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Con le stelle mi interrogo sulla fede

Julian Chela-Flores
1999

Intervista a Julian Chela-Flores

In questa intervista, l’astrobiologo Julian Chela-Flores espone le sue considerazioni sul significato culturale e religioso dell’osservazione del cielo stellato, affrontando il tema della eventuale presenza di vita nello spazio e delle sue possibili implicazioni.

«Ogni notte trascorsa a osservare e studiare l'Universo mi entusiasma e mi spinge a riflettere. Tre settimane fa, 1'emozione è stata ancora più forte: ero sul litorale del'Isola Grande delle Hawaii. La notte in faccia alla volta stellata ti presenta tanti interrogativi. Ma io guardo il cielo sempre serenamente. Il problema è per quegli scienziati "neopositivisti" che ogni notte, quando danno uno sguardo al cielo, debbono escludere la presenza del Creatore. Alle domande più profonde dell'esistenza, io rispondo da scienziato; quando però la scienza non può più aiutarmi, cerco e mi do risposte da credente».

L'astrofisico Julian Chela-Flores è uno degli esponenti di punta dell'astrobiologia, la scienza che ricerca la vita nello spazio. Lavora all'Abdus Salam International Centre for Theoretical Physics di Trieste. Ai primi di agosto si trovava alle Hawaii, per un convegno internazionale. Era stato invitato a illustrare una tesi affascinante: la possibilità di trovare la vita in un satellite di Giove, Europa, che ha quasi le stesse dimensioni della nostra Luna.

 

D. Da astronomo, che effetto le ha fatto la notte a una latitudine diversa da quella dell'Italia?

R. «Mi ha sconvolto, Non potrei usare altra espressione per descrivere la sensazione di trovarmi di fronte a uno spettacolo stupendo. Lì il cielo è  straordinariamente limpido. Le stelle risplendono nitide più che altrove. Molta gente è convinta che la conoscenza scientifica tolga fascino Alla contemplazione dell'universo, e magari annulli quella profonda emozione che provavamo da ragazzi, di notte, di fronte al cosmo. Non è affatto vero; rimane intatta 1'emozione per tutto ciò che non conosciamo».

 

D. È la quasi notte dell’eclissi, l’11 agosto 1999?

R. «La sensazione che ho provato, a Trieste, mentre si avvicinava la "notte a mezzogiorno", è stata di profondo rapimento e di rispetto per le meraviglie del mondo in cui viviamo. L'abitudine notturna dell'astronomo e dell' astrofisico porta con sé inevitabili quesiti. Nascono al centro della frontiera fra scienza e fede, fra le quali io non vedo alcun contrasto».

 

D. È la contemplazione notturna a rinsaldare questo connubio?

R. «È stato così fin dall’inizio della mia professione, in un paese cattolico come il Venezuela e in una famiglia cattolica come la mia. In seguito ho potuto constatare che le altre grandi religioni monoteiste — ebraica e islamica — non hanno un approccio molto dissimile dal mio. La scienza ci dice che la nascita dell'universo è l’effetto della grande esplosione, il Big Bang. La Rivelazione ci dice che è frutto di un atto voluto dal Creatore di tutte le cose visibili e invisibili. Da scienziato io non smarrisco la fede: penso che — come ha detto il cardinale Martini — ci si debba appellare da un lato alla distinzione e dall'altro alla grande convergenza tra le scritture del1'uomo (le discipline scientifiche) e la Scrittura di Dio, cioè la Rivelazione».

 

D. Lei ha scritto che perfino Bertrand Russell (autore, fra 1'altro, di Perché non sono cristiano) rimarcava che scienza e fede sono altrettante frontiere della conoscenza.

R. «Un gran numero di scienziati rifiuta il presupposto della filosofia neopositivista, secondo il quale è falso tutto ciò che non può essere raggiunto e spiegato con la scienza. La verità è che la scienza non può dare una risposta a tutte le domande che 1'uomo si pone. Questo è compito della filosofia e della teologia».

 

D. Lei dedica le sue energie di astrofisico alla ricerca della vita nello spazio. Si pone ogni notte 1'altra domanda: siamo soli nell’universo?

R. «Me la pongo spesso. E la risposta che mi do scaturisce da una convinzione: come ha intuito il fisico britannico Jhon Polkinghorne, l'universo in cui viviamo è un universo "cui Dio ha concesso di essere se stesso". Talvolta mi sento chiedere da qualcuno, non senza sarcasmo: ma se esiste la vita anche "altrove" nell'universo, vuol dire forse che 1'intero dramma del peccato originale è 1'evento della Redenzione si sono replicati altrove?»

 

D. E come risponde?

R. «Lo scienziato non ha mezzi per rispondere a una domanda come questa. Perciò è necessario stimolare sempre più il dialogo tra scienziati e teologi. Bisogna arrivare a risposte che siano giuste sia per la scienza che per la fede».

 

da: Avvenire, domenica 29 agosto 1999, p. 17, intervista a cura di Luigi Dell’Aglio