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Dio e l’evoluzionismo: punti fermi per un dialogo

Avery Dulles
2007

da una conferenza rilasciata alla rivista mensile First Things

Avery Dulles, già docente alla Catholic University of America, Washington, e alla Fordham University, New York, cardinale dal 2001, è stato da sempre un teologo attento ai temi delle scienze. In questa conferenza, pronunciata nel 2007, pubblicata da First Things e poi riprodotta da Vita e Pensiero nella sua traduzione italiana, Dulles offre un resoconto equilibrato, documentato e profondo, circa il dibattito fra scienza e teologia come sorto negli ultimi anni in merito al tema dell’evoluzione, esponendo criticamente la posizione di alcuni ricercatori che desiderano vedere a tutti i costi opposizione fra le prospettive della scienza e gli insegnamenti della Chiesa cattolica.

Durante la seconda metà del XIX secolo si è cominciato a parlare di guerra tra scienza e religione. Nel corso del XX secolo, tuttavia, il conflitto è andato attenuandosi. Seguendo le orme tracciate dal Concilio Vaticano II, all’inizio del suo pontificato Giovanni Paolo II istituì una commissione con il compito di riesaminare e rettificare la sentenza di condanna nei confronti di Galileo Galilei pronunciata nel 1633. Nel 1983 il Papa promosse poi una conferenza per celebrare il 350° anniversario della pubblicazione dei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, durante la quale affermò che l’esperienza del caso di Galileo aveva indotto la Chiesa a «un atteggiamento più maturo e una maggiore consapevolezza dell’autorità che le è propria», consentendole di distinguere con più chiarezza tra «i fondamenti della fede» e i «sistemi scientifici di una data epoca».

Nel settembre 1987 il Pontefice patrocinò una settimana di studi sul rapporto fra scienza e religione a Castelgandolfo. Il 1° giugno 1988, sulla scorta dei risultati, inviò una lettera assai costruttiva al direttore della Specola Vaticana, ove incoraggiava un percorso di dialogo e interazione in cui scienza e religione non cercassero di sostituirsi l’una all’altra né tanto meno si ignorassero e combattessero. Gli sforzi sarebbero dovuti andare nella direzione di una più profonda comprensione dei rispettivi confini e delle rispettive competenze, ma anche della ricerca di un terreno comune. La scienza avrebbe dovuto astenersi dal volersi erigere a religione; la religione non avrebbe dovuto pretendere di soppiantare la scienza. Questa, infatti, può contribuire a purificare la religione dall’errore e dalla superstizione, mentre la religione può purificare la scienza dall’idolatria e dai suoi falsi assoluti. Ogni disciplina dovrebbe pertanto conservare la propria integrità, ma al tempo stesso essere aperta alle capacità di discernimento e alle scoperte e intuizioni dell’altra.

In una lettera sull’evoluzionismo, inviata il 22 ottobre 1996 alla Pontificia Accademia delle Scienze, cui fu data ampia diffusione, Giovanni Paolo II affermava che, pur esistendo diverse teorie sull’evoluzione, l’evoluzione del corpo umano a partire da forme di vita inferiori «è più di una semplice ipotesi». Ma il Papa parlava anche di una «differenziazione ontologica» della vita umana rispetto agli altri esseri viventi e sosteneva che l’anima spirituale non scaturisce semplicemente dalle forze della materia vivente, né è mero fenomeno materiale; e aggiungeva che la fede ci permette di affermare che l’anima umana è creata direttamente dalla mano di Dio.

In taluni ambienti le parole del Papa furono interpretate come un’accettazione della teoria neodarwiniana che vede l’evoluzione come il frutto di una serie di mutazioni casuali e della selezione naturale (ovvero la “sopravvivenza del più adatto”) senza alcuno scopo o fine. Per controbilanciare questa errata interpretazione, il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, il 7 luglio 2005 pubblicò un commento sul «New York Times» nel quale riportava una serie di pronunciamenti di Giovanni Paolo II a riprova del contrario. Ad esempio, all’Udienza generale del 19 luglio 1985, il Papa aveva dichiarato: «L’evoluzione degli esseri umani, di cui la scienza cerca di determinare le fasi e discernere i meccanismi, presenta una finalità interna che suscita ammirazione. Tale finalità, che guida gli esseri verso una direzione della quale non sono responsabili, induce a immaginare una Mente che ne sia l’inventore, il creatore». L’attribuzione dell’evoluzione umana al puro caso, affermava il Papa, sarebbe un’abdicazione dell’umana intelligenza.

Schönborn citava anche Benedetto XVI, il quale, in occasione della messa per l’inaugurazione del suo pontificato il 24 aprile 2005, aveva dichiarato: «Non siamo il prodotto casuale e senza senso dell’evoluzione. Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno di noi è voluto, ciascuno è amato, ciascuno è necessario».

L’articolo del cardinale Schönborn fu interpretato da molti come un rifiuto della teoria dell’evoluzione. E alcune lettere al giornale lo accusavano di favorire una forma retrograda di creazionismo e di contraddire Giovanni Paolo II. Questi lettori, a quanto pare, erano incapaci di comprendere che il cardinale parlava il linguaggio della filosofia classica, e che non si stava schierando dalla parte di una precisa posizione scientifica. La sua critica era rivolta a quei neodarwinisti che si erano pronunciati su questioni filosofiche e teologiche utilizzando i metodi propri delle scienze naturali.

Alcuni autorevoli esponenti del campo, come Kenneth R. Miller e Stephen M. Barr, nel rispondere a Schönborn insistettero nell’affermare che è possibile essere neodarwinisti in campo scientifico e al tempo stesso ferventi cristiani. Operando una distinzione tra diversi livelli di conoscenza, asserirono che ciò che è casuale da un punto di vista scientifico fa comunque parte del disegno eterno divino. Dio, per così dire, lancia i dadi, ma, nella sua infinita conoscenza riesce a prevederne i risultati per tutta l’eternità.

Questa mescolanza di darwinismo nella scienza e di teismo nella teologia può essere sostenibile, non è questa la posizione che Schönborn intendeva attaccare. Come ha poi esplicitato in un successivo articolo apparso su «First Things» (gennaio 2006), egli pensava a quei neodarwinisti - e ce ne sono molti - i quali sostengono che ogni valida investigazione della natura deve essere condotta nella modalità del meccanicismo, che cerca di spiegare ogni fenomeno in termini di quantità, materia e movimento, escludendo in natura specifiche differenze e finalità.

L’attacco violento dei “nuovi atei”

Negli ultimi anni c’è stata una nuova ondata di letteratura che si appella all’autorità della scienza, in particolar modo alle teorie darwiniane dell’evoluzione, per dimostrare che credere in Dio è irrazionale. I titoli di alcuni di questi libri sono assai eloquenti: The End of Faith di Sam Harris; Breaking the Spell: Religion as a Natural Phenomenon di Daniel Dennett; The God Delusion di Richard Dawkins, e God: The Failed Hypothesis di Victor J. Stenger. I nuovi atei ritengono che, a meno che Dio non sia un’ipotesi verificabile attraverso metodi scientifici, non vi possa essere la minima base per un credo religioso.

Dawkins, esponente di primo piano di questa nuova antireligione, ben rappresenta l’intera categoria. Egli ritiene che le prove dell’esistenza di Dio siano tutte infondate poiché lasciano senza risposta la domanda: chi ha creato Dio? «La fede», scrive, «è la grande scappatoia, la grande scusa per sfuggire alla necessità di pensare e comprovare. La fede, in quanto credenza non basata su prove, è il difetto principale di ogni religione». Trascinato dalla sua stessa ideologia, parla della «fatuità della mente indottrinata dalla religione». E si vanta affermando che, nel tentativo di spiegare la natura della vita umana e dell’universo, la religione «è ormai completamente soppiantata dalla scienza».

L’interpretazione di Dawkins della fede religiosa come coinvolgimento irrazionale appare ambigua. Il Concilio Vaticano I condannò il fideismo, la dottrina che vede la fede come irrazionale, insistendo sul fatto che la fede è e deve essere in accordo con la ragione. Giovanni Paolo II sviluppò poi la stessa idea nella sua Enciclica Fides et Ratio, e Benedetto XVI, nel discorso presso l’Università di Regensburg il 12 settembre 2006, ha insistito anch’egli sulla necessità di un’armonia tra fede e ragione. In quel frangente invocò un ritorno alla ragione in tutto il suo potenziale, controbilanciando la tendenza della scienza moderna a limitarne l’ambito all’empiricamente verificabile.

Le tre posizioni dei teorici cristiani

Riguardo all’evoluzionismo, gli studiosi cattolici esperti in scienze biologiche assumono diverse posizioni. Un primo gruppo, spiegando l’evoluzione in termini di mutazioni casuali e di sopravvivenza del più adatto, considera corretta la teoria darwiniana dal punto di vista scientifico, ma rifiuta il darwinismo come sistema filosofico. Questo primo gruppo ritiene che Dio, prevedendo qualsivoglia risultato evolutivo, per mettere in atto il suo disegno creativo ricorra al naturale processo dell’evoluzione. Sulla scia di Fred Hoyle, alcuni esponenti di questo gruppo parlano di “principio antropico”, a significare che l’universo fu “messo a punto” fin dal primo istante della creazione per permettere la comparsa della vita umana.

Un esempio recente che illustra questo punto di vista può essere trovato nel volume The Language of God (2006; trad. it. Il linguaggio di Dio, 2007) di Francis S. Collins. L’autore, genetista e microbiologo di fama mondiale, fu allevato senza fede e si convertì al cristianesimo dopo avere completato gli studi di chimica, biologia e medicina. La conoscenza professionale acquisita in questi campi lo convinse che la bellezza e la simmetria di geni e genomi umani depongono fortemente a favore di un Creatore saggio e amorevole. Egli crede tuttavia che Dio non abbia alcun bisogno di intervenire nel processo dell’evoluzione corporea e sostiene una teoria di evoluzionismo teistico che ha definito “posizione BioLogos”.

Sebbene Collins non sia cattolico, guarda con favore alle opinioni sull’evoluzionismo esposte da Giovanni Paolo II nel messaggio del 1996 alla Pontificia Accademia delle Scienze. Prende come punto di partenza il lavoro del sacerdote anglicano Arthur Peacock, autore di un libro dal titolo Evolution: The Disguised Friend of Faith. Cita soddisfatto le parole del presidente Bill Clinton che nel giugno 2000 in occasione della celebrazione del "Progetto Genoma Umano" alla Casa Bianca dichiarò: «Oggi stiamo imparando la lingua con la quale Dio creò la vita. E sempre più forte è il sentimento di riverente meraviglia che ci coglie di fronte alla complessità, alla bellezza e al prodigio del più divino e inviolabile dei doni di Dio».

L’evoluzionismo teistico, come il darwinismo classico, si astiene dal propugnare un qualsiasi intervento divino nel processo evolutivo. Ammette che la comparsa di organismi viventi, tra cui quello umano, possa a livello empirico essere spiegata con mutazioni casuali e la sopravvivenza del più adatto. L’evoluzionismo teistico, però, rigetta le conclusioni atee di Dawkins e dei suoi seguaci. Sostiene che le scienze fisiche non sono l’unica fonte affidabile di verità e certezza e che la scienza ha una sfera d’azione effettiva ma limitata. Può rivelarci molto sui processi che possono essere osservati o controllati dai sensi o dagli strumenti, ma è totalmente impotente nel dare risposte a domande più profonde che attengono alla realtà nel suo insieme più ampio. Lungi dal riuscire a sostituirsi alla religione, la scienza non sa assolutamente dirci chi o che cosa sia stato a dare inizio al mondo, perché il mondo esiste, quale sia il nostro destino finale. Considerato come sistema scientifico, il darwinismo presenta alcuni aspetti affascinanti. Il suo grande vantaggio è la semplicità. Ignorando le differenze specifiche tra diversi tipi di esseri e le finalità in base alle quali agiscono, questo tipo di darwinismo riduce l’intero processo evolutivo a una pura questione di materia e movimento. Nel suo ambito produce spiegazioni plausibili che sembrano soddisfare molti scienziati. Ma al di là di questi vantaggi il darwinismo non ha trionfato del tutto, neppure in campo scientifico.

E veniamo al secondo gruppo: un’importante scuola di pensiero scientifico sostiene una teoria nota come Intelligent Design. Michael Behe, professore alla Lehigh University, sostiene che alcuni organi degli esseri viventi sono «irriducibilmente complessi». La loro formazione non potrebbe avvenire mediante piccole mutazioni casuali, in quanto qualcosa che avesse solo alcune, ma non tutte le caratteristiche del nuovo organo non avrebbe ragione d’esistere e nessun vantaggio ai fini della sopravvivenza. L’evoluzione della pupilla dell’occhio, ad esempio, non avrebbe alcun senso se non vi fosse la retina ad accompagnarla, così come la retina non avrebbe ragione d’essere senza la pupilla. Quale esempio rappresentativo di un organo complesso le cui parti sono tutte interdipendenti, Behe propone il flagellumbatterico, uno straordinario apparato natatorio utilizzato da alcuni batteri.

A questo punto si apre una disputa tra microbiologi in cui non provo nemmeno ad addentrarmi. A favore di Behe e della sua scuola possiamo dire che la possibilità di grandi cambiamenti improvvisi messi in atto da un’intelligenza superiore non dovrebbe essere esclusa a priori. Possiamo però accettare come giusto principio che Dio non interviene nell’ordine creato, se non ce n’è bisogno. Se la produzione di organi quali il flagellurn batterico possono essere spiegati attraverso il graduale accumulo di variazioni casuali minori, si dovrebbe allora privilegiare la spiegazione darwiniana. Ma in via puramente digressiva è imprudente costruire la propria argomentazione sulla fede in base a ciò che la scienza non è ancora riuscita a spiegare, dato che domani potrebbe arrivare a spiegare ciò che oggi non è in grado di fare. La storia ci insegna che il “Dio tappabuchi” si è spesso dimostrato illusorio.

Il darwinismo è anche criticato da una terza scuola di pensatori, che annovera filosofi quali Michael Polanyi, il quale ha sviluppato l’opera di Henry Bergson e di Teilhard de Chardin. Al di là delle reciproche differenze, i filosofi che si raccolgono sotto questo orientamento sono d’accordo nel ritenere che gli organismi biologici non possono essere compresi solamente attraverso le leggi della meccanica. Le leggi della biologia, senza contraddire in alcun modo quelle della fisica e della chimica, sono più complesse. Il comportamento degli organismi viventi non può essere spiegato senza tener conto della lotta sostenuta per vivere e crescere. Le piante, allungandosi in cerca di luce e nutrimento, rivelano un’aspirazione intrinseca a vivere e crescere. Questa finalità interna le rende capaci di successo e fallimento in un modo non concesso ai minerali. A causa del divario ontologico che divide il vivente dal non vivente, la comparsa della vita non può essere spiegata in base a principi puramente meccanici.

Sulla scia di questa scuola di pensiero, il fisico matematico John Polkinghorne ritiene che il darwinismo sia incapace di spiegare perché si sviluppino piante e animali pluricellulari quando gli organismi monocellulari sembrano interagire con l’ambiente con successo. Nell’universo deve esservi la spinta verso forme superiori e più complesse. In un suo recente intervento a difesa di questo stesso punto di vista, John E Haught, dell’Università di Georgetown, fa rilevare che la scienza naturale ottiene risultati precisi limitando la propria sfera d’azione a fenomeni misurabili, ma ignorando le più profonde questioni di fine e significato. Applicando tale metodo, essa filtra ed elimina soggettività, sentimento e lotta, tutti elementi essenziali a una piena teoria conoscitiva. Ma il darwinismo materialista è incapace di spiegare perché l’universo dia origine a soggettività, sentimento e lotta.

Nel suo libro del 1971 Biofilosofia. Da Aristotele a Darwin e ritorno, il filosofo tomista Etienne Gilson asseriva in toni energici che Francis Bacon e altri hanno commesso un errore filosofico quando hanno eliminato dalla sfera scientifica due delle quattro cause aristoteliche. Hanno cercato di spiegare ogni cosa in termini meccanici, attingendo unicamente a cause materiali ed efficienti e scartando la causalità formale e finale.

Senza la forma, o la causa formale, sarebbe impossibile dare ragione dell’unità e identità specifica di qualsiasi sostanza. Nell’unicum umano la forma è l’anima spirituale, che rende l’organismo un’entità singola e gli conferisce carattere umano. Una volta persa la forma, gli elementi materiali si decompongono e il corpo cessa di essere umano. Sarebbe vano, dunque, cercare di definire l’essere umano unicamente in base alle sue componenti fisiche.

Nel regno degli organismi viventi la causalità finale riveste un ruolo di primo piano. Gli organi degli animali o del corpo umano non sono decifrabili se non in base al loro scopo o finalità. Il cervello non è decifrabile se separato da quella facoltà di pensiero che è il suo scopo, così come non lo è l’occhio se separato dalla funzione del vedere.

In una filosofia cristiana della natura, queste tre scuole di pensiero sono tutte sostenibili. Sebbene io propenda maggiormente per la terza, riconosco che alcuni esperti di chiara fama professano il darwinismo teistico e l’Intelligent Design. Tutte e tre queste posizioni sull’evoluzionismo vedono Dio rivestire un ruolo di primo piano nel processo, però concepiscono il suo ruolo in base a diverse interpretazioni. Secondo il darwinismo teistico, Dio dà avvio al processo producendo fin dal primo istante della creazione (il Big Bang) la materia e le energie che per gradi si svilupperanno fino a diventare vita vegetale, animale e infine umana sulla Terra e forse anche altrove. Secondo l’Intelligent Design, in determinati stadi lo sviluppo non avviene senza intervento divino, e dà come prodotto organi irriducibilmente complessi. Secondo la visione che io chiamo più propriamente teologica, la spinta in avanti dell’evoluzione e i suoi avanzamenti verso i superiori gradi dell’essere sono subordinati alla presenza dinamica di Dio nei confronti della sua creazione. Molti seguaci di questa scuola direbbero che la transizione da un’esistenza psicochimica alla vita biologica e le ulteriori transizioni alla vita animale e umana necessitano di un contributo aggiuntivo di energia creativa divina.

Buona parte della comunità scientifica sembra schierarsi apertamente contro qualsiasi teoria che vede Dio attivamente coinvolto nel processo evolutivo, come espongono la seconda e la terza teoria. I darwinisti cristiani da parte loro corrono il rischio di concedere troppo ai loro colleghi atei. Sembrano infatti eccessivamente propensi ad accettare che l’intero processo della comparsa della vita abbia luogo senza il coinvolgimento di un’entità superiore. I teologi devono chiedersi se è accettabile bandire Dio dalla sua creazione in questo modo.

Per un nuovo dialogo fra scienza e religione

Può essere interessante notare a questo punto che lo scienziato Francis Collins è giunto a credere in Dio non tanto attraverso la contemplazione della bellezza e dell’ordine del creato — per quanto grandiosi essi siano — quanto come risultato di un’esperienza morale e religiosa. La lettura di C.S. Lewis l’ha persuaso che esiste una superiore legge morale cui siamo incondizionatamente soggetti, e che l’unica fonte possibile di quella legge è Dio. Lewis gli ha anche insegnato ad affidarsi a quell’istinto naturale attraverso il quale il cuore umano si protende ineluttabilmente verso l’infinito e il divino. Ogni altro appetito naturale- come quello per il cibo, il sesso e la conoscenza - ha per oggetto qualcosa di realmente esistente. Perché, dunque, l’anelito verso Dio dovrebbe costituire un’eccezione?

Credere in Dio è naturale, e la fede può essere confermata da prove filosofiche. Eppure ritengo che, in genere, i cristiani credono in Dio non tanto per via di quelle prove quanto perché venerano la figura di Gesù, che con le sue parole e le sue azioni ci ha fatto conoscere Dio. Sarebbe impossibile essere seguaci di Gesù e atei allo stesso tempo.

Scienziati come Dawkins, Harris e Stenger sembrano conoscere molto poco dell’esperienza spirituale del credente. Come ha scritto Terry Eagleton nella sua recensione a The God Delusion di Dawkins: «Immaginatevi qualcuno che, armato soltanto della conoscenza acquisita attraverso la lettura di The Book of British Birds si metta a disquisire di biologia, e vi sarete fatti un’idea di come ci si senta a leggere Richard Dawkins che discetta di teologia. [...]. Se si chiedesse a razionalisti “tesserati” come Dawkins di esprimere un giudizio sulla geopolitica del Sudafrica, indubbiamente si accingerebbero ad analizzare la questione con lo zelo più assiduo. Mentre quando si tratta di teologia, la solita farsa vecchia e trita sarà sufficiente alla bisogna».

Alcuni scienziati atei contemporanei sono talmente presi dalla metodologia della loro disciplina da convincersi che essa sia l’unico modo per risolvere ogni problema, dimenticandosi che invece, per affrontare problemi d’ordine diverso, è necessario adottare altri metodi. In campo morale la scienza e la tecnologia (che è figlia della scienza) sono del tutto inadeguate. Se anche la scienza e la tecnologia possono accrescere immensamente il potere dell’uomo, tale potere è ambivalente. Può perseguire il bene o il male; una stessa invenzione può essere costruttiva o distruttiva. Come hanno avuto modo di notare le ultime generazioni, la tecnologia, senza il controllo di standard morali, ha generato nel mondo orrori indicibili. Distinguere tra un uso del potere giusto e sbagliato, e incentivare gli esseri umani a fare ciò che è giusto anche quando questo non torna loro conveniente, richiede l’osservanza di norme morali e religiose. I richiami della coscienza rivelano con chiarezza che siamo inevitabilmente soggetti a una legge superiore.

Alcuni evoluzionisti affermano che la moralità e la religione nascono, si sviluppano e si affermano in base a principi darwiniani. Sostengono che per gli individui e le comunità la religione ha un esclusivo valore di sopravvivenza. Ma questo presunto valore di sopravvivenza, anche qualora fosse reale, non ci dice nulla riguardo alla veridicità o falsità di qualsiasi sistema morale o religioso. Dato che le questioni afferenti a quest’ordine superiore non possono essere spiegate dalla scienza, la filosofia e la teologia continuano a rivestire un ruolo di primo piano.

Justin Barrett, uno psicologo evoluzionista attualmente professore a Oxford, è anche un cristiano praticante. Egli crede che un Dio onnisciente, onnipotente e totalmente benevolo abbia creato gli esseri umani perché instaurassero un rapporto d’amore con Lui, oltre che reciproco tra loro. «Perché Dio», si chiede, «non avrebbe dovuto disegnarci in modo tale da farci considerare la fede nel divino un fatto naturale?». Se anche a questi fenomeni mentali può essere data una spiegazione scientifica, la spiegazione psicologica non significa affatto che dovremmo smettere di credere. «Ammettiamo che la scienza riesca a dare una spiegazione convincente sul perché io credo che mia moglie mi ami», scrive. «Dovrei in tal caso smettere di credere che lo faccia?».

Una metafisica della conoscenza può farci compiere passi avanti nella ricerca della verità religiosa. Può offrirci le ragioni per ritenere che la tendenza naturale a credere in Dio, evidente in tutti i popoli, non esista invano. La biologia e la psicologia possono esaminare i fenomeni dal basso. Ma la teologia li esamina dall’alto, come l’opera di Dio che ci chiama a sé dal profondo del nostro essere. Noi siamo, per così dire, programmati per cercare la vita eterna in comunione con Dio, fonte personale e meta di tutto ciò che è vero e buono. E se è possibile sopprimere temporaneamente questo desiderio naturale di contemplarlo, non è comunque possibile sradicarlo completamente.

La scienza può gettare una luce rischiarante sui processi della natura, e può accrescere enormemente il potere dell’uomo sull’ambiente. Se usata correttamente, può migliorare considerevolmente le condizioni di vita qui sulla Terra. Le future scoperte scientifiche sull’evoluzione andranno probabilmente a beneficio della religione e della teologia, poiché Dio si rivela attraverso il libro della natura così come attraverso lo svelarsi della redenzione nella storia. Ma la scienza non svolge un vero servizio quando sostiene di essere l’unica valida forma di conoscenza, sostituendosi al registro estetico, a quello interpersonale, filosofico e religioso.

Il recente dilagare dello scientismo ateo è un segno di cattivo auspicio. Se lasciata incontrollata, quest’arroganza può portare al risveglio di quella guerra insensata divampata nel XIX secolo, compromettendo l’armonia tra i diversi livelli di conoscenza che si è rivelata fondamentale per la nostra civiltà occidentale.

Avery Dulles, God and evolution, “First Things”, October 2007, tr. it. “Vita e Pensiero” 91 (2008), n. 2, pp. 64-74.