per necessità e sempre, né di ciò che avviene per lo più, si può affermare che siano causa la fortuna o il fortuito. Ma poiché oltre a questi, si verificano anche altri accadimenti e tutti dicono che essi sono fortuiti, è ovvio che la fortuna e il caso sono pur qualche cosa» (ibidem, II, 5, 196b). Dopo lo Stagirita, questo genere di questioni è rimasto uno dei temi centrali della storia del pensiero e lo si ritrova praticamente in ogni autore. Per questo, per una corretta comprensione del problema del rapporto fra determinismo e indeterminismo, è necessario un approccio interdisciplinare che ne formuli e ne metta a confronto i termini, sia dal punto di vista scientifico che da quello più propriamente filosofico e teologico.

2. Determinismo e libertà. Nel suo percorso verso la conoscenza l’uomo, fin dall’antichità, così come nei tempi più recenti, ha sempre seguito le due strade che gli si sono presentate innanzi come possibili: a) quella della conoscenza di ciò che si offre alla sua esperienza “al di fuori di sé” (il mondo, la natura, il cosmo); b) quella di ciò che si presenta come proveniente “dall’interno di se stesso” (il pensiero, le emozioni, la percezione della libertà, la coscienza di sé).

Spesso si indica la prima via alla conoscenza come “approccio cosmologico” e la seconda come “approccio antropologico”. Ma al di là del problema di quale sia il percorso primario da cui la conoscenza effettivamente trae origine — se cioè la conoscenza abbia la sua origine dall’esperienza sensibile del mondo esterno (nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, come sostiene la tradizione che fa capo ad Aristotele e Tommaso d’Aquino) e solo successivamente, mediante la riflessione, l’“io” abbia esperienza interiore di se stesso; oppure se la conoscenza possa trarre la sua origine da idee innate (Platone, Descartes) o dall’intuizione (Bergson), o da un’illuminazione interiore (Agostino, Bonaventura) — il problema della necessità o contingenza degli esseri e degli eventi, della catena delle cause nel mondo esterno all’uomo, si è sempre presentato in stretta connessione con il problema della libertà umana, che è proprio del mondo interiore. Se dato ogni tipo di causa seguisse infatti necessariamente un effetto univoco (cioè determinato ad unum), non vi sarebbe allora alcuna possibilità di libera scelta per l’uomo, perché tutto sarebbe già determinato, anche nelle scelte della sua volontà. Eppure l’uomo fa esperienza della propria libertà: il problema che si è presentato dunque nella storia del pensiero è stato quello di trovare una spiegazione alla libertà interiore che sia compatibile con una descrizione corretta, sia filosofica che scientifica, del mondo esterno.

L’esito di questo sforzo intellettuale è stato molteplice. Alcuni pensatori hanno preferito, più di una volta, sacrificare, in qualche modo, la libertà; si tratta di un esito più congeniale ai razionalisti: si pensi per esempio a Spinoza (1632-1677), contrario all'evidenza dell'esperienza interiore, ritenendola una pura apparenza illusoria. Altri hanno negato lo stesso nesso causale tra gli eventi (“principio di causalità”) ritenendolo una semplice operazione compiuta dalla nostra mente per una sorta di abitudine che le è propria, piuttosto che una legge di natura, inscritta nella cose. Si tratta questa volta di un atteggiamento più congeniale agli empiristi come, ad esempio, David Hume (1711-1776). Altri ancora hanno cercato, per rispettare maggiormente il dato dell’esperienza, una via per comprendere la coesistenza di causalità e libertà, senza relegare nell’apparenza uno dei due dati, ma riconoscendo ad entrambi una piena realtà metafisica. Questo tentativo ha portato all’introduzione di un elemento “casuale” al fianco di quello “causale”. Basti pensare al clinamen di Epicuro (341-270 a.C.): una sorta di deviazione casuale ed imprevedibile degli atomi, già proposti da Democrito (460-360 a.C.), dalla loro traiettoria causalmente determinata.

Tra i pensatori recenti, di formazione scientifica, non sono mancati coloro che hanno ritenuto di fondare la possibilità della libertà sul “principio di indeterminazione” della meccanica quantistica. Quest’ultimo tipo di approccio risulta essere, però, eccessivamente semplicistico — una sorta di filosofia spontanea degli scienziati, come accade di regola ad ogni trasposizione ontologica di una teoria fisica — in quanto riduce l’orizzonte metafisico all’orizzonte della “quantità” (pur intesa in un senso molto ampio, come potrebbe essere quello di Aristotele, che ci ricorda la moderna topologia) e della “relazione”, categorie che costituiscono il terreno proprio delle scienze matematizzate. In questo orizzonte, infatti, la nozione di causalità risulta essere troppo restrittiva, univocamente ridotta alla semplice interazione “meccanica”, o al più “fisica”, nel senso delle forze fondamentali oggi conosciute. Una tale radicalizzazione metafisica di un principio che nasce dalla fisica, come il principio di indeterminazione, sarebbe, in ultima analisi il semplice rovescio della medaglia del determinismo, in quanto non ne differirebbe qualitativamente, avendo in comune con questo una concezione “univoca” del concetto di causa.

Come conseguenza, da una tale impostazione deriverebbero conseguenze paradossali sia dal punto di vista antropologico che teologico. In primo luogo quella di una “libertà” di scelta intrinseca al comportamento dei componenti fondamentali della stessa materia inanimata (quarks, particelle elementari) identica a quella dell’uomo: gli elettroni sceglierebbero liberamente tra gli stati loro permessi e da noi probabilisticamente conosciuti, come un uomo sceglie liberamente tra diverse possibilità che gli si presentano. In secondo luogo ci troveremmo di fronte ad «una limitazione della conoscenza che anche un Dio onnisciente sarebbe in grado di avere» (cfr. A. Peacocke, God’s Interaction with the World: The Implications of Determinstic Chaos and of Interconnected and Independent Complexity, in R. Russell et al., 1995, p. 279). Ciò equivarrebbe a sostenere che a Dio stesso sarebbero sconosciuti quelli che anticamente venivano designati come i “futuri contingenti”, nel caso in questione l’evoluzione delle singole particelle che la meccanica quantistica non può prevedere: «questo limite alla totale predicibilità si applica a Dio come a noi. […] Dio, naturalmente, conosce al massimo grado ciò che si può conoscere e cioè le probabilità del verificarsi di certe situazioni, le varie possibili traiettorie dei sistemi» (ibidem, p. 281). Non è senza interesse ricordare che già la filosofia medievale si era domandata se l’intelletto divino potesse conoscere anche i singolari ed in particolare quelli che sono futuri contingenti. Le diverse obiezioni prendevano spunto da varie argomentazioni: i singolari, conoscibili solo nella loro determinazione materiale, non parevano adeguati ad un intelletto spirituale; possono non esistere e dunque sono contingenti; dipendono a volte da volontà libere, diverse da quella divina; il loro numero è praticamente infinito, ecc. Tommaso d’Aquino affronterà il tema in modo diretto mostrando come Dio conosca i singolari, gli infiniti ed i futuri contingenti (cfr. Contra Gentiles, I, cc. 65-69).

Si tratta di paradossi che vengono rimossi alla radice, come vedremo, se si fa ricorso ad una concezione “analogica” della causalità, in luogo di quella univocamente meccanica. Per quanto riguarda poi la base fisica necessaria all’attività delle funzioni intellettive e volontarie, essa sembra doversi cercare non all’interno di un confronto fra processi deterministi o indeterministi, ma piuttosto nella complessità dell’organizzazione del vivente più evoluto e del suo cervello. In questo senso la visione aristotelico-tomista e le recenti indagini sulla complessità e sul rapporto mente-corpo appaiono concordare (cfr. Basti, 1991).

Nella visione di Aristotele — e poi di Tommaso d’Aquino che l’ha ripresa e sviluppata — la questione della causalità viene affrontata con la classica dottrina delle quattro cause: materiale, formale, efficiente e finale. Per poter essere compresa in maniera non equivoca — dal momento che nel linguaggio moderno le stesse parole vengono impiegate con significati diversi dall’uso fattone originariamente — la dottrina delle quattro cause richiede che si tengano presenti le due teorie metafisiche ad essa presupposte, e cioè la teoria “ilemorfica” e la teoria della “potenza-atto”. Ne richiamiamo brevemente i tratti essenziali. a) La «causa materiale» è ciò che fornisce il costitutivo base di un oggetto corporeo, rendendolo passibile di essere reso ciò che è con certe proprietà e non altre, cioè di ricevere una certa “forma” (nel senso che Aristotele dà a questo termine); b) la «causa formale» è ciò che fa assumere all’oggetto quella “forma”, quella “natura” che lo caratterizza ora con le sue proprietà, anziché un’altra, ciò che fa sì che un oggetto sia quello che è e non qualcos’altro; c) la «causa efficiente» fa sì che un oggetto fisico, che ora è caratterizzato da questa forma e da queste proprietà, poi assuma quest’altra forma e/o queste altre caratteristiche accidentali (quantitative, qualitative, di collocazione, ecc.) ed è quindi responsabile del mutamento e perciò anche del movimento in senso locale (ma non solo) che è un particolare tipo di mutamento; d) la «causa finale», infine, si trova dalla parte dello stato finale da raggiungere al termine di un certo mutamento. In questa prospettiva è la causa finale la più importante, e da essa le altre cause si trovano in qualche modo a dipendere. Il fine da raggiungere determina la costituzione materiale di un oggetto, le sue caratteristiche essenziali (forma), ed esige una causa efficiente adeguata per compiere il mutamento da un certo stato iniziale verso quello finale da raggiungere.

Con una simile concezione della causalità, il rapporto causa-effetto non è riducibile alla semplice interazione meccanica, o elettromagnetica, o fisica come oggi la intendiamo. La causa in senso forte (metafisico) è piuttosto quella che fa “essere” qualcosa e lo fa essere in un certo modo, e non semplicemente quella che lo fa “muovere” localmente. La causalità viene così concepita in senso “analogico”. Dio, come Causa Prima, può avere fra i suoi effetti anche l’uomo, ossia un essere dotato di una volontà “libera” e non univocamente determinata (cfr. Summa theologiae, I, q. 83, a. 1, ad 3um; De Veritate, q. 24, a. 1, ad 3um). In altri termini, in una concezione analogica, e quindi non meccanicista o fisicalista della causalità, c’è lo spazio per (anzi la necessità di) una causa i cui effetti possono essere gli atti liberi della volontà di un soggetto razionale come l’uomo, atti che Dio può conoscere anche singolarmente e ai quali dà l’essere, rendendo così possibile l’esistenza di ogni libera scelta dell’uomo.

Si tratterà poi di comprendere in che modo una volontà libera possa agire servendosi di una materia governata da certe leggi fisiche. Probabilmente questo tipo di indagine, che chiama in causa direttamente la psicologia, le scienze cognitive, la fisiologia e la biologia, dovrà attendere ancora non poco tempo per raggiungere un livello compiuto. Oggi sembra, comunque, che una linea di orientamento interessante si sia ormai aperta nella direzione delle scienze della complessità, in quanto queste urgono un superamento del riduzionismo e un ripensamento della razionalità scientifica orientato ad un recupero della analogia.

Come osserva John Polkinghorne, «la causalità che più facilmente la fisica è in grado di descrivere è una causalità bottom-up generata dall’interazione energetica tra le parti che costituiscono un sistema. L’esperienza dell’azione umana sembra essere totalmente diversa. È l’azione della persona nella sua totalità e come tale sembrerebbe descritta in modo più appropriato come una causalità top-down, come l’influsso del tutto che comporta l’attività coerente delle parti. Non è possibile trovare simili forme di causalità top-down anche altrove, comprendendo anche l’influsso di Dio sul tutto della creazione?» (The Metaphisics of Divine Action, in R. Russell et al., 1995, p. 151).

  

II. Determinismo e indeterminismo nelle scienze

Nel contesto delle scienze, soprattutto quelle fisiche e biologiche, la questione del determinismo/indeterminismo si è storicamente presentata sotto aspetti diversi nell’ambito della meccanica (e più in generale della fisica) classica e in quello della meccanica quantistica.

1. Determinismo meccanicista. È noto che la “meccanica classica” — cioè la meccanica newtoniana, insieme a quella einsteiniana, cioè alla “meccanica relativistica” — prevede, in base alle sue leggi, la possibilità di determinare in maniera esatta in ogni istante futuro, o passato, del tempo, la posizione e la velocità di una particella, schematizzata con un punto dotato di massa, qualora si conoscano la legge della forza agente sul punto e le condizioni iniziali, cioè la posizione e la velocità della particella in un istante assegnato del tempo. In questo senso si dice che la meccanica classica è “deterministica”. È ben nota, in proposito l’affermazione di Laplace che dichiarava la possibilità, di principio, di conoscere il futuro dell’universo, così come il suo passato, qualora si fosse in grado di conoscere le forze agenti, la posizione e la velocità di tutte le particelle che lo compongono, in un qualche istante. La difficoltà sarebbe stata tecnica dal momento che non si può praticamente disporre della conoscenza di tali informazioni e, qualora anche se ne potesse disporre, non si sarebbe in grado di svolgere una simile mole di calcoli.

2. Indeterminismo statistico. Quest’ultima difficoltà si incontra già quando si cerca di controllare il comportamento delle molecole che si muovono in un recipiente contenente un liquido o un gas. Ciò che si può fare, in questo caso, è un affronto del problema in termini statistici, cioè uno studio del “comportamento medio” delle particelle del sistema. La “meccanica statistica” è così in grado di dare informazioni esatte inerenti alla “probabilità” che una particella si trovi in una certa regione, con una velocità compresa fra certi valori. Nasce in questo modo, nell’ambito di una meccanica deterministica come la meccanica classica, un’“indeterminazione” sulla conoscenza della posizione e della velocità della particella singola, che è di natura statistica, dovuta ad un’impossibilità pratica di indagine e di calcolo completa. Si parla in questo caso di “indeterminismo statistico”. Ciò che si riesce a determinare, in questo caso è solamente la “probabilità” che una particella si trovi in una certa regione e sia dotata di una velocità il cui valore è compreso all’interno di un certo intervallo. L’indeterminazione emerge a livello macroscopico, mentre non è presente a livello microscopico. Alla base di una indeterminazione statistica vi è ancora una meccanica deterministica. Va precisato che questo tipo di indeterminismo non è insito nelle leggi della meccanica classica, che sono deterministiche, ma deriva dai limiti intrinseci delle capacità conoscitive dell’osservatore. Si potrebbe parlare di un indeterminismo “soggettivo” più che di un indeterminismo “oggettivo”.

3. Indeterminismo quantistico. Nell’ambito della “meccanica quantistica”, invece, come si è visto in precedenza, stando all’interpretazione della scuola di Copenhagen, l’indeterminismo non è dovuto all’impossibilità pratica di accedere a tutte le informazioni necessarie per la conoscenza deterministica del moto delle particelle, ma è una “legge di natura”, cioè costituisce un’impossibilità “teorica”, e si colloca al livello microscopico del sistema. Secondo questa interpretazione, la meccanica quantistica non sarebbe una meccanica statistica — come riteneva Einstein e oggi i sostenitori delle “variabili nascoste”, necessarie a completare deterministicamente la meccanica quantistica — e l’indeterminismo non nascerebbe in essa per ragioni di ignoranza, ma per un’impossibilità di principio. In questo caso una “meccanica indeterministica” sarebbe alla base di una indeterminazione di natura non statistica.

Tutto ciò è descritto con molta chiarezza e convinzione da Erwin Schrödinger, il padre della meccanica quantistica nella sua versione di “teoria ondulatoria”, in una pagina che merita di essere citata per intero: «“Allora” il superamento del determinismo era per così dire “pratico”, “adesso” si ammette che sia teorico. L’opinione di allora era: se conoscessimo esattamente la posizione e la velocità iniziale di ogni singola molecola, e trovassimo il tempo per tenere dietro con un calcolo preciso a tutti gli urti, sarebbe possibile prevedere esattamente tutto ciò che deve accadere. Solo l’impossibilità pratica: 1° di determinare esattamente le condizioni iniziali delle molecole; 2° di seguire col calcolo i fatti molecolari singoli, ci ha indotti a contentarci di “leggi medie” (senza provarne dispiacere, perché esse rappresentano proprio ciò che possiamo realmente osservare coi nostri sensi grossolani, e perché tali leggi hanno ancora una precisione tale da renderci capaci di fare previsioni sufficientemente sicure). Dunque: si continuava a immaginare i fenomeni determinati per via strettamente causale nell’ambito degli atomi e delle molecole prese singolarmente. Ciò costituiva in certo qual modo lo sfondo o base delle leggi statistiche di massa, le uniche, in realtà, accessibili all’esperienza. La massima parte dei fisici riteneva indispensabile, per il mondo fisico, una base strettamente deterministica. Essi erano convinti che il contrario non fosse nemmeno “pensabile”; ammettevano senz’altro che, almeno nel processo elementare, per esempio nell’urto di due atomi, il “risultato finale” fosse contenuto implicitamente, con precisione e piena sicurezza, nelle condizioni iniziali. Si disse e si dice talvolta ancor oggi che una scienza naturale esatta non sarebbe possibile, in alcun caso, su un’altra base; che senza una base strettamente deterministica tutto diventerebbe inconsistente. La nostra “immagine” della natura degenererebbe in un caos e non corrisponderebbe dunque alla natura effettivamente “esistente”, perché questa, tutto sommato, non è un perfetto caos. Tutto ciò è indubbiamente “falso”. È senza alcun dubbio lecito modificare l’immagine di quanto avviene secondo la teoria cinetica in un gas: si può pensare che, nell’incontro di due molecole, la traiettoria sia determinata “non dalle note leggi sull’urto”, ma da un adatto “giuoco di dadi”» (Schrödinger, 1987, p. 19).

Va, comunque precisato, che nella meccanica quantistica, vi è ancora qualcosa di deterministico ed è la funzione d’onda ψ che evolve deterministicamente nel tempo secondo l’equazione di Schrödinger, tuttavia è il suo significato fisico ad essere indeterministico dal momento che in essa non sono contenute altro che informazioni sulla probabilità di trovare un sistema in un certo stato, almeno secondo l’interpretazione di Copenhagen.

E ancora è degna di nota l’osservazione dello stesso Max Born sulla necessità di non identificare “causalità” e “determinismo” come ha fatto il meccanicismo. Nella meccanica quantistica «non è la causalità propriamente detta ad essere eliminata, ma soltanto una sua interpretazione tradizionale che la identifica con il determinismo» (Filosofia naturale della causalità e del caso, 1982, p. 129). In particolar modo egli sottolinea il fatto che «l’affermazione frequentemente ripetuta , secondo la quale la fisica moderna ha abbandonato la causalità, è del tutto priva di fondamento. È vero che la fisica moderna ha abbandonato e modificato molti concetti tradizionali; tuttavia cesserebbe di essere una scienza se avesse rinunciato a ricercare le cause dei fenomeni» (ibidem, p. 14).

4. Determinismo e indeterminismo nei sistemi non lineari - caos deterministico. Una terza situazione in cui si presentano delle indeterminazioni, fu notata già da Poincaré nel 1890 nell’ambito della “meccanica classica non lineare”, ma è passata sotto silenzio per lungo tempo a causa del boom della meccanica quantistica, che ha soppiantato la meccanica classica come inadeguata a spiegare il mondo microscopico. Solo a partire dal decennio 1960-70 si sono ripresi in grande considerazione questi studi che, a partire da quel momento, hanno avuto un largo sviluppo nella letteratura scientifica e, più tardi, anche divulgativa.

Si è notato che la maggior parte delle equazioni differenziali che descrivono sistemi meccanici, anche relativamente semplici, sono equazioni “non lineari”, cioè equazioni tali che la somma di due soluzioni non costituisce una nuova soluzione. Per questa categoria di equazioni, nella maggior parte dei casi, le soluzioni presentano un carattere di “instabilità”. Ciò significa che un errore anche piccolissimo nella conoscenza delle condizioni iniziali, rispetto alle condizioni teoricamente volute, comporta, dopo un certo tempo, una deviazione dalla traiettoria teoricamente prevista che tende a divenire sempre più grande secondo un andamento esponenziale. Poiché non possiamo conoscere le condizioni iniziali con precisione infinita, ci troviamo nelle condizioni di non poter fare previsioni attendibili se non entro tempi relativamente brevi. In questa situazione si produce, in prossimità dei cosiddetti “attrattori strani” (strange attractors), quello che è ormai noto come “caos deterministico” (cfr. Gleick, 1989; Devaney, 1990). In effetti solo una minoranza dei sistemi fisici ha un comportamento stabile, e quindi non caotico: in questi sistemi l’errore sulle condizioni iniziali tende a mantenersi limitato e, in presenza di dissipazione, addirittura a scomparire col passare del tempo, cosicché la traiettoria reale tende asintoticamente ad identificarsi con quella teorica.

Del problema della forte sensibilità alle condizioni iniziali non ci si era accorti perché si sapevano trattare con generalità solo le equazioni differenziali lineari; in realtà oggi sappiamo che la maggior parte dei sistemi fisici richiede di essere studiato con equazioni non lineari (cfr. F.T. e I. Arecchi, 1990, pp. 23-24).

In questo caso una meccanica governata da leggi “deterministiche” è alla base di una “indeterminazione” di natura “non statistica” (perché si presenta per una singola particella e non solamente in presenza di grandi numeri), e che dipende questa volta dalla forte sensibilità rispetto alle condizioni iniziali. L’indeterminazione è qui legata ad una limitazione intrinseca di uno strumento matematico, quale è l’equazione non lineare, e non è una legge fisica, come invece nel caso del principio di Heisenberg della meccanica quantistica. La matematica si dimostra in questo caso solo limitatamente capace di fare previsioni quando viene applicata a problemi di natura fisica, in quanto non è possibile, né sperimentalmente, né teoricamente, conoscere con precisione infinita (cioè con infinite cifre decimali) i numeri che costituiscono le condizioni iniziali del moto di un sistema meccanico. Abbiamo qui un esempio in cui la natura dimostra di non essere totalmente rappresentabile da un approccio matematico (impredicibilità).

Questa situazione pone diversi interrogativi alle scienze odierne. Il primo di questi riguarda, appunto, l’adeguatezza degli strumenti matematici, di cui ora disponiamo, a descrivere il mondo naturale. Già un semplice sistema meccanico di tre corpi interagenti risulta matematicamente impredicibile. A maggior ragione risultano tali le strutture complesse soggetto di auto-organizzazione, come i sistemi biologici. Tutto questo sembra poter indicare almeno due cose: a) o ci si orienta nel senso di “ampliare” le teorie e le metodologie matematiche in modo da renderle più adatte ad una descrizione di questi aspetti della natura; b) oppure ci si orienta verso una concezione della scienza in cui non è indispensabile, o comunque esauriente, l’uso della matematica, pur mantenendo una metodologia logico-dimostrativa.

Nella prima direzione si stanno muovendo diverse ricerche, per esempio, nell’ambito della matematica e della logica (De Giorgi e al., 1995-96; Basti e Perrone, 1996) e anche nella direzione di una formulazione moderna della teoria dell’analogia. Nella seconda direzione si è mossa finora, tra le scienze naturali, la biologia e, in parte, la chimica.

  

III. Caso e finalità

Che cos’è il caso? Sia nelle scienze come nella filosofia, come del resto nel linguaggio comune, il termine «casuale» viene impiegato abitualmente in contrapposizione al termine «causale».

Seguendo una nota classificazione tomista, chiamiamo «casuale» ogni evento che a) si presenta come privo di una “causa diretta” (per se) controllabile e, come tale, risulta essere imprevedibile; b) si presenta senza scopo, senza un fine (cfr. In I Sent. d. 39, q. 2, a. 2, ad 2um). Esamineremo brevemente queste due caratteristiche, aggiungendo poi alcune osservazioni sugli aspetti metafisico-teologici.

1. Assenza di una causa diretta. Un evento realmente casuale si presenta come una concomitanza accidentale di due eventi, tra loro indipendenti, ciascuno dei quali è effetto di una propria causa diretta, mentre non vi è una causa diretta della concomitanza stessa. Il fatto — per fare un esempio di vita quotidiana — che due amici si incontrino in piazza, provenendo da vie diverse, senza essersi dati appuntamento è “casuale” (cfr. Aristotele, Fisica, II, 4, 196a). Certamente c’è una causa al fatto che ciascuno dei due sia uscito di casa e si sia diretto in quella piazza in quel dato momento, ma non c’è una causa diretta al loro incontrarsi, o almeno non si tratta di una causa dello “stesso livello” di quelle che hanno mosso i due amici ad uscire di casa: potrebbe esserci stata, per esempio una telefonata di una terza persona che li ha convocati, con qualche motivazione, l’uno all’insaputa dell’altro per fare loro una sorpresa… Avremmo, così una sorta di causa del “secondo livello” che si serve delle cause di “primo livello” rappresentate dalle libere decisioni di ciascuno dei due amici di uscire per andare in piazza.

Le scienze, basandosi sull’osservazione sperimentale, hanno preso atto, nel corso della loro storia, di due situazioni che si presentano sistematicamente al ricercatore: la prima consiste nella regolare associazione tra la presenza di due fenomeni posto l’uno dei quali si dà di conseguenza anche l’altro (e non viceversa), per cui si riconosce nel primo la “causa” del secondo; la seconda consiste nella constatazione di comportamenti che paiono avvenire senza una causa diretta evidente. Questi ultimi vengono considerati “casuali”.

Se il determinismo appare, nelle scienze, come strettamente legato ad una descrizione causale dei fenomeni osservati, viceversa l’indeterminismo, nelle diverse forme in cui si manifesta, introduce sempre un elemento non controllabile la cui origine è considerata, dallo scienziato, di natura casuale. Dal punto di vista di principio, tuttavia, è ben diverso imputare la casualità ad una ragione pratica, legata ai limiti conoscitivi dell’osservatore, piuttosto che ad una motivazione teorica, di principio, che è inscritta nella natura delle cose. Filosoficamente parlando il “caso”, nel senso forte del termine, è solo quello che deriva da una tale motivazione di principio.

2. Assenza di un fine. L’assenza di una causa diretta nell’evento casuale è legata al fatto che esso non ha un fine: ciò che avviene per caso è, per definizione, senza scopo.

Il problema del rapporto tra causalità, casualità e finalità ha avuto un ruolo rilevante nella discussione sul metodo scientifico, come mostra ad esempio il grande fermento suscitato dall’opera di J. Monod Il caso e la necessità (1970): la finalità, esclusa metodologicamente dalle scienze fisiche, si sta riaffacciando da tempo come principio adeguato di spiegazione (cfr. ad es. F. Selvaggi, 1953, pp. 260-261), ad esempio in cosmologia nel dibattito sul Principio antropico e in biologia attraverso il concetto di «teleonomia». Questo concetto capovolge, in un certo senso, la nozione di “condizioni iniziali”, propria della fisica, rimpiazzandolo con quello delle “condizioni finali” che devono essere realizzate da un sistema sulla base di un programma predeterminato, come in biologia può essere il codice del DNA (cfr. Cini, 1994, p. 236).

Tra l’altro questa possibilità di scambio tra condizioni iniziali e finali è sempre stata presente, in linea di principio anche nella meccanica classica, in quanto la matematica delle equazioni differenziali non specifica l’istante in cui tali condizioni debbano essere assegnate (cfr. Dallaporta, 1997, p. 36). La simmetria tra condizioni iniziali e finali viene significativamente rotta a favore della condizione finale nel caso di un sistema dissipativo dotato di un attrattore stabile: in questo caso, infatti, qualunque siano le condizioni iniziali, che cadono nel bacino di attrazione, l’evoluzione del sistema tenderà a stabilizzarsi asintoticamente, dopo qualche tempo, sull’attrattore che risulta così essere lo stato finale del sistema. L’esempio più familiare è offerto da un pendolo con attrito che tende a raggiungere, dopo un certo tempo, la posizione di equilibrio stabile qualunque siano la posizione e la velocità iniziale del suo moto, o da un circuito oscillante, con resistenza, sollecitato da una frequenza forzante, che dopo un certo tempo raggiunge la condizione di regime avendo dissipato l’energia associata ai “transienti”.

3. Dio e il caso. Dal punto di vista metafisico-teologico i problemi legati al determinismo e all’indeterminismo — oltre alla questione della libertà, cui si è già accennato — pongono alcuni interrogativi al riguardo dell’azione divina. Come può esservi un’azione di Dio sul mondo — e in prospettiva più propriamente teologica una Provvidenza divina — se si ammette che esistano eventi “casuali”, cioè senza uno scopo, non tali solo a motivo della nostra ignoranza, bensì privi di una causa diretta (per se) sul piano fisico?

Se non si riconosce l’analogia della causalità, cioè l’esistenza di livelli e modi differenziati secondo i quali la causalità può e deve esercitarsi e comprendersi, ma si presuppone il solo modo fisico-meccanico di essere causa di un ente nei confronti di un altro, si vengono prima o poi ad attribuire al “caso” gli stessi caratteri di una causa efficiente dalla quale scaturirebbero degli eventi casuali. E poiché il caso non ha una causa diretta (fisico-meccanica) da cui deriva, esso viene a prendere, di fatto, il ruolo della “causa prima”, per cui tutto scaturisce dal caso. È la posizione che si ritrova, ad esempio in Monod, quando afferma «che “soltanto” il caso è all’origine di ogni novità, di ogni creazione nella biosfera. Il caso puro, il solo caso, la libertà assoluta ma cieca, è alla radice del prodigioso edificio dell’evoluzione» (J. Monod, tr. it. Milano 1971, pp. 95-96). Ma ciò appare contraddittorio per la definizione stessa del “caso”, che per verificarsi presuppone l’esistenza di altre cause (indirette) che lo precedono e i cui effetti si trovano ad essere accidentalmente concomitanti: dunque il caso non può prendere il posto della causa prima se richiede altre cause per poter risultare come concomitanza dei loro effetti, se mai la presuppone.

Una soluzione intermedia, certamente interessante, è proposta da Peacocke. Contrapponendosi a Monod egli riconosce sì l’esistenza della causalità e quindi di una causa prima, ma richiede che questa, in qualche modo, si “autolimiti” per lasciare un certo spazio alla casualità. L’azione causale di Dio si differenzierebbe da quella puramente fisico-meccanica per essere di tipo “informativo”, come un’azione immateriale che interagisce con il mondo nel suo complesso e lascia alle leggi della complessità il governo degli eventi singoli. Dio, agendo, come informatore, sul “mondo come un tutto”, non avrebbe a che fare con gli eventi singolari e non conoscerebbe di conseguenza i “futuri contingenti” che sarebbero lasciati decidere dalla complessità dei sistemi fisici e biologici (cfr. God’s Interaction with the World: The Implications of Determinstic Chaos and of Interconnected and Independent Complexity, in R. Russell et al., 1995).

Questo approccio, ispirandosi ai sistemi complessi e alla teoria dell’informazione, riesce ad introdurre una certa diversificazione tra i modi di causalità (azione “fisica” e azione “informativa”), ma sembra avere ancora il limite di concepire la causalità divina e il caso come due concorrenti che devono spartirsi il campo d’azione, non giungendo ancora a quell’analogia della causalità divina che consente al caso di verificarsi senza togliere qualcosa alla causa prima. Ma anche in questa prospettiva non sembra potersi rimuovere del tutto la contraddizione: infatti, per la definizione stessa di caso, questo sussiste solo se vi sono cause che lo precedono, producendo effetti concomitanti casualmente, e non si comprende come il singolo evento casuale possa esistere, in certo modo, indipendentemente dalla “causa prima” negli spazi particolari che essa gli lascia liberi.

Il fatto che certe concomitanze siano casuali, cioè prive di una causa “diretta” (o “causa seconda” nel linguaggio filosofico), non significa che siano prive, anche singolarmente considerate, di una causa in senso assoluto: occorre tenere presente una gerarchizzazione dei livelli della causalità. Metafisicamente parlando tutto ciò che esiste è originato e mantenuto nel suo essere dalla causa prima (Dio) che è anche il fine ultimo dell’esistenza delle cose. E la “causa prima” agisce attraverso una catena di “cause seconde”, fino a quelle che sono più prossime e che agiscono direttamente sul singolo oggetto della nostra osservazione. Così anche gli eventi che sono casuali, in quanto non paiono avere una causa diretta, sono comunque causati da un livello superiore della catena delle cause. E in questo sta l’azione divina che, anche attraverso gli eventi casuali orienta verso il fine ultimo tutte le cose. In merito ai rapporti con l’esistenza di una Provvidenza divina, Tommaso d’Aquino ha offerto una trattazione adeguata della problematica, mostrando che la Provvidenza non esclude la contingenza, non toglie dalle cose la fortuna e il caso, si estende ai singolari contingenti e che, in linea di principio, agisce sia in modo diretto, sia mediante l’azione delle cause seconde (cfr. Contra Gentiles, III, cc. 72-77). Una formula singolare per descrivere sinteticamente il rapporto del caso con Dio è stata escogitata da D. Bartholomew, che dimostra di avere un approccio più vicino a quello tomista. Egli parla di «Dio del caso», vedendo in tal modo il caso come una parte deliberata, e forse necessaria, della creazione di Dio (cfr. Bartholomew, 1987).

Il caso non è dunque qualcosa che sfugga dalle mani di Dio, né qualcosa che gli si contrapponga o che non abbia in lui una sua ultima spiegazione: «Se il caso non si spiegasse la vita degli individui sarebbe sommersa nel disordine. D’altra parte se si ammette che ci deve essere una Causa universale del mondo, questa Causa deve essere responsabile di tutto quello che esiste, anche del caso. “E così risulta che tutte le cose che accadono, se si riferiscono alla Prima Causa divina, sono ordinate e non esistono accidentalmente, anche se rispetto ad altre cause possono dirsi per accidens” (Tommaso d’Aquino, In VI Metaph., lect. 3)» (Sanguineti, 1986, p. 239). Osserviamo infine che lo stesso concetto viene espresso con un linguaggio più teologico dal Catechismo della Chiesa Cattolica: «Dio è il Padrone sovrano del suo disegno. Però, per realizzarlo, si serve anche della cooperazione delle creature. Questo non è un segno di debolezza, bensì della grandezza e della bontà di Dio onnipotente. Infatti Dio alle sue creature non dona soltanto l'esistenza, ma anche la dignità di agire esse stesse, di essere causa e principio le une delle altre, e di collaborare in tal modo al compimento del suo disegno» (CCC 306).

  

Bibliografia: 

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