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Cielo

Anno di redazione: 
2002
Giuseppe Tanzella-Nitti

I. Osservazione del cielo ed esperienza religiosa naturale - II. L'associazione fra fenomeni celesti e vita umana nell'astrologia mesopotamica e nel politeismo greco - III. I riferimenti al cielo e ai corpi celesti nella Sacra Scrittura - IV. Il cielo nel linguaggio teologico.

Se la natura, nel senso più ampio del termine, è il luogo da cui hanno preso avvio non soltanto la riflessione filosofica, e poi quella scientifica, ma anche la primitiva sensibilità religiosa, il «cielo» rappresenta in modo particolare quello "spazio concettuale ed esperienziale" ove l'intreccio fra scienza, filosofia e religione ha raggiunto le manifestazioni filosoficamente più profonde e culturalmente più espressive. In ambito scientifico è stata probabilmente l'astronomia, cui spetta il primato di aver sviluppato una metodologia basata sull'osservazione della regolarità dei fenomeni celesti e sulla loro predicibilità, ad aver consegnato alla filosofia i principali elementi di riflessione per la formazione delle diverse concezioni del cosmo e del posto occupatovi dall'uomo. Ma l'osservazione del cielo e dei suoi fenomeni ha condizionato anche il linguaggio della religione e le forme espressive di non pochi dei suoi contenuti, generando un contesto sacrale dal quale neanche la tradizione ebraico-cristiana, sebbene con il suo messaggio specifico ed originale, ha potuto né ha voluto prescindere.

Dell'associazione fra osservazione del cielo e religione resta inoltre ampia testimonianza in molte manifestazioni dell'arte e della cultura umana, dalle costruzioni primitive alle grandi cattedrali medievali. Vari monumenti dell'antichità - basterà qui ricordare l'area cultuale di Stonehenge e non poche fra le piramidi - avevano una finalità insieme religiosa ed astronomica. Nell'età media, le cattedrali gotiche offriranno probabilmente il migliore esempio di connubio fra fede e geometria. Molti luoghi di culto, cristiani e non, manterranno la più antica tradizione di concepire il tempio come simbolo e rappresentazione del cosmo. In essi si continuerà a prestare attenzione alla posizione del sole: il passaggio della sua luce attraverso finestre, oculi e lunette scandisce le ore della preghiera nelle costruzioni eremitiche della cristianità celtica, indica giorni e mesi dell'anno sui pavimenti delle cattedrali, illumina mosaici e bassorilievi della Vergine Maria o dei santi in corrispondenza delle loro principali feste liturgiche.

    

I. Osservazione del cielo ed esperienza religiosa naturale

Dal punto di vista lessicale, il termine «cielo» (lat. coelum, gr. ouranós) in quasi tutte le lingue moderne presenta una certa ambivalenza, essendo utilizzato sia in ambito scientifico che religioso. Solo la lingua inglese conserva la traccia di una originaria differenza distinguendo sky, inteso in senso oggettivo-scientifico, da heaven, inteso in senso religioso. Ma anche nell'ebraico biblico è possibile cogliere qualche sfumatura: il termine samayim, «cielo», che è in realtà una forma plurale («i cieli»), sebbene sia usato come sinonimo di raqîa', cioè «firmamento» (come per es. in Gen 1,8: «Dio chiamò il firmamento cielo»), ha preferibilmente un significato religioso, mentre il secondo ne individua maggiormente l'aspetto cosmogonico. Nel linguaggio della letteratura e della cultura in genere, siamo abituati al fatto che il cielo di Galileo e quello di Leopardi siano indicati dallo stesso termine, il medesimo che ritroviamo nella preghiera insegnata da Gesù di Nazaret ai suoi discepoli, quando questi pregano un «Padre nostro che è nei cieli», creatore del «cielo e della terra». Il sovrapporsi di diverse esperienze religiose, esistenziali, culturali e scientifiche fa del «cielo» un luogo di confronto interdisciplinare, ma può evocare al contempo anche degli interrogativi. Ad alcuni di essi l'epoca moderna ha creduto a volte di poter rispondere con la semplice sostituzione dell'oggetto dell'esperienza religiosa con l'oggetto dell'osservazione scientifica.

1. Il cielo, luogo della trascendenza divina. Nella maggior parte delle religioni primitive, il nome della divinità pare rimandare, in un modo o nell'altro, al contesto uranico. Un riferimento esplicito al ruolo giocato in proposito dall'osservazione del cielo è raccolto in un frammento di Aristotele, secondo il quale l'umanità avrebbe derivato la nozione di Dio, assai prima che i filosofi cominciassero ad occuparsene in modo riflesso, da due fonti principali: il movimento ordinato delle stelle e l'anima umana (cfr. Opere, Roma-Bari 1988, v. XI, p. 208). Analogamente Cicerone, nel Libro secondo della sua opera De natura deorum riferisce che la nozione di Dio - o meglio degli dèi - fu accolta fin dalla più remota antichità a motivo di quattro fattori: il desiderio di conoscere cose future; la gratitudine e la meraviglia per le cose benefiche che riceviamo dalla natura; l'azione di agenti atmosferici sconvolgenti capaci di causare sentimenti di timore e di dipendenza; l'ordine mirabile che si riscontra nel cosmo ed in particolare nel cielo stellato. Ancora molti secoli più tardi ritroveremo una considerazione per molti versi analoga in una ben nota affermazione di Kant: «Due cose riempiono l'animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me» (Critica della ragion pratica, Roma-Bari 1989, p. 197).

In senso stretto, i nomi delle divinità o dell'Essere supremo ai quali rimandano la gran maggioranza delle tradizioni religiose non si identificano con il «cielo» in quanto tale, ma parlano più spesso di Qualcuno che vi abita come nella sua dimora. Il cielo viene associato con naturalezza, fin dall'antichità, al "luogo della trascendenza", perché della trascendenza esso ne mostra e ne concretizza gli attributi: immensità, elevazione, eternità, stabilità, sede di fenomeni e di energie assai superiori rispetto a quanto accessibile o controllabile dall'uomo sulla terra. «La contemplazione della volta celeste, da sola, suscita nella coscienza primitiva un'esperienza religiosa [.]. Il cielo si rivela per quel che è in realtà: infinito, trascendente. La volta celeste è per eccellenza "cosa del tutto diversa" dalla pochezza dell'uomo e del suo spazio vitale» (Eliade, 1976, p. 43). Ma la stretta associazione fra divinità e cielo non implica necessariamente un "naturalismo uranico": nelle religioni arcaiche, cioè, gli esseri supremi non sono riducibili ad una mera ierofania (manifestazione del sacro o del divino) del cielo e dei suoi fenomeni. Il loro "essere" è qualcosa di più e la loro personalità più ricca di quanto le sole ierofanie celesti facciano pensare. Anche quando la, o le, divinità "sono il cielo", di fatto esse sono "più del cielo".

Il rapporto fra il cielo e la divinità in quanto tale viene messo in luce da alcuni nomi propri delle divinità più antiche. Fra i numerosi popoli primitivi dell'Africa, Kkaang è per i Boscimani «colui che dimora nei cieli», Imana presso i Bantu del Ruanda è «colui che ha fatto i cieli e vi abita», Ngai è per i Masai «colui che abita nei cieli, dietro le nuvole». Fra gli eschimesi, Tulugankul è «colui che vive nei cieli», per gli indiani della California, Kareya è «quello lassù», così come per i Guaranì, Tamoi è «il vecchio lassù»; mentre invece per gli indiani Sioux e per gli Uroni i nomi corrispondenti, Wakan e Orenda, indicano anche il cielo in sé. Presso i popoli primitivi australiani, l'essere supremo Kohin, adorato nella regione dell'Herbert River, «dimora nella Via Lattea ed invia il fulmine», Nurelle, adorato dai Wimbajo, è «chi, salito al cielo, ogni mese distrugge la luna e ha fissato il sorgere e il tramontare del sole». Fra i nomi attribuiti all'Essere supremo da altri popoli australiani si trovano significati espressivi: colui che, abitando nel cielo, «ha come mogli le stelle» (Atnatu, presso i Kaitish) o, anche, «le stelle sono i fuochi del suo accampamento» (Tukura, presso i Loritja). Riferimenti poi al tuono come alla sua voce, al fulmine come al segno della sua azione, al sole e alla luna come ai suoi occhi, sono presenti un po' ovunque. Nelle religioni telluriche, nelle quali cioè il nome della, o delle, divinità principali fa riferimento alla terra, si trova con frequenza anche un dio di derivazione uranica, il cui rapporto coordinato emergerà specie nello sviluppo delle complesse cosmogonie che conterranno le "narrazioni delle origini".

Nei confronti della vita e dell'attività umana primitiva, il cielo si impone come sede della divinità anche a motivo della localizzazione delle principali e più frequenti manifestazioni metereologiche. Alla pioggia, al tuono, al fulmine, ecc., si tenta di associare la volontà della divinità: ad esse l'uomo risponde con la preghiera. L'arcobaleno viene così associato ad un segno di pacificazione, termine di un'epoca più o meno lunga di sconvolgimento e di travaglio. La divinità uranica delle principali religioni naturali, specie se identificata con l'Essere supremo, possiede con frequenza gli attributi di Padre, Sovrano, Fattore, Ordinatore. Al pari della sua (onni)potenza, elemento primitivo della sua personalità "celeste", ancor prima che la bontà o la giustizia, è piuttosto l'onniscienza: come il cielo sovrasta la terra, così dio sovrasta col suo sguardo la vita umana, servendosi del sole, della luna o delle stelle come dei "suoi occhi".

Secondo la prospettiva storica oggi maggiormente accettata, l'associazione puntuale fra nomi di divinità e nomi di corpi (pianeti) o di figure (costellazioni) celesti, si manifesterebbe in un momento successivo, in presenza di elaborazioni culturali più articolate; perfino l'adorazione del sole, ritenuta un tempo un culto assai primitivo, non sembra aver svolto un ruolo religioso originante, ma derivato. Col passare del tempo, la relativa "passività" delle divinità uraniche cede il posto alle divinità telluriche, più vicine all'uomo, maggiormente "attive" e più facilmente in sintonia con i bisogni del quotidiano esistere. L'animismo e il totemismo rappresentano così la "caduta" del sacro dalla trascendenza del cielo al concreto del vissuto, fino al culto degli spiriti dei defunti e al sorgere delle numerose divinità locali, adibite alle molteplici funzioni di protezione e di propiziazione. Nell'antica Grecia questo passaggio sarà paradigmaticamente rappresentato dalla sostituzione del culto di Ouranos con quello di Zeus, che finirà con l'assumere le caratteristiche del precedente dio celeste supremo. Il riferimento uranico, però, non abbandonerà mai il linguaggio religioso dell'umanità: esso permarrà nel nome comune «dio», una delle cui possibili etimologie rimanda ancora a «cielo» e a «luce del giorno» (indoeuropeo dyeuh, lat. dies) e sarà ancora riconoscibile in uno dei nomi di Zeus-Giove, cioè Jupiter(dyeuh-pater), cielo-padre o Padre del cielo.

2. Il significato mitico-religioso di alcuni fra i principali corpi celesti. Riveste un certo interesse, quale segno dell'importanza della volta celeste e dei suoi fenomeni nella primitiva coscienza religiosa dell'umanità, mostrare alcuni esempi della ricchezza di contenuti mitico-religiosi originatisi a partire dall'osservazione del cielo.

Fra questi merita attenzione in primo luogo l'osservazione del sole. Ritenuto fino alla fine del XIX come arcaico ed universale, il culto del sole ha visto la sua importanza ridimensionarsi dopo gli studi della storia delle religioni del XX secolo. Le uniche civiltà espressamente dedite a tale culto, le cui origini non sono fra le più antiche, furono quella egiziana nel bacino del Mediterraneo e le popolazioni del Messico e del Perù nel continente americano. È invece certamente più diffuso, e di origine più primitiva, attribuire al sole il ruolo di una ierofania, detta anche «solarizzazione», con la quale l'astro diviene segno, rimando e manifestazione del dio supremo o di una divinità particolare. Restano comunque legati al linguaggio umano e religioso il riferimento al sole come simbolo di onniveggenza (nulla può sottrarsi al suo sguardo), come garante della vittoria della luce sulle tenebre e del calore sul gelo (ciclicità stagionale e dei moti annuale, ma anche diurno, che non lo vedono mai soccombere), protagonista unico di un percorso maestoso, dal carattere eroico, da un capo dell'altro del cielo (gli si associa la simbologia del carro o della ruota). Nella transizione dal contesto sacrale uranico a quello tellurico, il sole andrà progressivamente trasferendo i suoi attributi da fonte della vita e del calore a simbolo di fertilità e di ricchezza.

Anche la luna fu difficilmente adorata per se stessa, ma le si riconoscevano particolari attributi del divino o collegati col divino. Se il sole veniva spontaneamente legato all'idea di stabilità e di forza virile, la luna è stata di converso legata all'idea di cambiamento, di trasformazione, di volubilità, ed accostata ad una simbologia femminile. Se il sole faceva riferimento alla vita, al sangue, al fuoco e all'elemento secco, la luna faceva invece allusione all'acqua, ai liquidi linfatici e all'elemento umido in genere, alla vegetazione, ma anche alla morte, di cui esprime simbolicamente il pallore e il cambiamento-trasformazione dall'esserci allo scomparire. La "vicinanza" della fenomenologia della luna alla vita umana, con i suoi cicli e la sua instabilità, determinerà la progressiva individuazione di una "sfera sublunare", quella della sua influenza sui viventi. «Si potrebbe dire che la luna rivela all'uomo la propria condizione umana; che, in un certo senso, l'uomo guarda se stesso e si ritrova nella vita della luna. È per questo che il simbolismo e la mitologia lunari sono insieme patetici e consolatori. [.] Se la modalità lunare è per eccellenza quella del mutamento, dei ritmi, è nondimeno anche quella del ritorno ciclico; destino che ferisce e che consola contemporaneamente, poiché se le manifestazioni della vita sono abbastanza fragili per dissolversi in modo folgorante, sono tuttavia restaurate dall'"eterno ritorno" regolato dalla luna. Questa è la legge dell'universo sublunare» (Eliade, 1976, p. 192). Si tratta di un archetipo - è facile riconoscerlo - la cui simbologia e capacità di appello emotivo dureranno assai a lungo, entrando nella cosmologia medievale e rinascimentale, per spingersi poi fino al presente (si pensi al linguaggio poetico, all'espressione artistica, musicale, ecc.).

Per quanto riguarda invece la primitiva osservazione dei pianeti, delle stelle e delle costellazioni, va detto che essa non dava origine ad indicatori religiosi in senso stretto. Trattandosi infatti di riferimenti ciclici, tali corpi non rappresentavano dei buoni indicatori per conoscere la volontà o le disposizioni della divinità celeste. Non così le comete, ritenute eventi transitori e perciò più facilmente collegabili all'annuncio divino di eventi fasti o nefasti (il riconoscimento della loro periodicità fu possibile solo con il successivo sviluppo delle osservazioni astronomiche e la loro corrispondente memoria storica). Gli astri potevano dunque avere un riferimento religioso puramente simbolico, di protezione o propiziazione, mediante un facile collegamento cultuale con l'organizzazione ciclica dei tempi della semina e del raccolto, della caccia o della pesca. La loro importanza non si limitava alle civiltà di stabile dimora, nelle quali essi potevano regolare con facilità i rituali legati alla fertilità: anche per i popoli nomadi, e per chiunque si spostava in terra o in mare, le stelle costituivano il principale riferimento. Ma lo spettacolo offerto dalla volta stellata (che il cielo notturno delle epoche primitive, non ancora industrializzate, esaltava in modo straordinario) forniva soprattutto gli elementi di sfondo per le mitologie (vedi infra, II): i grandiosi disegni che l'immaginazione tracciava sul firmamento - ponendo prospetticamente sullo stesso piano apparente tutte le stelle indipendentemente dalla loro reale distanza dalla terra - consentiva la raffigurazione di personaggi, o anche di intere narrazioni, che avevano nel cielo il loro teatro ideale ed eterno.

La particolare posizione di alcuni astri specifici, riconosciuta in tutte le aree geografiche del medesimo emisfero terrestre, permetteva poi di riconoscerne il riferimento sacrale in modo pressoché universale. Tali sono il pianeta Venere col suo periodico anticipare il sorgere del sole o seguirne il tramonto; la stella Sirio, a motivo della sua luminosità maggiore di quella di tutte le altre stelle fisse; il gruppo stellare delle Pleiadi, per la loro singolarità scenica facilmente riconoscibile ad occhio nudo. Alla loro comparsa e ai loro moti ciclici venivano associate le principali fasi della incipiente organizzazione agricola, sebbene con significati diversi presso popoli situati in diversi emisferi o latitudini geografiche: la comparsa della visibilità di un medesimo astro, cioè, poteva essere riconosciuta, nell'avvicendarsi del ciclo annuale, come annuncio della stagione delle piogge oppure di quella della siccità, e dunque vedervi uniti dei rituali diversi. Significati particolari venivano poi riferiti alla Stella polare nell'emisfero settentrionale e alla Croce del Sud in quello meridionale, a motivo della loro posizione di fulcro apparente per l'asse del moto rotatorio della volta celeste (riflesso della rotazione terrestre giornaliera), che le rendevano disponibili quali stabili punti di orientamento. Fra le costellazioni, Orione e le due Orse sono in quasi tutti i popoli soggetto di miti importanti, per la bellezza dei rispettivi disegni prospettici e per lo splendore delle stelle che le compongono. Rivestono un significato simbolico assai speciale le costellazioni attraversate annualmente dal sole, e lungo le quali si muovono con moti propri anche i pianeti, conosciute come la fascia delle dodici costellazioni dello Zodiaco, in modo particolare le quattro associate ai punti celesti che corrispondono ai due equinozi di primavera e d'autunno e ai due solstizi di inverno e d'estate, la cui precisa posizione varia però nel corso dei millenni a causa del fenomeno di precessione (dovuta alle perturbazioni del sole e della luna sull'orbita terrestre). Il suggestivo spettacolo della Via Lattea, che solca l'intera volta stellata, proiezione prospettica sul cielo dei due bracci spirale a noi più vicini all'interno della nostra Galassia (il sistema stellare cui appartengono il sole e tutte le stelle visibili ad occhio nudo) verrà collegato in quasi tutte le culture dell'antichità all'idea di una "via delle anime" o "via degli spiriti", in accordo con la concezione arcaica che il "cielo" sia anche la sede di coloro che muoiono (vedi infra, IV).

Può avere un certo interesse chiedersi se abbia ancora senso cercare la persistenza di un'esperienza religiosa naturale, collegata all'osservazione della volta celeste, anche nella cultura odierna, ove l'approfondito studio scientifico dell'osservazione del cosmo ha certamente instaurato una radicale novità nei rapporti fra il cielo e l'uomo. Non ci riferiamo alla "desacralizzazione" del cielo e dei suoi fenomeni - cosa che si era già realizzata, di fatto, con la diffusione della Rivelazione cristiana nell'ambiente pagano greco-romano, assai prima dell'epoca moderna - ma a quel "rimando al sacro e al divino" che il cielo, anche nella tradizione cristiana, ha continuato a conservare, e a ragione. Esiste ancora un simile rimando nell'esperienza dell'uomo di scienza? Riteniamo di sì; per alcuni versi esso è presente sotto forme perfino più intense di quanto non accada all'uomo comune. Conoscere ciò che le stelle sono realmente, nella loro fisica e nella loro chimica, non impedisce allo scienziato di tornare a sorprendersi del loro spettacolo; così si esprimeva Carl von Weizsäcker: «L'esperienza vissuta in una notte come quella non può essere resa a parole [...]. Nella gloria indicibile del cielo stellato era presente in qualche modo Dio. Ma al contempo io sapevo che le stelle non sono altro che sfere di gas, composte di atomi, che soddisfano le leggi della fisica» (Über Religion und Naturwissenschaft, Freiburg 1992, p. 17). Fra i suoi ricordi personali, Enrico Fermi volle narrare un episodio che lo colpì profondamente. In una sera d'estate, mentre era all'aperto, ascoltava le voci di alcuni contadini poco distanti. Il contadino italiano - commentava lo scienziato - parla di rado e prende la parola solo per dire cose opportune, sensate e qualche volta sagge. In quella notte senza luna e piena di stelle, un grosso contadino disteso sul prato, con gli occhi rivolti verso il cielo, ruppe il silenzio quasi obbedendo ad una ispirazione profonda ed esclamò: «Che bel cielo... e pensare c'è chi dice che Dio non esiste» (cfr. M. Micheli, Enrico Fermi e Luigi Fantappiè. Ricordi personali, in "Responsabilità del sapere" 31 (1979), pp. 21-23).

   

II. L'associazione fra fenomeni celesti e vita umana nell'astrologia mesopotamica e nel politeismo greco

Il culto dei corpi celesti, come abbiamo visto, non costituisce una religione originaria: essi vengono principalmente investiti di un "significato divino" in rapporto alla storia umana, e solo occasionalmente si può dire che giungano ad essere oggetto di una religione in senso stretto. Si parla pertanto di «astralismo» come di quella generica e polivalente tendenza, presente in vari popoli della terra, ad attribuire particolari significati ai fenomeni celesti e alle diverse apparenze del cielo, in primis ai moti del sole, della luna e dei pianeti sullo sfondo celeste delle stelle fisse. L'astralismo non equivale pertanto all'«astrolatria», ma offrirà il solenne contesto, appunto quello del cielo, per l'«astralizzazione» della mitologia politeista: il cielo, cioè, verrà riconosciuto come il luogo che eternizza sia la presenza degli dèi, facilmente associati alle costellazioni e ai pianeti, sia il ricordo delle loro gesta, fungendo da scenario per comunicare agli uomini la loro volontà ed i loro avvertimenti. Tale transizione, responsabile di aver consegnato per vari secoli un'astrolatria di carattere derivato, condusse alcuni autori a ritenere che l'intera mitologia pagana, e perfino le religioni in genere, avessero avuto tutte un'origine astrale. Sorta all'inizio del Settecento, questa corrente interpretativa confluirà fra Ottocento e Novecento nelle scuole tedesche della «mitologia della natura» e della ricerca sui miti, dando origine ad un ampio quadro fenomenologico noto come «panbabilonismo astrale». Esso sarà poi drasticamente ridimensionato una volta scoperto che, se è vero che le osservazioni astronomiche ebbero certo un'origine assai antica in area assiro-babilonese (II millennio a.C.), un astralismo sofisticato era invece comparso in età assai più tarda (VIII-VII secolo a.C.).

1. Due diversi modi di rapporto con i corpi celesti. L'antica astrologia, tutta riconducibile al medio oriente mesopotamico, dal quale poi si diffuse nei territori circostanti prima di giungere in Grecia, mostrava due principali manifestazioni, cronologicamente successive. La prima, comunemente classificata come omina, cioè «divinazione» (lat. omen, presagio, vaticinio), riguardava lo studio dei corpi celesti, la loro apparenza ed i loro moti, quali "segnali indicatori" degli eventi terrestri futuri. La sfera del mondo celeste veniva considerata riflesso ed anticipazione di quanto accadeva nell'ambito terrestre, determinando così una forte spinta verso la pratica di precise osservazioni astronomiche a motivo della loro grande capacità di individuare fenomeni predicibili (eclissi, congiunzioni planetarie, ecc.). Gli omina hanno il loro documento più antico nelle tavolette babilonesi Enuma Anu Enlil (ca. 1800 a.C.) che riportano un gran numero di osservazioni di astronomia di posizione, in primo luogo il canone delle eclissi lunari. I fenomeni celesti vengono considerati indicatori di eventi terreni voluti dagli dèi, ma non si stabilisce fra le due cose un rapporto causale: un'eclissi o una congiunzione planetaria non "causano" una guerra o una carestia, ma semplicemente la prevedono o l'annunciano, perché ognuno possa prendere le misure opportune. I primi astronomi formarono così una classe sacerdotale in stretto collegamento con il potere politico-regale (quando non in diretta dipendenza da esso).

La seconda manifestazione riguarda l'«astrologia» propriamente detta, che trovò successivo sviluppo specialmente in ambiente ellenico, e si proponeva invece di studiare e di segnalare "l'influsso" dei fenomeni celesti sulla vita umana. In questo caso siamo di fronte ad un rapporto causale: il cielo non è più contemplato come specchio di eventi futuri, ma come sede di forze divine che si intrecciano con i destini terrestri, dirigendoli a loro piacimento. Il cielo esprime ora un rapporto sempre più "esistenziale" fra gli dèi e gli uomini; ciò verrà favorito da una compiuta «astralizzazione» del pantheon greco: se nell'astrologia babilonese le costellazioni indicavano più spesso dei popoli od il riflesso di situazioni terrestri, esse terminano ora identificandosi - così come gli astri in genere - con dèi, semidèi ed eroi, e con il ricco corredo delle loro storie che si intrecciano con le sorti degli umani. Nel linguaggio dell'astronomia contemporanea pare conservarsi un'antica traccia di queste due diverse tradizioni astrologiche, assiro-babilonese e greca, nel fatto che buona parte delle stelle (astronomia di posizione) hanno nomi di origine araba (Mizar, Aldebaran, Alcor, Betelgeuse, ecc.) mentre le costellazioni hanno principalmente un'origine ed un'etimologia greco-latine.

L'astrologia di ambito ellenico provvide subito a sviluppare un sistema genetlialogico-oroscopico: la nascita di un individuo, collegata alla posizione occupata in quel momento dal sole in una determinata costellazione (fissa), veniva messa in relazione con la presenza di pianeti o altri astri (mobili) in quella medesima costellazione. I diversi significati attribuiti a ciascun pianeta (guerra, amore, pace, fecondità, ecc.) fornivano le regole per la predizione del destino di quell'individuo. Il gioco di composizione fra i diversi significati simboleggiati dai pianeti poteva utilizzarsi anche in fase predittiva, per interrogarsi sulla convenienza di intraprendere azioni future oppure astenervisi, a seconda dell'aspetto dei cieli. Il fascino esercitato dal cielo consentirà di veicolare fino ai nostri giorni tali irrazionali credenze, secondo una dinamica che riproduce la corruzione della religiosità in magia; persa la rispettosa percezione della sacralità della natura, questa viene degradata, manipolata e resa disponibile alle necessità e ai desideri soggettivi.

2. Astrologia e tradizione ebraico-cristiana. Tanto nei suoi aspetti di astrolatria, quanto, soprattutto, nella sua deriva fatalistica ellenica, l'astrologia non poteva non suscitare le aspre condanne della tradizione religiosa ebraico-cristiana. Fin dall'inizio del suo sviluppo storico, questa si mostrava infatti attenta all'unicità e alla trascendenza di un Dio separato dal mondo e al ruolo della libertà e della responsabilità personali nel concreto svolgersi delle azioni umane. Già nel primo capitolo del libro della Genesi, con l'omissione intenzionale dei nomi del sole e della luna dalla narrazione della "creazione dei sei giorni" (cfr. Gen 1,16), l'autore sacro aveva espresso una precisa presa di posizione contro l'astrolatria. Nella prima evangelizzazione cristiana saranno i Padri della Chiesa a confermare tale condanna. Agostino di Ippona (354-430) criticherà quanti, in luogo di adorare il vero Dio, giungono «ad adorare gli animali e, quindi, ad adorare i corpi stessi; e tra essi prima scelgono i più belli, fra i quali spiccano soprattutto i corpi celesti. Dunque, anzitutto si incontra il corpo del sole e ad esso parecchi si fermano. Alcuni considerano degno di culto anche lo splendore della luna: è, infatti, più prossima a noi, come si dice, e perciò si crede abbia una bellezza più vicina. Altri aggiungono anche i corpi di altri astri e tutto il cielo con le sue stelle» (De vera religione 37, 68). Riveste interesse il fatto che tale condanna non trascini dietro di sé l'astronomia del tempo di Agostino, verso la quale, capace di predire eclissi e fenomeni celesti, il Vescovo di Ippona mostra senza dubbio apprezzamento: egli rimprovera però che gli studiosi dediti all'osservazione del cielo, non seppero elevarsi fino alla conoscenza del loro Creatore (cfr. Confessiones V, 3,4-5). Sempre contro l'astrolatria, papa s. Leone Magno (440-461) distinguerà l'antico culto della festa greco-latina del sol invictus (il 21 dicembre, solstizio di inverno, a partire dal quale il sole torna nuovamente ad elevare il suo punto di culminazione sull'orizzonte) dalla festa del Natale cristiano: «Non sia mai che [il tentatore] riesca ad illudere gli uomini più semplici con la nefanda persuasione di certuni, ai quali questo giorno della nostra solennità [25 dicembre] pare degno di festa non tanto a motivo della nascita di Cristo, quanto per il natale del nuovo sole. Le menti di costoro sono avvolte in dense tenebre e sono ben lontane dal far progressi nella vera luce. Si trascinano dietro i pazzeschi errori dei gentili, e perché sono incapaci di sollevare l'attenzione della mente sopra ciò che si vede con sguardo carnale, rendono culto divino agli astri, i quali non sono altro che i servi del mondo. [.] Tutte queste cose hanno bensì bellezza che suscita ammirazione, ma non hanno in se stesse la divinità che si possa adorare. Bisogna, dunque, rendere onore a quella potenza, sapienza, maestà che ha creato dal nulla l'universo e che ha generato con onnipotente parola le cose terrene e le cose celesti in quelle forme e misura che a Lui è piaciuto. Il sole, la luna, le stelle, sono utili a noi che ce ne serviamo e appaiono leggiadre quando le rimiriamo. Di esse si deve rendere grazie al Creatore: si deve adorare Dio che le ha create, non le creature che lo servono» (Sermones XXII, 4,6).

La Sacra Scrittura conosce nell'AT pagine che criticano in modo esplicito le pratiche astrologiche propriamente dette, come in un noto brano di Isaia: «Ti sei stancata dei tuoi molti consiglieri: si presentino e ti salvino gli astrologi che osservano le stelle, i quali ogni mese ti pronosticano che cosa ti capiterà. Ecco, essi sono come stoppia: il fuoco li consuma; non salveranno se stessi dal calore delle fiamme» (Is 47,13-14; cfr. Ger 10,2). Anche nel NT esistono moniti precisi in tal senso, come l'esortazione di Paolo a non «osservare giorni, mesi, stagioni e anni», cioè pratiche legate a culti ciclici di origine celeste e ai miti di fertilità (cfr. Gal 4,8-11). Fra i Padri apologeti merita una menzione la lunga Orazione di Taziano (125 ca.-189 ca.) contro i greci, dai precisi riferimenti anti-astrologici: «È infatti opera degli dèi, essi sostengono, il disegno del cerchio zodiacale e, come essi dicono, la luce di uno di quelli, la quale domina sugli altri, offusca la maggior parte e quello che ora è vinto, poi, a sua volta, torna a dominare; i sette pianeti si divertono con loro come coloro che giocano a scacchi; ma noi siamo al di sopra del fato e abbiamo imparato che al di sopra dei demoni vaganti [il movimento degli astri e le loro influenze fataliste] vi è un unico Signore che non si muove; senza essere guidati dal destino, noi ne rifiutiamo i legislatori. [...] Costoro si tengano pure il fato! Io non voglio adorare i pianeti» (Oratio ad Graecos, nn. 9-10). Nei documenti del Magistero della Chiesa dei primi secoli troveremo condanne all'astrologia e all'utilizzo delle supposte regole zodiacali nei sinodi di Toledo (400), di Braga (561) (cfr. DH 205; 459-460), e nel pontificato di Leone Magno (cfr. Quam laudabiliter, 21.7.447, DH 283). In epoca rinascimentale è significativo che papa Pio II (1458-1464) debba censurare, contro il canonico bergamasco Zanino de Solcia, l'affermazione che Gesù Cristo abbia patito e sia morto «non per la redenzione e per amore del genere umano, ma per una necessità delle stelle» (DH 1364). Il rischio di infiltrazione dell'astrologia nella religione si protrarrà ancora a lungo. In epoca contemporanea trova spazio fra le pieghe di una secolarizzazione che si riconosce incapace di dare risposta alle domande esistenziali dell'uomo e ne fornisce i suoi surrogati che ben si coniugano, come in questo caso, con le leggi di mercato e con la scarsa formazione scientifica di non pochi ambienti anche industrialmente evoluti. La cultura consumistica, abituando l'uomo ad ottenere tutto ciò cui egli ambisce nella sfera dei suoi desideri materiali, lo porta a ritenere che ciò sia possibile anche nella sfera che coinvolge la vita dello spirito e della libertà umane, rendendolo così vulnerabile prima alla degenerazione della fede nella preghiera in superstizione, e poi alla degradazione della religione in magia.

    

III. I riferimenti al cielo e ai corpi celesti nella Sacra Scrittura

1. Il cielo nel linguaggio religioso naturale e il Dio di Israele. Partecipe del comune linguaggio religioso impiegato dall'umanità nel riferirsi al sacro e al divino, non deve sorprendere che anche il linguaggio della Sacra Scrittura evochi delle assonanze con altre tradizioni religiose quando associa alcuni attributi "celesti" all'immagine biblica di Dio. Così il tuono è la voce potente di Jahvè (cfr. Sal29,3-9), i fulmini annunciano le sue azioni salvifiche (cfr. Sal 77,18-19; Gb 38,35) e le nubi sono lo sgabello dei suoi piedi (cfr. Na 1,3). Il percorso del sole nel cielo diviene immagine della gloria di Dio, un «sole di giustizia» (cfr. Sal 19,6-7) di cui il NT opererà una precisa rilettura cristologica: l'annuncio del Messia, nel contesto della nascita del suo precursore Giovanni, è l'annuncio che «verrà a visitarci dall'alto un sole che sorge» (Lc 1,78). In continuità con molti elementi comuni ad altre religioni, per il Dio della Bibbia, l'arcobaleno è segno della sua pacifica alleanza con Noè (cfr. Gen 9,13-16) e gli eventi metereologici preparano alcune delle sue più solenni teofanie (cfr. Es 19,16-20; Is 30,30). Ancora, sarà la «purezza cristallina del cielo» ad offrire, all'autore sacro, l'analogia meno inadeguata per descrivere il luogo dove Jahvè "posava i suoi piedi" nella principale teofania del Sinai (cfr. Es 24,10).

Ma va subito chiarito che, a differenza delle rivelazioni divine presenti in molte tradizioni extra-bibliche, i fenomeni celesti o metereologici in genere non costituiscono affatto la modalità essenziale con cui si rivela il Dio di Israele. Questi si rivela e si manifesta soprattutto con la sua «parola» (eb. dabar): se le teofanie bibliche ricorrono ad elementi uranici o anche tellurici, come ad es. nella straordinaria teofania sinaitica, è perché questi "puntano verso l'ascolto della parola", introducendola con solennità (cfr. Es 16,10-11). In questo e in simili contesti, il ricorso a particolari segni tipici del linguaggio religioso, quali fumo, fuoco, trombe, terremoti, ecc., sono l'espressione dell'intenzione che l'autore sacro ha di riprodurre, in coloro ai quali si dirige, i sentimenti e l'esperienza religiosa provata dai testimoni della rivelazione divina quando essi si avvicinarono al Dio di Israele e alla solennità della Sua parola. Il popolo di Israele, dunque, non riconosce la volontà del suo Dio interpretando dei segni esterni celesti o metereologici (tuono, temporale, osservazione del cielo, ecc.), ma attraverso l'ascolto di ciò che Egli dice: è la ricorrente esortazione dei profeti e poi di Gesù stesso: «ascolta (eb. sema') Israele...» (cfr. Dt 6,4; Mc 12,29), segno distintivo della preghiera più cara al popolo ebraico.

Analogamente, il contrasto fra luce-cielo e tenebre-abisso come immagine della lotta fra il bene e il male, anch'esso assai diffuso nel linguaggio religioso universale, sarà presente nella Scrittura, ma con modalità proprie. Nella Genesi l'universo non "nasce" come esito della battaglia cosmica fra luce e tenebre, comune a molte narrazioni mesopotamiche, ma per effetto della parola di Dio: quelle ne offrono però lo sfondo e il lessico. Le tenebre poi, si arricchiscono in molte pagine bibliche della valenza di quiete, di mistero e di silenzio, quasi un'attesa ed un preludio della rivelazione di Dio. Nel NT, il «regno delle tenebre» indica il male in quanto avversione ostinata a Dio, di cui satana ne è come il paradigma; ma lo scenario conflittuale di tale contrasto, come emerge con chiarezza in tutto il Vangelo di Giovanni, e in modo particolare nel suo Prologo di risonanze genesiache, non è la lotta fatalista fra princìpi opposti, bensì quello del peccato dell'uomo ed il dramma di una libertà che non vuole aprirsi alla parola della grazia e della salvezza (cfr. Gv 1,4-5 e 1,8-11).

2. I riferimenti biblici al cielo ed alcuni dei suoi diversi significati. In tutta la Sacra Scrittura, il «cielo» mantiene una stretta relazione con Dio, sebbene con differenze di espressioni e significati che ripercorrono un itinerario essenzialmente storico. Il cielo è inizialmente la dimora di Dio ed il suo santuario (cfr. Sal 33,13-14; Is 66,1; Mt 6,9), ma una sede la cui affermazione di trascendenza non lo distanzia dall'uomo e dai suoi bisogni: «Il Signore si è affacciato dall'alto del suo santuario, dal cielo ha guardato la terra, per ascoltare il gemito del prigioniero, per liberare i condannati a morte» (Sal102,20-21; cfr. anche Is 66,2; Mt 6,11). Segno di immensità, il riferimento al cielo diviene anche il linguaggio adeguato per far comprendere all'uomo la grandezza delle promesse di Dio: le stelle del cielo, il cui numero è incalcolabile, saranno la misura della discendenza che Dio concederà ad Abramo e nella quale saranno benedette tutte le genti (cfr. Gen 22,17-18; Dt 1,10). Nell'AT, specie nei libri cronologicamente più antichi, è raro trovare il cielo come termine sostitutivo del nome di Dio, sebbene è «dal cielo» che provengano la sua benedizione e la sua salvezza (cfr. Gen 49,25) e sia «dal cielo» che Egli chiami Abramo ed i suoi eletti. Solo in epoca più tardiva (cfr. 1Mac 3,18-19 e 4,55) e poi, soprattutto, nel NT, il cielo comincia a diventare sinonimo di ciò che appartiene a Dio e di Dio stesso, non senza un influsso del rispetto degli ebrei verso il nome proprio di Dio (cfr. ad es. la sostituzione «regno di Dio» in «regno dei cieli» nel Vangelo secondo Matteo). Gesù stesso, che procede dal Padre ed a Lui torna, viene dal cielo e tornerà al cielo (cfr. Gv 3,13; 6,62; Mc 16,19); il suo corpo offerto nel mistero eucaristico è un pane «disceso dal cielo»; nel suo battesimo nel fiume Giordano, sono i cieli ad aprirsi (cfr. Lc 3,21). Nella testimonianza degli Atti degli apostoli, è il cielo aperto che Stefano, primo martire cristiano, vede comparire alla vigilia della sua passione (cfr. At 7,55-56).

Il Dio biblico è certamente un «Dio del cielo» (cfr. Gen 24,3; Ne 1,4), ma al di sopra di quanto, in tale termine, possa far riferimento alla sede delle acque, della neve, dei fulmini, perché Egli è il «Dio del cielo dei cieli» (cfr. Dt 10,14; Ne 9,6). Dal punto di vista cosmologico, è il «firmamento», anzi «firmamento del cielo» (cfr. Gen 1,14; 1,17; 1,20) ad indicare il luogo dove sono fissate le stelle. Esse rappresentano una volta che viene distesa o anche raccolta, secondo l'antico schema ebraico di una tenda-casa che copre la terra e ne chiude, assieme al mare, i confini visibili all'uomo. Il cielo è così il confine verso l'alto che racchiude la vita umana, e la terra è il luogo di tutto ciò che «avviene sotto il cielo» (cfr. Gen 7,19). In linea generale, la cosmologia ebraica è assai sobria: essa non conosce le complesse gerarchie sferiche che caratterizzeranno il mondo ellenico, anche se resta aperta all'idea di una certa "stratificazione" dei cieli, o comunque un certo ordine nelle opere di Dio e nella lode che esse gli tributano, lode nella quale entrano a pieno titolo anche gli angeli (cfr. tutto il Sal 148), la cui creazione da parte di Dio è stata talvolta indicata dalla teologia proprio nel primo termine del binomio «cielo e terra».

Ed è ancora il precedente binomio - in modo più preciso la rivelazione del Dio biblico come «creatore del cielo e della terra» (Gen 1,1) - a costituire uno dei richiami più significativi del termine cielo. Tale "professione di fede" attraversa come un ritornello tutto l'AT (cfr. Gen 2,4; Gen 14,19; Es 20,11; Est 4,17; Is 37,16; Ger 32,17; Sal 114,15; ecc.) facendo giungerne echi assai significativi anche nel NT (cfr. At 14,14; Ap 14,7). La chiara presentazione del cielo come un'opera di Dio - qualcosa che Lui «ha fatto», «ha creato» - pone il Dio di Israele in una posizione di originalità rispetto alle altre tradizioni extra-bibliche, non per il rifiuto di attributi celesti che invece sussistono e pure contribuiscono a coniare un adeguato linguaggio della trascendenza, ma per l'assoluta dipendenza che il cielo, la terra e tutto quanto essi contengono, mantengono dall'onnipotenza creatrice di Dio. L'appello a «Colui che ha fatto il cielo e la terra» viene presentato spesso in chiave anti idolatrica: sarà proprio la nota di Creatore onnipotente ciò che distinguerà il Dio di Israele dai falsi dèi, perché «gli dèi che non hanno fatto il cielo e la terra scompariranno dalla terra sotto il cielo», mentre solo Jahvè «ha formato la terra con potenza, ha fissato il mondo con sapienza, con intelligenza ha disteso i cieli» (Ger 10,11-12). La sovranità di Dio sul «cielo e la terra» presenterà nel NT chiari riferimenti al Verbo incarnato e al suo mistero pasquale: il Verbo è una Parola che resterà stabile in eterno, mentre «i cieli e la terra passeranno» (cfr. Mt 5,18; Mc 13,31; Lc 21,33), una Parola capace di «riconciliare» (cfr. Col 1,20) e di «ricapitolare» (cfr. Ef 1,10), riconducendo nello Spirito al Padre, «tutte le cose che sono nei cieli e sulla terra».

Non è infine senza interesse, per i riferimenti indiretti che suscita in una mentalità scientifica, l'episodio della vita di Gesù in cui i Farisei, per ottenere una dimostrazione "sperimentabile" della sua divinità, chiesero che egli inviasse «un segno dal cielo», cioè dalla sede di Dio (cfr. Mt 16,1-4). Ad essi Gesù risponderà con un'analogia, indicando che come gli uomini sono capaci, dall'attenta «osservazione del cielo», di trarre conclusioni veritative sul clima e sulle evoluzioni dell'atmosfera, così devono essere capaci di riconoscere altri segni, ugualmente eloquenti, che mostrano la presenza di Dio in mezzo a loro, fra i quali il "segno" per eccellenza sarà quello della sua morte e resurrezione (cfr. Mt 12,39-40; Gv 2,19-22). A rendere difficile questo riconoscimento, come testimoniato anche da altri passi evangelici (cfr. Gv 15,22-24), non sarebbe l'ambiguità o la poca chiarezza dei segni, ma piuttosto il peccato.

3. I corpi celesti. La Scrittura menziona circa una quarantina di volte le stelle del cielo e in alcune occasioni fa riferimenti espliciti a nomi di pianeti, stelle e costellazioni. Il senso di tali richiami, come ovvio, non è offrire informazioni scientifiche su tali corpi celesti, ma testimoniare la presenza di un contesto ambientale e linguistico che, a motivo della sua importanza nella vita e nella riflessione umana, accompagna anch'esso la storia della salvezza e le forme della sua narrazione. Per quanto riguarda i riferimenti astronomici impliciti o perfino nascosti, alcuni autori hanno segnalato che questi potrebbero essere assai maggiori di quanto comunemente ritenuto, ma non esistono, al momento, studi convincenti in proposito. Letture di questo tipo sono però possibili in quelle pagine che utilizzano un linguaggio apocalittico, come taluni capitoli di alcuni libri profetici e dell'Apocalisse. La menzione dei «quattro vegliardi o viventi» subito dopo indicati con le figure di un Toro, un'Aquila, un Leone ed un Uomo (cfr. Ap4,4-7; cfr. anche Ez 1,5 e 10,14), potrebbe facilmente rivelare un'associazione con le quattro costellazioni all'epoca corrispondenti ai due equinozi di primavera e di autunno e ai due solstizi d'estate e d'inverno (l'Uomo indicherebbe in realtà l'Acquario e l'Aquila offrirebbe un riferimento più facile dello Scorpione, poco a nord di esso), così come la menzione di un leggendario «Nimrod, valente cacciatore davanti al Signore» (Gen 10,9), potrebbe offrire un collegamento con Orione, costellazione ben conosciuta dal popolo ebreo e dai popoli limitrofi.

Sono ben noti i passi del Libro di Giobbe - che intende muoversi nel contesto di una vicenda umana esterna al popolo di Israele, di valore ampio e paradigmatico - ove si menzionano le Pleiadi, l'Orsa e Orione (cfr. Gb 9,7-9; 38,31-32), e forse anche le costellazioni del Drago o del Serpente (cfr. Gb 26,13). Il versetto che parla dei «penetrali del cielo australe» (Gb 9,9) accanto ai nomi di altre costellazioni, ha fatto pensare ad un possibile riferimento a costellazioni molto luminose del cielo australe, come la Croce del Sud ed il Centauro, che potrebbero essere state osservate in brevi periodi dell'anno anche dalla Palestina, assai basse sull'orizzonte, forse anche a motivo della più favorevole situazione di latitudine celeste che la precessione degli equinozi consentiva nel passato. Preoccupato dell'idolatria dei popoli limitrofi, il Libro di Amos ci terrà a dire che è Dio ad aver fatto le Pleiadi ed Orione (cfr. Am 5,8), condannando l'adorazione di due dèi, Siccùt e Chiiòn (cfr. Am 5,26), che vengono associati ad una «stella» (forse il pianeta Saturno). In un medesimo ambito anti idolatrico, la riforma religiosa del re Giosia destituisce «quanti offrivano incenso a Baal, al sole e alla luna, alle stelle e a tutta la milizia del cielo» (2Re 23,5). Ma la supremazia di Jahvè sui corpi celesti è anche significativamente indicata dal fatto che Egli «li chiama col loro nome ed essi gli obbediscono» (cfr. Is 40,26; 45,12 e 48,13; Bar 3,34): non sono i loro moti eterni a condizionare fatalmente la vita umana, ma Dio stesso, mediante leggi che Egli conosce ed ha inscritto nel loro movimento, a servirsi di essi come strumenti per i suoi piani di bontà e di provvidenza. Altri passi dei Libri sapienziali, poi, parlano dei corpi celesti per esaltare la bellezza della creazione e chiedere ai cieli, al sole e alle stelle di cantare essi stessi la lode di Dio, creatore di ogni cosa, muovendo così gli uomini ad unirsi alla medesima lode (cfr. Sal 8,4-5; Sal 19,27). Fra essi merita speciale menzione una pagina delSiracide ove l'apparenza del sole, della luna e delle stelle è ripresa in forma sistematica all'interno di un solenne cantico di gloria a Dio (Sir 43,1-12).

Fra i brani del NT con un collegamento al cielo e ai suoi fenomeni, domina senza dubbio l'episodio narrato da Matteo a proposito dei Magi e del loro riconoscimento del momento della nascita del Messia, in base ad un fenomeno astronomico di cui osservano (e forse prevedono) l'evolversi già in regioni lontane dalla Palestina (cfr. Mt 2,1-12), probabilmente sulla scorta di una profezia presente nell'AT (cfr. Nm 24,17) letta in un quadro interpretativo che non pare essere lontano da quanto si sarebbe abitualmente fatto nel contesto degli omina babilonesi (cfr. supra, II.1). Si parlerà ancora del cielo nel NT quando s. Paolo paragonerà il diverso splendore delle stelle alla diversa condizione dei corpi resuscitati (cfr. 1Cor 15,41), e poi nel contesto dei discorsi escatologici di Gesù (cfr. Mc 13,24-25; Mt 24,29; Lc 21,25); quanto avverrà alla fine dei tempi nei corpi celesti è lì presentato come segno e oggetto di una trasformazione finale con conseguenze anche nell'ambito fisico. Di più difficile interpretazione i numerosi riferimenti alle diverse «stelle» presenti nell'Apocalisse, soprattutto a motivo del linguaggio allegorico in cui se ne parla (cfr. Ap 1,16.20; 2,1; 8,10-12; 9,1; 12,4); la plurivalenza di un tale linguaggio consentirebbe forse di riconoscervi anche altre allusioni astronomiche in pagine diverse. Il modello cosmogonico che fa da sfondo pare essere quello arcaico ebraico e non ancora quello ellenico (cfr. Ap 6,14).

    

IV. Il cielo nel linguaggio teologico

1. Il pensiero scientifico e la nozione religioso-teologica di cielo. Alla luce del messaggio biblico circa la trascendenza di Dio e la sua sovranità creatrice, la trasposizione del nome di Dio con la parola cielo, di cui la stessa Scrittura mostra traccia (vedi supra, III.2), non ha implicazioni di contenuto ma rappresenta, nel linguaggio teologico, una delle numerose forme espressive nei riguardi del Dio trascendente e di quanto gli appartiene. Si tratta per di più di un'associazione la quale, come si è visto, può radicare, non senza fondamento, nella religiosità naturale dell'uomo che vede indicati ed espressi nel cielo proprio i caratteri della altezza-trascendenza. Tale collegamento uranico-celeste non si oppone però all'idea di una trascendenza cercata nelle profondità della coscienza personale, e dunque verso l'"interno" piuttosto che verso l'"alto", secondo un itinerario diffusamente presente tanto nella Scrittura come nella tradizione cristiana. Si tratta di linguaggi complementari, come lo sono il cammino cosmologico e quello antropologico quali vie di accesso ad una conoscenza naturale di Dio.

Non sorprende pertanto che la fraseologia religiosa ci abbia abituato ad espressioni, con uso della maiuscola, quali: Dio del Cielo, voglia il Cielo, andare in Cielo, essere in Cielo, gli angeli e i santi del Cielo, ecc. Ci si continua a riferire al Cielo come alla dimora di Dio, utilizzandolo quale sinonimo di beatitudine e di vita eterna, con un significato - è interessante notarlo - che mostra la persistenza di un qualificativo "locativo", in accordo con il linguaggio della religiosità naturale, senza che questo ne venga spinto verso una totale identificazione fra Dio e il Cielo, cosa estranea alla primitiva sensibilità religiosa e, di fatto, assente anche dal linguaggio odierno. L'aggettivo «celeste» continua ad indicare ciò che appartiene a Dio e alla sfera semantica propria del divino: cori celesti, musica celestiale, regno celeste, ecc., mentre quanto resta "sotto il cielo" viene ancora qualificato dall'aggettivo «terrestre». Come già nel Salmo 115 e poi in s. Paolo, i due aggettivi sono correlativi, con un'opposizione dialettica il cui contrasto non indica necessariamente conflitto, bensì differenza di ruoli e di influenze, ambiti di autonomia, possibilità di trasformazione e direzionalità escatologica: «Siate benedetti dal Signore che ha fatto cielo e terra. I cieli sono i cieli del Signore, ma ha dato la terra ai figli dell'uomo» (Sal 115,15-16). E ancora, nel contesto del parallelo fra Adamo e Cristo: «Il primo uomo tratto dalla terra è di terra, il secondo uomo viene dal cielo. Quale è l'uomo fatto di terra, così sono quelli di terra; ma quale il celeste, così anche i celesti. E come abbiamo portato l'immagine dell'uomo di terra, così porteremo l'immagine dell'uomo celeste» (1Cor 15,47-49).

Per la mentalità scientifica del nostro tempo, i riferimenti ad un «Dio del Cielo» e a tutto quanto il Cielo continua ad indicare in ambito religioso, potrebbero apparire, a prima vista, forse obsoleti. Ne offre un esempio paradigmatico (che non evita di cadere nell'ingenuità e forse anche nell'ideologia) quanto ebbe ad affermare uno dei primi cosmonauti russi quando, ormai in orbita attorno alla terra, segnalava di trovarsi in cielo ma di non avervi trovato Dio. Sul piano aneddotico si potrebbe rispondere che, pochi anni dopo, uno degli astronauti dell'Apollo 8, per la prima volta in orbita attorno alla luna, trovava nella splendida immagine turchese della terra sospesa nel buio del cielo lo spunto per recitare ad alta voce alcuni versetti del Genesi ed una preghiera (cfr. I. Barbour, Religion and Science, London 1998, p. 195). Resta però il fatto che il cielo stellato, da oggetto di contemplazione distante ed irraggiungibile, è divenuto adesso oggetto di analisi scientifica e di studio, quando non di presenza umana o di macchine di origine umana. Il tema obbliga pertanto almeno ad una presa di coscienza: insistere sull'attributo "celeste" della divinità rende la religione distante dalla sensibilità contemporanea e ne diminuisce la corrispondente capacità di appello?

Alla precedente domanda, alcuni autori come J.A. Robinson (n. 1919) e P. Tillich (1886-1965) hanno risposto affermativamente. In luogo di una terminologia ove la trascendenza faccia riferimento all'altezza, all'"Alto dei cieli", essi hanno auspicato la ricerca di altre forme espressive, suggerendo di ancorare l'altezza-trascendenza del linguaggio religioso alla "profondità" (lat. altus, profondo) del proprio essere, perché anch'essa capace di far accedere all'esperienza del divino e farla comprendere all'interlocutore. Tuttavia, non vediamo in questa operazione né la soluzione di un problema, né un particolare guadagno. In realtà, attraverso un procedimento di questo tipo si sta in fondo introducendo una categoria del tutto analoga a quella da cui si intenderebbe prescindere. Si sta ugualmente cercando un appoggio su qualche concetto od esperienza - in questo caso quella dell'interiorità - per ancorarvi un certo linguaggio della trascendenza, appoggio che sarebbe pienamente lecito cercare anche nel concetto di «cielo», così come fatto dall'uomo per millenni, prima che ciò fosse tematizzato dalla fenomenologia della religione. Il tentativo di "demitizzare" il linguaggio su Dio evitando categorie che si ritengono superate non è mai totalmente praticabile, perché parte di quel mito è proprio il necessario linguaggio della trascendenza. A ciò andrebbe aggiunto che molti degli attributi che l'uomo riconosce nel cielo (infinità, immensità, ecc.) non paiono ugualmente associabili all'esperienza del limite e della finitezza tipica del soggetto, oltre al fatto, come già osservato, che i due cammini (esterno e interno) non vanno necessariamente visti in modo alternativo.

2. Il cielo come luogo e come stato. Un secondo interrogativo viene suscitato da quegli aspetti del linguaggio teologico che parlano del cielo come di un «luogo», quale base linguistica e concettuale per esprimere la vita oltre la morte, la vita eterna di Dio, la presenza del Cristo Risorto «alla destra del Padre», nonché la beatitudine di chi partecipa o parteciperà della vita del Dio uno e trino. In quest'ultimo senso, «il cielo è il fine ultimo dell'uomo e la realizzazione delle sue aspirazioni più profonde, lo stato di felicità suprema e definitiva» (CCC 1024; cfr. 1023-1029). Il tema è oggetto della «teologia dei novissimi» (cioè le «cose ultime»: morte, giudizio, inferno, paradiso; per una visione di insieme, cfr. Pozo, 1986), ma coinvolge anche ciò che si chiama «escatologia intermedia», ovvero la sussistenza delle anime separate in attesa della resurrezione dei corpi alla fine dei tempi. Va subito segnalato che, se il termine «cielo» mantiene in alcune formulazioni teologiche lo specifico carattere di un "luogo", ciò è per garantire il realismo del linguaggio biblico nei confronti delle verità e degli insegnamenti che la Rivelazione intende trasmettere. Relegare tale termine a pura metafora non darebbe ragione né di quanto Dio ha rivelato, né di ciò che ha promesso. Considerare il cielo come "dimora di Dio" è senza dubbio una metafora, ma non si può dire lo stesso quando parliamo dell'esistenza "del cielo" o della "promessa del cielo", cioè di uno "stato di vita futura" che partecipa della vita stessa di Dio.

Per quanto riguarda il cielo come "luogo della vita divina", la coerenza con l'immagine di Dio consegnata dalla Sacra Scrittura (Creatore onnipotente, trascendente, ecc.) ci impone che se ne debba parlare non come "qualcosa che contenga Dio", ma piuttosto come qualcosa "da lui contenuto". Tommaso d'Aquino lo esponeva sinteticamente dicendo che sedes Dei dicitur esse in coelo non sicut in continente sed magis in contento (Summa theologiae, III, q. 57, a. 4, ad 1um). Per s. Tommaso il cosiddetto «cielo empireo», che la cosmologia e l'iconografia medievali indicavano come la sede di Dio, è stato creato anch'esso (cfr. Summa theologiae, I, q. 66, a. 3), così come il tempo (cfr. ibidem, a. 4). La vita divina non occupa perciò alcuno spazio fisico, come non ha la durata di alcun tempo fisico, sebbene attraverso la storicità dell'incarnazione e della resurrezione di Gesù Cristo lo spazio e il tempo siano stati chiamati a partecipare alla vita immanente di Dio, quasi ad avere un "punto di contatto" con essa. Il modo in cui ciò possa avvenire non ci è dato conoscere, ma sì "riconoscere" che ciò appartiene al mistero del Verbo incarnato.

La condizione delle anime che godono della visione di Dio e la condizione futura di tutto l'essere umano, cioè dell'anima insieme al suo corpo risuscitato, possono essere comprese solo alla luce della Resurrezione del Cristo e delle proprietà dei corpi glorificati, di cui quello di Cristo è primizia; si tratta di una condizione la quale, pur mantenendo una certa continuità con l'universo fisico così come lo conosciamo, lo trascende e lo trasfigura. Conscio del forte realismo cristiano con cui trattare tutto ciò che appartiene alla vita eterna e allo stato futuro, dopo aver riflettuto sulla convenienza che i corpi dei risorti abbiano una «localizzazione celeste», s. Tommaso aggiunge che «più che nei cieli, essi sono al di sopra di tutti i cieli, per essere con Cristo» (Contra Gentiles, IV, c. 87). Il linguaggio utilizzato, pur con tutti i suoi limiti, intende segnalare che ogni riferimento locativo al «cielo» nella vita divina, nella presenza glorificata di Cristo o nella vita dei beati che in Lui contemplano Dio, serve a sottolineare la verità di quanto si afferma, ma prescinde da ogni qualificazione spaziale o dimensiva.

Risulta allora conveniente intendere il cielo come uno «stato», prima che come un luogo: «Nel quadro della Rivelazione sappiamo che il "cielo" o la "beatitudine" nella quale ci troveremo non è un'astrazione, neppure un luogo fisico tra le nubi, ma un rapporto vivo e personale con la Trinità Santa. È l'incontro con il Padre che si realizza in Cristo Risorto grazie alla comunione dello Spirito Santo»; e non dimenticando mai che «occorre mantenere sempre una certa sobrietà nel descrivere queste "realtà ultime", giacché la loro rappresentazione rimane sempre inadeguata» (Giovanni Paolo II, Catechesi del mercoledì, 21.7.1999). In tal senso, si può comprendere più facilmente perché, nella vita della grazia, il cielo comincia sulla terra, ed il cristiano che vive di Cristo e in Cristo può già, nella sua condizione storica e terrena, avere esperienza delle "cose del cielo", prima fra tutte l'Eucaristia e quanto essa realizza nella Chiesa e nelle anime. «In questa terra, la contemplazione delle realtà soprannaturali, l'azione della grazia nelle nostre anime, l'amore al prossimo come frutto saporito dell'amore a Dio, comportano già un anticipo del cielo» (J. Escrivá, È Gesù che passa, Milano 1988, n. 126). Garanzia di questo realismo è il dono compiuto dello Spirito Santo, la cui inabitazione nei cuori dei credenti è data non come pegno, ma come «caparra della nostra eredità» (gr. arrabón), come bene che non sarà sostituito, bensì condotto a pienezza (cfr. Ef 1,14; 2Cor 1,22), e ciò in piena sintonia con il carattere stabile e durevole della carità (cfr. 1Cor 13,13). Fondata sull'incarnazione storica del Figlio, questa misteriosa presenza del cielo sulla terra ha per protagonista proprio lo Spirito, la cui missione nel mondo ha come fine conservare ed estendere i frutti e gli effetti della Parola incarnata. Se è vero che la storia presente si sviluppa nell'attesa escatologica di «un nuovo cielo e una nuova terra» (Ap 21,1), non è meno vero che «quelle cose che occhio non vide né orecchio udì, né mai entrarono nel cuore di uomo», preparate per coloro che lo amano, Dio «a noi le ha rivelate per mezzo dello Spirito» (cfr. 1Cor 2,9-10).

  

Documenti della Chiesa Cattolica correlati:
Leone I, Quam laudabiliter, DH 283; DH 408; Sinodo di Braga, DH 459-460; DH 1364; Giovanni Paolo II, Catechesi del mercoledi: OR 22.7, 29.7 e 5.8.1999, p. 4.

   

Bibliografia: 

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