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Pascal, Blaise (1623 - 1662)

Anno di redazione: 
2002
Tommaso Bernard Vinaty

I. La vita e le opere - II. Gli studi di fisica e di geometria - III. Il pensatore dell’infinito - IV. Il calcolo delle probabilità e la scommessa su Dio - V. Pascal apologeta: la condizione dell’uomo e la ricerca di Dio.

I. La vita e le opere

1. Gli anni giovanili e i primi interessi scientifici. Blaise Pascal non frequentò collegi né università, ma non fu nemmeno un autodidatta. Nato a Clermont-Ferrand da una famiglia di magistrati, perdette la madre all’età di tre anni. Suo padre Etienne, alto magistrato e uomo di vasti interessi culturali, si incaricò di persona dell’educazione dei suoi tre figli: Gilberte (1621), Blaise (1623), Jacqueline (1625). Trasferitosi a Parigi nel 1631, seguì da vicino la loro istruzione avendoli portati con sé, in modo che potessero essere messi a parte precocemente delle sue convinzioni e vederlo all’opera nelle discussioni. La frequentazione che contribuì maggiormente alla formazione del giovane Blaise fu quella della cerchia del padre Marin Mersenne (1588-1648), dell’Ordine dei Minimi, e la cosiddetta Accademia Parisiensis fondata nel 1635 e poi trasformata nel 1666, su iniziativa del ministro Colbert, nell’Accademia Reale delle Scienze.
 
Secondo il resoconto della sorella Gilberte, all’età di dodici anni Blaise sarebbe arrivato da solo alla dimostrazione della 32° proposizione del I libro degli Elementi di Euclide, anche se ciò non significa che egli avesse dimostrato tutte le proposizioni precedenti. Il suo vero maestro di geometria fu Gaspard Desargues (1592-1662), al quale Etienne Pascal era particolarmente legato; architetto, Desargues ebbe il pregio di rifondare la geometria della prospettiva e delle sezioni coniche. A diciassette anni, Blaise pubblicò per via di affissione nella capitale un Breve saggio sulle coniche, che contiene un importante teorema sugli esagoni iscritti su una sezione conica. Questo teorema finirà per diventare un fondamento della geometria proiettiva. Nello stesso anno, il 1640, suo padre, nominato Ispettore Generale dell’Amministrazione fiscale del Re, si trasferì a Rouen con i suoi figli. Qui Blaise si impegnò nella progettazione di una macchina calcolatrice per agevolare la ragioneria del padre. La realizzazione del progetto avverrà dopo ben due anni di lavoro, che peraltro gli diedero modo di manifestare le sue eccezionali doti di inventiva teorica, di capacità tecnica e di abilità organizzativa. Blaise si prese cura di farla brevettare nel 1645 e di farne costruire una quindicina di esemplari, a tutt’oggi conservati in vari musei. Fin da questo periodo i caratteri della genialità di Pascal si delinearono in modo sempre più netto, ma piuttosto che l’originalità, la quale è forse stata troppo sopravvalutata, colpiscono in lui l’estrema precocità nell’afferrare le idee direttrici delle ricerche più varie, nonché la sua perspicacia nel dedurre le conseguenze più generali.
 
Su istruzioni di Evangelista Torricelli (1608-1647), primo ideatore del barometro, Vincenzo Viviani, aveva eseguito a Firenze nella primavera del 1644 il famoso esperimento con il tubo riempito di “argento vivo”, cioè di mercurio, capovolto su una vaschetta, anch’essa riempita di mercurio. La notizia dell’esperimento giunse in Francia tramite il P. Mersenne, suscitando scalpore e curiosità. L’ingegnere Pierre Petit visitò Pascal a Rouen nell’ottobre del 1646: i due idearono uno strumento barometrico più maneggevole, realizzando degli esperimenti la cui breve relazione fu poi pubblicata a Parigi nell’ottobre del 1647. L’interpretazione dell’esperimento barometrico scatenò vivaci polemiche filosofiche relative alla possibilità del vuoto, cosa che generò un acceso dibattito fra Pascal e il padre gesuita Etienne Noël, rettore del Collegio della Compagnia di Gesù nella capitale francese (vedi infra, II.1). Durante gli ultimi anni della sua vita, Mersenne verificò i risultati delle esperienze pascaliane. Nel frattempo, Le Pailleur, amico intimo del padre di Pascal, succedette a Mersenne quale capo dell’Accademia Parigina, e vi rimase fino alla sua morte, avvenuta nel 1654. I membri della cerchia che partecipavano in modo più attivo al dibattito attorno al vuoto furono, oltre ai Pascal, padre e figlio, Le Pauiller,  Pierre Gassendi (1592-1655), Gilles Personne de Roberval (1602-1675). Nello stesso periodo, Pascal lesse le principali opere di René Descartes (1596-1650). Secondo una felice espressione di Henri Gouhier, egli fu un anticartesiano nutrito di cartesianesimo.
 
Un incidente aveva nel frattempo impresso una svolta alla vita di Pascal (1646): scendendo dalla carrozza che lo stava portando a fare da testimone ad un duello, il padre di Pascal si slogò un’anca. I due fratelli Deschamps, chirurghi, si trasferirono nella casa di Pascal a Rouen, ove si trattennero vari mesi per prestare le necessarie cure al malato. Uomini assai devoti, i Deschamps diedero un esempio di preghiera e di pratica della lettura spirituale, facendo risvegliare in tutti i membri della famiglia Pascal, cristiani assopiti, il gusto della vita interiore. Essi si posero allora sotto la direzione del parroco di Rouville, il signor Guillebert, che era discepolo di Jean Duvergier de Hauranne (1581-1643), abate di Saint-Cyran, e che a sua volta era stato legato al vescovo Corneille Jansen (Giansenio, 1585-1638), autore dell’Augustinus. Alla prima conversione legata a questo risveglio spirituale risale la conoscenza da parte di Pascal delle opere di s. Agostino, una conoscenza che nel tempo andrà sempre più espandendosi.
 
Di salute assai cagionevole, Pascal fu un malato cronico. Le conoscenze mediche del Seicento non consentono di diagnosticare di quale infermità egli soffrisse. Probabilmente fu colpito dalla tisi che aveva decimato i suoi ascendenti materni, forse accompagnata da una forma di tumore. L’affaticamento e le prove lo precipitarono comunque in uno stato di languore. In occasione della morte del padre, avvenuta nel settembre del 1657, Blaise scrisse alla sorella maggiore Gilberte e al cognato Florin Périer una lunga lettera consolatoria di ispirazione agostiniana (cfr. Pensieri, Opuscoli, Lettere [= POL], a cura di A. Bausola, Milano 1978, pp. 182-197). All’inizio del gennaio 1652, la sua sorella più giovane Jacqueline entra nel monastero di Port-Royal, a Parigi.
 
2. L’esperienza raccolta nel “Memoriale” e l’influenza agostiniana. Alcuni hanno parlato degli anni 1653-1654 come del periodo mondano della vita di Pascal. Stringe una duratura amicizia con A. Gouffier, duca di Roannez, e sua sorella Charlotte, della quale si è sostenuto che Pascal si fosse innamorato, congettura che portò ad attribuire erroneamente al nostro autore il Discorso attorno alle Passioni dell’Amore, ricco di un fulgido stile (POL, pp. 279-295). In questo tempo Pascal frequentò uomini mondani e “scetticheggianti”, chiamati libertini, quali Mitton e il cavalier de Méré, che si dedicavano, fra l’altro, ai giochi d’azzardo. Costoro sottoposero problemi della distribuzione delle poste in gioco a Pascal, che inizierà così quegli studi dai quali prenderà avvio il calcolo delle probabilità. Entrerà in quell’occasione in corrispondenza con Pierre de Fermat (1601-1665). L’approccio di Pascal è originale: indaga le regole ragionevoli secondo le quali stimiamo le nostre aspettative e i rischi nei quali incorriamo. Pone a fondamento del calcolo delle probabilità la “scommessa” che egli concepisce come «atto di speranza geometrica».
 
Nella primavera del 1654 fu preso da un forte disgusto per il mondo e malgrado le occasioni di “divertimento”, pur senza provare ancora attrazione per Dio, il languore non lo abbandonava. Egli era ancora un ambizioso profondamente deluso: i suoi brillanti risultati non ottenevano un unanime riconoscimento pubblico mentre si sentiva vittima dell’invidia e della diffidenza personali. Alla delusione si aggiungeva la sua malinconia. Questa prostrazione psicologica venne bruscamente interrotta dalla «notte di fuoco» di cui parla il suo noto Memoriale: «Lunedì 23 novembre, giorno di San Clemente papa e martire e di altri secondo il martirologio. Vigilia di San Crisogono martire e altri. Da circa le dieci e mezzo di sera fino a circa la mezzanotte e mezzo. Fuoco. Dio d’Abramo, Dio d’Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti (non des philosophes et des savants). Certezza. Certezza. Sentimento. Gioia. Pace. Dio di Gesù Cristo […] Io me ne sono separato. Io l’ho fuggito, rinnegato, crocifisso. Che io non ne sia mai separato! Egli non si conserva che per le vie indicate nel Vangelo. Rinuncia totale e dolce» (POL, p. 301-303)». Quanto descritto da Pascal è verosimilmente una meditazione intensissima, non una visione miracolosa, nel corso della quale egli scoprì il mistero di Gesù, Cristo umile e povero.
 
In merito a questa importante esperienza spirituale, si richiedono tre osservazioni: a) la «notte di fuoco» appartenne all’intimità di Pascal, che non ne fece confidenza con nessuno, nemmeno alla sorella Gilberte, e forse solo alla sorella monaca, Jacqueline; i familiari e i conoscenti restarono però colpiti dal cambiamento di Blaise, del quale non conoscevano la ragione; b) Pascal trascrisse questa illuminazione su un biglietto che porterà con sé cucito nel risvolto della giacca. Denominato “talismano” nel secolo dei Lumi, questo biglietto, ritrovato solo dopo la sua morte, venne poi chiamato Memoriale all’inizio del Novecento da L. Brunschvicg, curatore dell’edizione critica delle opere di Pascal, che riprese l’espressione da un oratoriano amico dei Périer; c) il testo del Memoriale suona come un inno giubilante del mattino di Pasqua: «Certezza. Certezza, Sentimento, Gioia, Pace. Dio di Gesù Cristo. Deum meum et Deum vestrum. Il tuo Dio sarà il mio Dio» (POL, pp. 301-303). Pascal vi traspone la propria esperienza nei termini del mistero pasquale di Cristo, nel quale la resurrezione fa seguito alla passione e alla morte. Bisogna perciò leggere il Memoriale assieme a due altre meditazioni redatte poco dopo «la notte di fuoco». Esse sono: Dio per mezzo di Gesù Cristo e Il mistero di Gesù (cfr. POL, pp. 709-710 e 711-715).
 
L’illuminazione rivela Dio presente laddove egli ha voluto nascondersi: nelle miserie e nelle angosce dell’uomo. Dio abbrevia e ricapitola nell’agonia di Cristo la storia di ogni singolo uomo in un unica storia umana. Il costante richiamo all’agonia di Cristo assume il suo pieno significato quando l’illuminazione associa la nostra resurrezione alla sua resurrezione: «Gesù è solo sulla terra, non solo a soffrire e a condividere la sua agonia, ma a conoscerla: il cielo e Lui sono soli in questa conoscenza. Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo: non bisogna dormire fino a quel momento. Gesù nel mezzo di questo abbandono generale e dei suoi amici scelti per vegliare con lui, trovandoli addormentati, se ne affligge per il pericolo a cui si espongono, non Lui, ma loro stessi, e li avverte per la loro salvezza e per il loro bene con una tenerezza cordiale nonostante la loro ingratitudine» (POL, n. 736, p. 712).
 
Nel gennaio 1655, due mesi dopo la «notte di fuoco», Pascal si recò in ritiro presso i “Signori Solitari” che vivevano in comunità alle Granges (Granai) nella vallata di Chevreuse, nelle vicinanze del monastero di Port-Royal-des Champs. Qui partecipò ad un ritiro spirituale di tre settimane durante il quale il suo direttore spirituale Singlin gli fece incontrare il biblista Le Maître de Sacy (1613-1684). Pascal ebbe con lui delle conversazioni i cui appunti diedero come prodotto il famoso Colloquio con il Sig. de Sacy su Epitteto e Montaigne (cfr. POL, pp. 312-330). Durante questo ritiro germinò nella mente del Pascal, ormai convertito, la vocazione di apologeta desideroso di muovere altri alla conversione. Concepì allora il progetto di un’Apologia della Religione Cristiana imperniata sul contrasto vigorosamente delineato fra la miseria dell’uomo senza Dio e la grandezza dell’uomo con Dio. «Tutto ciò che M. [monsieur] Pascal gli diceva di grande, l’aveva visto prima di lui in Sant’Agostino; e volendo essere equo con tutti diceva: “M. Pascal è sommamente stimabile in questo, che non avendo letto i Padri della Chiesa, aveva da solo con la penetrazione della propria mente, scoperto le stesse verità che essi avevano scoperto. Li trova sorprendenti, diceva, perché lui non li aveva visti in nessun posto; ma, quanto a noi siamo abituati a vederli ad ogni passo nei nostri libri”. Così quel saggio ecclesiastico [de Sacy] stimava molto M. Pascal per il fatto che questi collimava in tutte le cose con Sant’Agostino» (POL, p. 313).
 
In quel periodo Pascal rinvigorì ed approfondì il pensiero agostiniano, che aveva già acquisito fin dalla prima conversione alla scuola di Saint-Cyran. L’idea direttrice dell’Apologia di Pascal si rifà al tema centrale delle Confessioni di Agostino: memoria mei, memoria Dei. Nella sua esperienza spirituale Pascal condivideva la convinzione autobiografica dell’Ipponate: la conversione del cuore è opera di Dio, Maestro interiore: l’apologeta non fa che prepararla (AGOSTINO, II). Pascal ripete i ritiri presso i “Solitari” di Port-Royal con l’intervallo di un soggiorno nel Palazzo privato di Roannez nella capitale. Il Duca lo scelse per guidarlo nel proprio cammino di conversione.
 
3. La vicenda di Port-Royal. Una burrasca stava però per abbattersi sul movimento di Port-Royal ed i suoi membri più in vista. Il gesuita François Annat, confessore del re, compilò un formulario in cinque proposizioni, date per riassunto dal pensiero di Giansenio esposto nell’Augustinus (1604), e lo deferì alle autorità teologiche della Sorbona. Antoine Arnauld (1612-1694), che aveva preso le difese di Giansenio, fu per questo oggetto di una fulminea reazione della Sorbona, che tolse allo studioso il titolo di dottore in teologia. Gli amici di Port-Royal, desiderando portare il dibattito in pubblico, vollero impegnare Pascal nella polemica. A questa circostanza dobbiamo le diciotto lettere anonime (che circolavano clandestinamente), denominate Le Provinciali (il cui titolo esatto è Lettere scritte ad un uomo di provincia da uno dei suoi amici) redatte dal gennaio 1656 al marzo 1657, un capolavoro della letteratura libellista di lingua francese. Pascal le firmava con lo pseudonimo di Louis de Montalte e fu coadiuvato da Antoine Arnauld e Pierre Nicole che gli fornivano la documentazione. Il successo delle Lettere fu immenso. Il 6 settembre 1657 le Provinciali furono iscritte all’Indice dei libri proibiti, una sorte sorprendente, quando si constati che nei due decreti del Sant’Uffizio del 1655 e del 1666, alcune delle 65 proposizioni lassiste condannate sotto il pontificato di Innocenzo XI (cfr. DH 2101-2167) riprendono proprio delle espressioni usate da Pascal nelle Lettere Provinciali. Appena queste furono sospese Pascal compose gli Scritti sulla grazia (cfr. Oeuvres, a cura di L. Lafuma, Paris 1963, pp. 310-348) e collaborò agli Scritti dei parroci di Parigi (cfr. ibidem, pp. 471-501).
 
Nel pieno di questi eventi, il 24 maggio 1656, Marguerite Périer, una sua nipote di dieci anni, era stata guarita improvvisamente di una fistola lacrimale ritenuta inguaribile, dal semplice contatto con una spina che la tradizione considerava appartenuta alla corona di Cristo, esposta in quel giorno alla venerazione nella cappella di Port-Royal. Alla fine dell’ottobre di quell’anno il processo canonico diocesano riconobbe il miracolo. Pascal interpretò questo prodigio come una benedizione divina promessa a chi soffre le persecuzioni per difendere la verità e la giustizia. Scrisse molti appunti sui miracoli che non furono inseriti nell’Apologia della religione cristiana (cfr. Oeuvres, pp. 606-617). Charlotte de Roannez, sorella del Duca, che aveva assistito al miracolo della sacra spina, si commosse al punto da sentirsi improvvisamente attratta alla vita religiosa: a lei Pascal indirizzò dal settembre 1656 al febbraio 1657 nove lettere ammirevoli di direzione spirituale, in particolare la quarta, sul mistero di Dio nascosto. Il periodo appena rievocato fa pensare ad un’interruzione del progetto dell’Apologia della religione cristiana, ma non sembra fu così. Alcuni fanno risalire il progetto dell’Apologia al miracolo della guarigione della nipote. Senza sottoscrivere questa opinione, diciamo piuttosto che contribuì a rafforzare lo zelo dell’apologeta. Difatti, qual era stata la posta in gioco nella polemica delle Lettere Provinciali? Quella ultima fu teologica, perché riguardava la difesa della grazia di Dio, mentre quella iniziale, e anche la più immediata, fu la concezione della morale cristiana, in particolare la critica alla cosiddetta “morale casuistica”.
 
Ispirato al molinismo (dal gesuita spagnolo Luis Molina (1563-1600) autore dell’opera L’accordo del libero arbitrio con la grazia, 1588), il “probabilismo” di molti confessori del tempo tendeva a favorire eccessivamente il beneficio dei dubbi e delle scuse nei casi di coscienza, finendo con l’approvare le condotte più rilassate e meno evangeliche. «La nostra causa — scrive Pascal — è quella della morale cristiana. I nostri avversari sono i casuisti che la corrompono. L’interesse che cerchiamo è quello delle coscienze delle quali siamo incaricati» (Scritti dei parroci di Parigi, in Oeuvres, p. 472). Che cosa è più importante: la tranquillità della coscienza o la chiamata alla perfezione evangelica? I casuisti sostenevano con fermezza che Dio non dà precetti la cui osservanza sia impossibile. I giansenisti ribattevano che chi riduce il dovere a ciò che è facile da compiere, è incline anche ad identificare troppo sbrigativamente l’arduo con l’impossibile.
 
4. Il piano di una Apologia della religione cristiana e gli ultimi anni. Ormai il progetto dell’Apologia della religione cristiana, da una parte, e Le Lettere Provinciali dall’altra, costituiscono i due pilastri dell’opera di Pascal collegati da un’ampia arcata. I due frammenti Lo spirito geometrico e L’arte di persuadere appartengono al periodo polemico. Il primo era destinato come prefazione ai Nuovi Elementi di Geometria redatti da Antoine Arnauld per le “Petites Ecoles” di Port-Royal. Giudicandola poco chiara, Arnauld la scartò. Nello stesso tempo Pascal si dedicò al problema della roulette (cicloide) e alla ricerca della dimostrazione delle soluzioni per un certo numero di problemi geometrici e matematici. Per “brevettarle” in qualche modo, su suggerimento del Duca di Roannez, Pascal bandì nel giugno del 1658 un concorso a premi e per riunire i risultati dei concorrenti redasse una Storia della cicloide, accompagnata da documenti sulle condizioni del concorso e sui giudizi finali. Ne sorsero dibattiti esposti in vari carteggi, stampati dal dicembre 1658 al marzo 1659. La Lettera di Amos Dettonville (altro pseudonimo di Pascal) al Signore de Carcavy, presenterà le valutazioni e i risultati definitivi. Carcavy approfittò della pubblicazione di questi risultati per aggiungervi altri piccoli trattati pascaliani sulla rettificazione di linee curve, i quali porranno le basi del calcolo infinitesimale. L’insieme diede origine ad un volume pubblicato con il titolo di Lettere di A. Dettonville che contengono alcune delle sue invenzioni di geometria. Questo fu l’ultimo contributo di Pascal ad un genere di ricerche che non aveva mai abbandonato.
In questo periodo la sua malattia, che non gli aveva dato tregua se non in brevi e sporadici intervalli, si aggravò. Sua sorella Gilberte venne a Parigi per stare accanto al fratello e vi rimase dal dicembre 1658 al marzo 1659. Ogni attività intellettuale fu interrotta. Successivamente accompagnò la sorella per tornare a Clermont a casa Périer. Fu allora che compose il più bello dei suoi scritti spirituali, la Preghiera per chiedere a Dio il buon uso delle malattie (cfr. POL, pp. 370-380), che non era però destinato alla pubblicazione. Tornato a Parigi all’inizio dell’ottobre del 1660 sarà qui raggiunto dalla famiglia Périer. La sua sorella più giovane, Jacqueline, monaca a Port-Royal, morirà poco dopo per una malattia intestinale all’età di soli 36 anni. Ha inizio un ultimo, breve periodo di intensa attività, dalla fine del 1660 alla primavera del 1662, quasi del tutto rivolto alla preparazione dell’Apologia, che però non fu mai portata a termine.
 
Pascal aveva intrapreso l’idea di classificare gli appunti preparatori dell’Apologia in 27 gruppi di frammenti. Egli non è però autore di aforismi: i “frammenti” vanno da alcune righe a discorsi che si estendono su parecchie pagine. La classificazione fu soggetta a ritocchi di propria mano. La maturazione del suo pensiero apologetico si intravede nel gruppo di frammenti XI°: «A P.R. Per domani» e XV°: «Transizione». La sigla è stata interpretata come significante «A Port-Royal. In vista della conferenza di domani», anche se non si sa con esattezza quando si tenne questa sua prolusione (probabilmente verso la fine del 1659). Pascal si riferisce all’esposizione del piano dell’Apologia presentato in quell’occasione, il cui riassunto ci è stato tramandato da Filleau de la Chaise nella prefazione al suo Discorso sulle prove dei libri di Mosè (1672) e da Etienne Périer, il figlio primogenito di Florin e Gilberte Périer (1642-1680) nella prefazione delle prime tre edizioni dei Pensieri realizzati a Port-Royal (1669-1670). «A P.R. per domani. Invano, o uomini, cercate in voi stessi il rimedio alle vostre miserie. Tutti i vostri lumi non possono giungere che a riconoscere che non è in voi stessi che troverete la verità e il bene. I filosofi ve l’hanno promesso e non l’hanno potuto fare. Essi non sanno né qual è il vostro vero bene, né qual è il vostro vero stato. Come avrebbero fornito rimedi ai vostri mali, che essi non hanno neppure conosciuti?» (POL, n. 321, pp. 592-593). Importa rilevare il principale slittamento nel progetto dell’Apologia della religione cristiana: dal primo schema «miseria dell’uomo senza Dio - Grandezza dell’uomo con Dio» che traccia un itinerario dall’antropologia della condizione umana alla teologia delle manifestazioni di Dio, si passa ad un secondo schema «Dio ha messo in Gesù Cristo la salvezza degli uomini». Le meditazioni della Sacra Scrittura si addensano nei gruppi di frammenti successivi al XV°. Il pensiero apologetico di Pascal diventa una “cristologia” agostiniana.
 
Il 18 marzo 1662 Pascal ebbe ancora il tempo di vedere l’apertura della prima linea di carrozze nella capitale. Con il Duca di Roannez aveva infatti fondato la prima società di trasporti pubblici e l’iniziativa era destinata ad assicurare con i suoi proventi l’assistenza di alcuni poveri di Blois. Sentendo avvicinarsi la fine, volle compiere ancora una volta i gesti più significativi della tradizione cristiana: ospitò nella propria casa una famiglia bisognosa e lasciò in legato testamentario la metà dei suoi beni ai poveri. Mandò inoltre emissari per chiedere perdono a persone con le quali aveva litigato. Il 29 giugno Pascal chiese di essere trasportato a casa della sorella Gilberte e del cognato Florin Périer a Parigi. Il parroco di Saint-Etienne du Mont, padre Beurrier, venne da lui a più riprese per ricevere la sua confessione. Nella notte del 19 agosto 1662, Pascal moriva all’età di 39 anni.
 
5. Dall’Apologia alle edizioni dei “Pensieri”. Al momento della sua morte, i carteggi di Blaise Pascal diventarono proprietà della famiglia Périer. Una preparazione paziente e travagliata di una prima raccolta dei frammenti ritrovati fra le sue carte fu data alle stampe il 2 gennaio 1670 con il titolo di Pensieri sulla religione e alcuni altri argomenti. Questa prima edizione curata a Port-Royal è all’origine dell’appellativo di Pensieri successivamente dato alla raccolta. Accanto ai coniugi Périer e al loro figlio primogenito Etienne (1642-1686), vi collaborarono il Duca di Roannez, Filleau de la Chaise e i teologi di Port-Royal, Arnauld e Nicole. Malgrado gli scrupolosi tentativi della famiglia di mantenersi fedeli ai testi redatti da Blaise, essi subirono alcuni ritocchi. Ai Périer dobbiamo anche la conservazione, fatto importante e insolito, dei testi autografi di Pascal. Fu così che, sul finire del secolo, l’abate Louis Périer, nipote di Pascal, poté confezionare su fogli di grande formato un albo che depositò presso la biblioteca parigina di Saint-Germain-des-Prés. Dopo la Rivoluzione francese, l’albo finì nella Biblioteca Nazionale di Francia, dove è oggi conservato con la denominazione Originale dei Pensieri di Pascal. Disponiamo di altre due copie manoscritte: la prima, quasi identica all’originale, fu donata nel 1723 da Marguerite, secondogenita dei Périer, a suo cugino don Jean Guerrier, benedettino; la seconda fu deposta nello stesso anno presso l’Oratorio di Clermont-Ferrand assieme a molte altre carte che riguardavano Pascal. L’oratoriano Pierre Guerrier, nipote di Jean Guerrier, la fece poi rilegare e fu consegnata dopo la sua morte alla Biblioteca Reale di Parigi (1779), poi divenuta la Biblioteca Nazionale.
 
Le diverse numerazioni dei Pensieri nascono dalle differenti edizioni curate prima da Louis Lafuma e poi da Michel Le Guern seguendo il testo della “Prima Copia”; e poi da Philippe Sellier utilizzando invece la “Seconda Copia”. Va segnalato che dalla prima edizione di Port-Royal (1670), per stilare la quale era servito già il testo della “Prima Copia”, fino a quella di Condorcet (1776) e a quella di don Charles Bossut (1779), al quale si deve la prima edizione in 5 voll. delle Opere Complete di Pascal, si introdusse l’infelice abitudine di separare i Pensieri di indole filosofica da quelli che trattano di problemi attinenti alla religione. Questa divisone travisa di fatto il progetto dell’Apologia della religione cristiana così come fu pensato da Pascal. Nel 1842, Victor Cousin manifesterà all’Accademia Francese la necessità di realizzare una nuova edizione dei Pensieri di Pascal.
 
Si succedettero così altre edizioni che, oltre a riprodurre il testo esatto dei Pensieri, cercavano di ordinarli secondo un piano dell’Apologia ricostruito in modo conforme alle indicazioni, purtroppo parziali, date dalla conferenza tenuta a Port-Royal da Pascal e riferita da Filleau de La Chaise. Nell’Ottocento va ricordata l’edizione curata da Armand Prosper Faugère, Pensées, fragments et lettres de Blaise Pascal, publiées pour la première fois conformément aux manuscrits originaux (1844) e quella di Ernest Havet, Les Pensées de Pascal (1852). Nel Novecento, l’edizione critica di tutte le opere in 14 voll. (1904-1914) curata dal filosofo Léon vicg (1869-1944) con la collaborazione di P. Boutroux e F. Gazier, e l’edizione di Jacques Chevalier, nelle Oeuvres Complètes de Pascal (1954). Le abituali numerazioni dei Pensieri si riferiscono a queste due ultime edizioni (Brunschvicg oppure Chevalier). Dopo la metà del Novecento, le ricerche paleografiche di Zacharie Tourneur e di Didier Anzieu sull’Originale hanno consentito a Louis Lafuma di tornare alla classificazione primitiva dei frammenti in Le manuscrit des Pensées de Pascal, les feuillets autographes reclassés dans l’ordre de la Copie (Paris, 1962). Lafuma mise il risultato a disposizione del pubblico in Pascal, Oeuvres Complètes (Paris, 1963). Poiché la “Prima Copia” fu interpolata dalle note di Arnauld, Nicole e Etienne Périer, dopo l’edizione di Lafuma, Philippe Sellier curò una nuova edizione de Les Pensées (Paris, 1976) tratti dalla “Seconda Copia” del manoscritto che Gilberte Périer aveva conservato come editio non varietur.
  

II. Gli studi di fisica e di geometria

1. Gli studi sulla pressione atmosferica e il problema del vuoto. Pascal fondò l’idrostatica sulla nozione di pressione all’interno di un fluido. La parola «pressione» non figura nei Galleggianti di Archimede, scopritore della legge della spinta idrostatica. Ma più direttamente che ad Archimede, Pascal si rifà agli Elementi di idrostatica (1586) di Simone Stevino (1548-1621), che dimostrò per primo il fondamentale teorema di Archimede, rendendolo del tutto indipendente dalla fisica aristotelica (alcuni commentatori di Aristotele avevano sostenuto che l’acqua, in acqua, non pesava). Stevino aveva spiegato la pressione in un liquido in termini del suo “peso specifico”, mostrando che la forza esercitata su una parte del fondo dipende soltanto dalla sua area e dall’altezza della colonna di liquido al di sopra di essa, non dal volume totale. Stevino ottenne analoghi risultati, per via deduttiva, riguardo alla pressione sulle pareti. Il contributo di Pascal fu di conferire all’idrostatica una visione d’insieme che ancora le mancava, poi raccolta nel Trattato sull’equilibrio dei liquidi (1663), ove approfondisce l’analisi del “paradosso idrostatico” fatta da Stevino. Facendo uso del principio di Torricelli, Pascal mostra che una piccola colonna di liquido è in grado di sopportare un grosso peso mediante la generalizzazione del funzionamento dei vasi comunicanti secondo due princìpi: a) i liquidi pesano in proporzione della loro altezza; b) un liquido che riceve una pressione la trasmette in tutte le direzioni (quest’ultimo oggi è noto come «principio di Pascal»).
 
Questo primo trattato era accompagnato, nell’edizione del 1663, da un secondo Trattato della pesantezza della massa d’aria che segna il passaggio dalla pressione idrostatica alla pressione aerostatica. Pascal prende l’avvio dalla spiegazione di tutti i fenomeni pneumatici osservati fin dall’antichità e sostituisce alla spiegazione tradizionale per mezzo dell’horror vacui, quella che fa intervenire la nozione di pressione atmosferica. Pascal capì subito che, per mezzo del tubo capovolto nella vaschetta, Torricelli realizzava implicitamente una “pesata d’aria”; la colonnina di mercurio nel tubo chiuso all’estremità superiore fa da contrappeso a una colonna d’aria atmosferica della medesima sezione. L’intuizione fu confermata in un duplice modo. Anzitutto, con l’aiuto di Roberval, effettuò “l’esperienza del vuoto nel vuoto”, provando che — come Torricelli aveva suggerito nella sua Seconda lettera al Ricci (cfr. Opere Scelte, Torino 1975, p. 662) — se una diminuzione della pressione atmosferica esterna avesse abbassato l’altezza della colonnina di mercurio, allora l’assenza totale di pressione nello spazio esterno al tubo avrebbe abbassato la colonnina al livello del mercurio nella vaschetta. La seconda conferma avverrà mediante un esperimento che Pascal chiese di compiere al cognato Florin Périer, come si legge in una lettera inviata a quest’ultimo, in base a quanto gli aveva consigliato Descartes, sia attraverso Mersenne, sia nel corso di una visita a casa di Pascal il 23 settembre 1647 (cfr. Oeuvres, pp. 221-222). Il ragionamento era il seguente: se il peso dell’aria è proporzionale allo “spessore” dell’atmosfera, allora anche la pressione atmosferica in un dato punto diminuirà con l’altitudine del luogo in cui verrà misurata; se è questa la vera causa dell’elevazione della colonnina sopra il livello del mercurio nella vaschetta, allora l’altezza della colonnina varierà a seconda dell’altitudine (altezza del luogo sul livello del mare) in cui essa verrà misurata.
 
L’esperimento fu realizzato il 19 settembre 1648 da una piccola comitiva di cinque persone guidate da Florin Périer nel corso di una ascensione sul Puy-de-Dôme (1465 m), trasportando 16 libbre di mercurio rettificato, una vasca e due tubi sigillati simili. Alla partenza della spedizione un barometro era stato depositato nel convento dei Minimi, al fine di assicurarsi della costanza dell’altezza della colonna di mercurio durante il corso della giornata. La colonna in tutti e tre i tubi aveva un’altezza di 26 pollici e tre righe e mezza. Nella cappellina in cima al monte il mercurio raggiungeva l’altezza di 23 pollici e due righe. Ridiscendendo, una nuova misurazione effettuata al luogo detto “La font de l’arbre”, circa a metà pendio, rilevò 25 pollici. Tornati in città e verificato il barometro lasciato in consegna ai Minimi, si rallegrarono di aver dimostrato che «l’altezza del vivo argento diminuisce secondo l’altitudine dei luoghi». Con lievi differenze di misurazione, l’esperimento descritto dal sig. Périer e riprodotto nell’opera di Pascal (cfr. Oeuvres, pp. 223-225) venne poi realizzato anche da Pierre Gassendi. Il tubo torricelliano ricevette dunque come prima applicazione quella di altimetro, prima ancora di quella di barometro meteorologico. Nei giorni successivi, Périer ripetette l’esperimento dal campanile del Duomo di Clermont e da altre due torri della città. Pascal rifarà l’esperienza dall’alto della torre di s. Giacomo a Parigi. Colpiva il fatto che una differenza di pressione atmosferica potesse essere riscontrata a partire da dislivelli così ridotti.
 
L’esperienza sulla pressione atmosferica avrà anche l’importanza teorica di preparare la scoperta dell’elasticità dell’aria. Torricelli ricorreva a due analogie: affermava che gli uomini “vivono nell’aria come dei pesci nell’acqua” e che l’aria, a differenza dell’acqua, è essenzialmente comprimibile, in quanto gli strati di aria si sovrappongono nell’atmosfera come le balle di lana o di cotone nel magazzino di un porto (cfr. Opere scelte, op. cit., pp. 663 e 685). Mentre Descartes si accontentava di distinguere l’“aria sottile” e l’“aria grossolana”, Torricelli generalizzava la distinzione riconoscendo diversi gradi di pressione negli strati sovrapposti dell’atmosfera. Il fisico francese Edme Mariotte (1620-1684) riprese le osservazioni di Torricelli e di Pascal prima di formulare nel 1675 la legge secondo cui la compressione dell’aria è proporzionale al peso che la carica. Il fisico e chimico inglese Robert Boyle (1627-1691) era giunto indipendentemente alla medesima legge (cfr. Nuovi esperimenti fisico-meccanici concernenti l’elasticità dell’aria e i suoi effetti, 1660) sulla base di esperimenti realizzati con la pompa pneumatica ideata da Otto von Guericke (1602-1686). Pascal fu incontestabilmente un protagonista dello smantellamento della fisica aristotelica delle qualità elementari per sostituirla con la nuova fisica fondata sulla misura delle proprietà meccaniche dell’acqua e dell’aria. Non fu nemmeno estraneo al nuovo capitolo che cominciò a svilupparsi appena dopo la sua morte: la prima cosmografia dell’atmosfera ormai non più concepita come la regione sublunare indeterminata che separava il suolo del globo terrestre dall’orbita lunare.
Inizialmente né Torricelli né Pascal si erano interessati alla questione metafisica della “possibilità del vuoto”, nella quale entrambi furono poi trascinati quasi loro malgrado. Tutti coloro che avevano assistito all’esperimento barometrico furono infatti portati a chiedersi se, una volta che, all’interno del tubo, il mercurio si abbassava fino all’altezza che fa da contrappeso alla pressione atmosferica, lo spazio del tubo sopra la colonnina fosse davvero “vuoto”. Mentre la spiegazione del fenomeno barometrico per mezzo dell’esistenza di una “pressione” atmosferica era cosa ammessa quasi da tutti, l’accettazione del vuoto nel tubo torricelliano lasciava invece un vasto campo di opinioni filosofiche, che vedevano contrapposti ai “vacuisti” i fisici cartesiani e i loro rivali scolastici. Pascal spiegava tale contrasto fra il consenso sull’esistenza della pressione atmosferica e il dissenso sulla possibilità del vuoto barometrico attribuendolo ironicamente alla «sottigliezza, capacità della mente di risolvere vere difficoltà dando ad esse parole vane senza fondamento» (Oeuvres, p. 202).
 
Il carteggio fra il gesuita Etienne Noël e Pascal costituisce in proposito un documento di eccezionale interesse. Alla questione «che cosa sarebbe uno spazio vuoto?». Noël risponde: «lo spazio vuoto è un corpo, perché ha le azioni fisiche di ogni corpo materiale. Trasmette i raggi luminosi tramite riflessioni e rifrazioni; non rallenta in esso il movimento di un altro corpo» (Oeuvres, p. 201). Pascal replica che cercare quale corpo costituisca questo vuoto, prima di assicurarsi se sia davvero un corpo, rappresenta una petitio principii: la risposta è già contenuta nella domanda. Pascal dà al padre Noël una lezione di docta ignorantia, opponendo all’argomentazione puramente logica l’argomentazione sperimentale che raccoglie le sue premesse da esperienze. Senza queste ultime, si confondono inevitabilmente definizioni nominali con definizioni reali. Perciò Noël ricorre alla forma argomentativa preferita di solito dagli scolastici e definita demonstratio potissima: la riduzione all’assurdo. La confutazione della possibilità del vuoto barometrico prende l’avvio da enunciati che egli ritiene di per sé contraddittori, come «la luce attraversa uno spazio vuoto», o «un corpo si sposta in un tempo determinato in assenza di mezzo resistente». Pascal rileva che, per essere convincente, la confutazione richiederebbe una definizione previa di cosa si intende per “spazio vuoto”, “luce” e “movimento”, invece di considerarle nozioni comuni, per sé evidenti. Una definizione non equivale mai ad una dimostrazione; e una definizione reale deve essere preceduta da una dimostrazione. Pascal aggiunge argutamente che, grazie alle nostre definizioni, crediamo di conoscere la natura delle cose così perfettamente come l’ignoriamo (cfr. ibidem, p. 200).
 
Per Pascal il vuoto barometrico non è un corpo, ma nemmeno è il “nulla”; è qualcosa sui generis: non è una cosa materiale, né il predicato di una cosa particolare. Padre Noël ribatterà ironicamente a Pascal che i suoi esperimenti «si possono spiegare con altrettanta plausibilità sia con il pieno che con il vuoto, per mezzo dell’entrata di un corpo sottile a noi ignoto, così come per uno spazio vuoto che non è né Dio, né una creatura, né un corpo né uno spirito, né sostanza né accidente, che trasmette la luce senza resistenza, che è immobile e trasportabile con il tubo, che è dovunque e in nessuna parte, che fa tutto e niente; in quanto vuoto esiste e fa meraviglie; in quanto spazio non è e non fa nulla» (ibidem, p. 208). Il malinteso è completo: nella nozione di spazio vuoto Noël vede soltanto contraddizioni; Pascal non vede invece alcuna contraddizione fra occupare uno spazio ed “essere vuoto”.
 
Va segnalato che Pascal sottoscriveva la definizione dello “spazio vuoto” che il padre Noël gli attribuiva, ma, oltre a sostenere che ciò non conteneva alcuna assurdità, ometteva le parole: «questo spazio non è né Dio, né una creatura». Intendeva protestare contro gli abusi di argomenti teologici in filosofia naturale: «I misteri che riguardano la divinità sono troppo santi per profanarli nelle nostre dispute; debbono essere l’oggetto delle nostre adorazioni, e non dei nostri colloqui» (Lettera di Pascal al Sig. Le Pailleur, in Oeuvres, p. 210). Osserviamo infine che per risolvere la questione sarebbe bastato che padre Nöel avesse precisato che intendeva parlare di “vuoto assoluto”, mentre Pascal parlava di “vuoto relativo”. Pascal era convinto che in nessun caso si poteva rispondere ad un problema di fisica sperimentale con argomenti ontologici. Se il vuoto fosse il non-essere, sarebbe qualcosa di impossibile da realizzare sperimentalmente. Pascal, iniziatore dell’idrostatica, poi dell’aerostatica, non sarebbe stato sorpreso di imparare che il vuoto non poteva essere altro che relativo, poiché sapeva già che il vuoto consiste in una depressione all’interno di un fluido, di un mezzo continuo.
 
2. Le sezioni coniche, la geometria proiettiva e le curve di rotolamento. Le idee di Pascal sulla geometria hanno una storia sconcertante. Alla sua morte egli lasciò sei opuscoli per un futuro Trattato sulle sezioni coniche. Oltre al Saggio sulle coniche pubblicato quando aveva solo 16 anni, solo uno dei sei opuscoli pervenne all’abate Bossut, che lo pubblicò nella sua edizione delle Opere di Pascal (1779). Il Saggio conteneva un teorema destinato ad una sorprendente fortuna: «in un esagono iscritto in una sezione conica (cerchio, ellisse, parabola, iperbole), i tre punti nei quali si incontrano i lati opposti sono allineati». Nel 1808 il geometra Charles J. Brianchon (1783-1864) dimostrò il teorema inverso: «Se i tre punti nei quali si incontrano i tre lati opposti di un esagono sono allineati, allora quest’esagono è inscrivibile in una sezione conica». L’importanza di questa reciprocità è quella di mettere in evidenza una caratteristica della geometria proiettiva, che stava allora nascendo ad opera di Lazare Carnot (1753-1823) e Jean-Victor Poncelet (1788-1867): la “dualità” dei punti e delle rette sul piano, delle rette e dei piani nello spazio (su un piano due rette individuano un punto e due punti individuano una retta; nello spazio, invece, due piani determinano una retta e due rette, a loro volta, determinano un piano). Un poligono inscritto in una conica è la figura duale di un poligono circoscritto ad essa, con i lati tangenti alla conica e passanti per i vertici del poligono inscritto.
 
Brianchon aveva capito che la relazione di dualità forniva la portata proiettiva del teorema di Pascal che dice: «In un esagono circoscritto ad una sezione conica, le tre diagonali che congiungono i lati opposti concorrono in un medesimo punto». I teoremi di Pascal e di Brianchon non soltanto occupano un posto fondamentale nello studio delle sezioni coniche, ma definiscono anche il punto di vista proiettivo. Nel suo Trattato delle proprietà proiettive delle figure (1822) Poncelet raggruppa tutti i teoremi “duali” che restano validi quando i termini “punto” e “retta” vengono scambiati l’uno con l’altro e mette in luce che i teoremi sull’esagono costituiscono il nucleo della geometria proiettiva: «i sei vertici/lati di un esagono giacciono su una conica se e soltanto se i tre punti/rette comuni alle tre coppie di lati/vertici opposti hanno una retta/punto in comune».
 
In mancanza di testi che sono andati perduti si può attribuire a Pascal il passaggio dallo studio delle sezioni coniche alla geometria proiettiva senza commettere un anacronismo? Le due seguenti ragioni ci autorizzano a farlo. La prima è che Pascal ha avuto chiaramente l’idea che l’“infinitamente lontano” appartiene alla geometria, così come le appartengono ciò è prossimo e poco distante. La retta è infinitamente prolungabile: è la sola linea che non cambia direzione. Ma che cosa significa “avere la stessa direzione”? Egli dà due risposte: a) tutte le rette che convergono verso un medesimo punto e concorrono in questo punto hanno la stessa direzione; b) tutte le rette parallele, in quanto non si intersecano, hanno la medesima direzione.
 
Ispiratosi precocemente alle riflessioni di Girard Desargues (1591-1661 ca.) sulla prospettiva (Prima stesura del tentativo di studiare gli effetti dell’incontro di un cono con un piano, 1693), Pascal comprese l’importanza di considerare gli elementi infinitamente lontani di una figura geometrica. In particolare, ogni retta ha almeno un punto all’infinito. Già Keplero (1571-1630) aveva suggerito che le sezioni coniche formano una famiglia molto compatta e aveva assunto che la parabola ha un punto focale proiettato all’infinito, e quindi che rette parallele si incontrano in “un punto all’infinito”, che più tardi la geometria proiettiva chiamerà «punto improprio». Siccome la luce proveniente dal Sole viene considerata come formata da raggi paralleli, mentre raggi provenienti da una sorgente luminosa terrestre vengono considerati come formanti un cono, ossia un fascio convergente, si conclude che il cilindro non è altro che un cono con il vertice all’infinito, e un fascio parallelo di rette è una famiglia di rette tutte passanti per lo stesso punto all’infinito.
 
La pratica della prospettiva aveva preparato un’accoglienza favorevole a queste idee rendendole plausibili. Discepolo di Desargues, Pascal compie un passo ulteriore: riforma la nozione di “direzione” riconducendola all’univocità, mostrando che le due espressioni: «non incontrarsi mai» e «incontrarsi in un punto all’infinito» sono equivalenti, non potendosi dedurre alcuna contraddizione fra le conseguenze dell’una e dell’altra. Egli divide così le rette in due sole classi: quelle che non concorrono in alcun punto, e quelle che concorrono in un punto, sia esso a distanza finita oppure infinita (le parallele). A questa divisione furono opposte obiezioni superficiali: perché Pascal parla del punto all’infinito di una retta, invece di parlare di una infinità di punti infinitamente lontani? Non dice forse che due rette parallele si incontrano in un punto all’infinito, indeterminato, perché se si incontrassero in due o più punti diversi, pure all’infinito coinciderebbero e non sarebbero più distinte? Per altri, definire il parallelismo come l’incontro in un punto all’infinito era una semplice convenzione verbale che non intaccava la definizione reale del parallelismo (equidistanza di due rette in ciascuno dei loro punti). Pascal non condivideva l’impostazione nominalista di queste critiche, che cancellava la reale portata del suo assunto relativamente ai punti infinitamente lontani, e cioè distinguere la geometria delle direzioni dalla geometria delle distanze. Questa separazione contiene in germe la distinzione fra “geometria di posizione” che ha per oggetto le proprietà proiettive, e “geometria delle distanze”, che ha per oggetto le proprietà metriche che servono a misurare le lunghezze.
 
Una seconda ragione che autorizza ad attribuire a Pascal una certa paternità della geometria proiettiva è che egli collaborò con Antoine Arnauld alla riforma dell’insegnamento della geometria nelle Petites Ecoles di Port-Royal. Il testo di riferimento era sempre gli Elementi di Euclide, ma più di una voce aveva ormai rilevato che alcune definizioni euclideee erano contorte e alcune sue dimostrazioni talvolta inutilmente complicate. Arnauld preparò la stesura dei Nuovi elementi di geometria che furono pubblicati nel 1667, dopo la morte di Pascal, al quale aveva chiesto una breve introduzione alla sua revisione di Euclide. Arnauld rifiutò però il testo propostogli da Pascal, molto più penetrante riguardo ai fondamenti della geometria (cfr. Oeuvres, p. 359). Pascal ebbe dunque l’occasione di riflettere sulle dimostrazioni geometriche. L’ideale di dimostrazione perfetta consisteva all’epoca nel provare la verità di un teorema, mettendola in evidenza per mezzo di costruzioni ausiliarie. L’ideale della dimostrazione indiretta consisteva nel provare la falsità della negazione del teorema, riducendola all’assurdo o all’impossibile. Nella tradizione dei collegi dei gesuiti la dimostrazione indiretta era ritenuta “potentissima” e la più perfetta possibile: puramente logica, fa a meno del ricorso a costruzioni ausiliarie.
 
Il punto di vista proiettivo, preannunciato da Pascal, chiarisce la vera natura delle costruzioni ausiliarie. Tracciare una figura rappresenta un innegabile richiamo all’intuizione; nonostante ciò, la figura può risultare esatta o inesatta. Invece, le costruzioni ausiliarie possono essere motivate da ragioni intrinseche ai dati del problema da risolvere o dal teorema da dimostrare. Anzitutto, una linea aggiunta alla figura come costruzione ausiliaria si traccia solo dopo essersi assicurati della possibilità della sua costruzione. Nelle sue dimostrazioni Pascal procede spesso in due modi che diverranno caratteristici della geometria proiettiva: a) la figura che rappresenta i dati di un problema è una figura incompleta; le costruzioni ausiliarie possono essere gli elementi latenti della figura completa la quale mette in evidenza la soluzione ricercata (ad esempio, perché la reale struttura di un esagono sia manifesta è richiesto che la sua figura sia completa: che i lati opposti siano prolungati fino alla loro intersezione e che siano tracciate le diagonali da un vertice al vertice opposto); b) Se un punto viene aggiunto alla figura di un esagono e se questo punto viene congiunto ai sei vertici dell’esagono, si ottiene una nuova figura che può interpretarsi come un nuovo poligono con sette vertici se il punto aggiunto è sul piano del poligono, o come una piramide con base esagonale se è nello spazio. Ogni teorema vero per i punti e le rette congiungenti è ugualmente vero per i piani e le loro rette di intersezione. Si manifesta così una nuova dualità più generale (proiezione centrale di una figura spaziale sul piano - sezione di una figura spaziale con un piano) che ingloba le due altre dualità: la dualità di due punti e delle rette sul piano e la dualità delle rette e dei piani nello spazio. La considerazione delle sezioni coniche finisce con l’assumere la sua completa generalità nella geometria proiettiva: ogni figura piana può apparire come la sezione di una figura spaziale. «L’oggetto della geometria pura è lo spazio. Lo spazio è infinito in tutte le dimensioni» (Frammento dell’Introduzione alla geometria, in Oeuvres, p. 359).
 
Ai tempi di Pascal apriva l’accesso ai fondamenti della geometria anche il cosiddetto “metodo degli indivisibili in geometria cinematica”. Ogni curva viene concepita come la traiettoria di un punto mobile, e la direzione del movimento del punto è data dalla tangente alla traiettoria in questo punto: due soli concetti fondamentali divengono allora il punto e il movimento. Gli “indivisibili” sono gli elementi della composizione del continuo, pur considerato come infinitamente divisibile. Questi preannunciano gli infinitesimi evanescenti, ossia i “differenziali” del moderno calcolo infinitesimale. Sebbene possa sembrare assurdo considerare una linea come la somma dei punti che giacciono su di essa, si può tuttavia stabilire una corrispondenza punto a punto tra due linee, traendone conclusioni sulle relazioni geometriche fra queste linee. Bonaventura Cavalieri (1598-1647) e Torricelli avevano già esplorato questa via. Pascal contribuisce anch’egli a questo nuovo capitolo della geometria con la Storia della “roulette”, anche chiamata “trocoide” o “cicloide”, con la quale si riferisce come si è arrivati per gradi alla conoscenza della natura di tale linea, datata 10 ottobre 1658 (cfr. Oeuvres, pp. 117-142), pubblicata in occasione di un concorso bandito dallo stesso Pascal nel giugno 1658 (vedi supra, I.4).
 
Pascal indaga la natura e la proprietà delle curve generate dal rotolamento continuo di un cerchio lungo una linea (una retta, un altro cerchio o altra curva). Il caso più semplice è la curva cicloide, che Pascal chiama roulette. «C’è da meravigliarsi — egli afferma — del fatto che gli Antichi non l’abbiano considerata. Difatti non si trova nulla in proposito nei loro scritti, benché non ci sia nient’altro in questa linea che il percorso tracciato nell’aria dal chiodo di una ruota quando è animata dalla sua rotazione ordinaria, sin dall’istante in cui questo chiodo cominciava ad alzarsi al di sopra del suolo, fino a quando il rotolamento continuo della ruota l’abbia riportato a terra dopo un giro completo» (Oeuvres, p. 117). I principali risultati dell’indagine sulla cicloide esposti da Pascal nella Storia sono la rettificazione (la lunghezza dell’arco della cicloide risulta essere 4 volte la lunghezza del diametro del cerchio generatore), la quadratura (cioè il calcolo dell’area circoscritta dall’arco di cicloide, uguale a 3 volte la superficie del circolo generatore) e le proprietà possedute dalla tangente in ciascun punto della cicloide. Infine, nel suo Trattato sui seni di un quadrante di cerchio (1658) giunse a un passo dalla scoperta del calcolo infinitesimale discutendo l’integrazione della funzione seno (cfr. Oeuvres, pp. 155-158). Leibniz (1646-1716) dichiarerà che proprio leggendo questo testo di Pascal ebbe improvvisamente intuizione del calcolo infinitesimale. Pascal fu uno dei geni della geometria del Seicento, secolo che ne conobbe alcuni di grandissimi.
  

III. Il pensatore dell’infinito

La meditazione di Pascal sull’infinito, che appartiene alla generazione precedente l’invenzione del calcolo infinitesimale, fu un punto nodale nel pensiero dello scienziato francese. Nell’opuscolo Dello spirito geometrico offriva già questa riflessione riassuntiva: «Ecco il mirabile rapporto che la natura ha posto tra queste cose (le grandezze divisibili all’infinito e gli indivisibili) e le due meravigliose infinità che essa ha proposto agli uomini, non da concepire, ma da ammirare e per portarne a termine la considerazione con un ultimo rilievo, aggiungerò che i due infiniti, per quanto infinitamente differenti, sono non di meno relativi l’uno all’altro, in tal modo che la conoscenza dell’uno porta necessariamente alla conoscenza dell’altro» (POL, pp. 351-352).
 
1. La meditazione pascaliana sui “due infiniti”. Pascal riprende il tema della “duplice infinità” nella meditazione che, significativamente, ha essa pure un duplice titolo: Sproporzione dell’uomo e I due infiniti (cfr. POL, n. 84, pp. 425-434), il cui scopo leggiamo nel preambolo «Ecco dove ci portano le conoscenze naturali. Se esse non sono veritiere non c’è affatto verità nell’uomo, e se lo sono, egli vi troverà un grande motivo di umiliazione, perché costretto ad abbassarsi in un modo o nell’altro». Dalla posizione dell’uomo in un universo immenso, nel quale nulla è proporzionato al suo proprio corpo, quali conclusioni ricaverà l’uomo riguardo alla sua condizione? Può la meditazione che segue essere detta “copernicana”? A dispetto della sua versatilità, Pascal sembra aver dato poca attenzione alla riforma dell’astronomia tolemaica. 
 
«Prigione. Mi sembra giusto che non si approfondisca l’opinione di Copernico: ma questo....! Importa per tutta la vita sapere se l’anima è mortale o immortale» (POL, n. 346, p. 529). Apparentemente Pascal ha dato uno sguardo soltanto distratto alla “rivoluzione copernicana”, quasi chiedendosi: “l’uomo aspetta la sentenza di condanna a morte in un carcere: sarebbe ragionevole che si distraesse di ciò che l’aspetta dopo la morte?”. Ormai da due generazioni si era passati dall’osservazione del cielo ad occhio nudo a quella strumentale grazie al cannocchiale, che aveva trasformato la riforma astronomica in rivoluzione cosmologica. Due erano i temi conflittuali per il pensiero del tempo: da una parte la centralità del Sole aveva sostituito la centralità della Terra; dall’altra, la tenue frontiera fra il mondo “sub-lunare” ed il mondo celeste aveva lasciato il posto all’incommensurabile vuoto enigmatico che separava adesso l’orbita di Saturno dalla sfera delle stelle fisse. La citazione senza autore che figurava in varie antologie medioevali, e che Pascal poteva aver ripreso da Giordano Bruno (1548-1600), è significativa in proposito: «Tutto questo mondo visibile non è che un segmento impercettibile nell’ampio seno della natura. Nessuna idea vi s’avvicina. Abbiamo un bello sforzarci di dilatare le nostre concezioni al di là degli spazi immaginabili, non partoriremo che atomi, a prezzo della realtà delle cose. È una sfera infinita il cui centro è ovunque, la circonferenza in nessun luogo» (POL, n. 84, p. 426).
 
Che senso potevano conservare le proposizioni censurate o condannate circa la centralità del Sole e la mobilità della terra in confronto all’immensità dell’Universo? La meditazione di Pascal comincia con un dittico: l’osservazione telescopica dell’infinitamente grande (con l’ausilio del cannocchiale galileiano) e quella microscopica dell’infinitamente piccolo (con l’ausilio dell’occhialino). Ponendosi dal punto di vista dell’osservatore terrestre, Pascal mostra che l’universo celeste si allarga in una serie di spire, ognuna delle quali è il centro della successiva. La prima spira rappresenta l’orbita solare; la seconda raffigura il movimento delle stelle; e infine accessibile soltanto all’immaginazione, la spirale galattica. Nella descrizione dell’infinitamente piccolo la progressione decrescente prende l’avvio dal corpo umano, per passare poi all’acaro della scabbia, il più piccolo animale visibile, che viene infine suddiviso nelle sue parti, fino ad arrivare all’«ambito di quello scorcio di atomo».
 
Quali sono le conclusioni della meditazione pascaliana su I due Infiniti? Anzitutto, lo smarrimento dell’immaginazione davanti al fatto che nulla nell’universo è proporzionato all’uomo: «Che cos’è l’uomo nella natura? Un nulla in confronto con l’infinito, un tutto in confronto al nulla, qualcosa di mezzo fra il nulla e il tutto […]. Non avendo contemplato questi infiniti, gli uomini si sono volti in modo temerario alla ricerca della natura, come se avessero qualche proporzione con essa» (POL, n. 84, p. 428). Lo sconcerto sfocia nell’angoscia: «Il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi spaventa» (POL, n. 91, p. 436). Il paradigma della sfera infinita il cui centro sta dovunque era servito, quando l’immagine del mondo era tolemaica, a consolidare l’idea di Dio di fronte a quella della natura. Lo stesso paradigma riceve da Pascal un nuovo impiego, applicandolo ad un cosmo decentrato e infinito. Secondo la felice espressione di Alexandre Koyré, Pascal è un esponente della cultura che è passata dal «mondo chiuso all’universo infinito».
In secondo luogo, Pascal offre un rimedio allo sgomento dell’immaginazione intesa come potenza ingannatrice. Senza citare Copernico (1473-1543), la meditazione è radicalmente copernicana: egli, però, non si preoccupa di disquisire sulla posizione centrale della Terra, ma pone in evidenza che la prospettiva dell’uomo, nell’intero universo osservato, è inevitabilmente terrestre. Appare anche in questo punto l’indirizzo anticartesiano della meditazione pascaliana. Per Descartes ciò che non è di natura puramente intellettuale è privo di evidenza, non può essere chiaro e distinto. 
 
Pascal non nega che le nostre immagini, legate all’oscurità dei nostri sensi, siano suscettibili di riforma prima di tramutarsi in pensiero. Ne concepisce però la loro mutevolezza in tutt’altro modo, facendo del punto di vista terrestre un universale principio di “relatività osservazionale”. Egli confronta metodicamente la posizione dell’uomo nell’universo alla nostra condizione e alle nostre conoscenze: «Non cerchiamo, dunque sicurezza né stabilità. La nostra ragione è sempre delusa dalla mutevolezza delle apparenze; nulla può fissare il finito tra i due infiniti che lo racchiudono e lo fuggono. Avendo ben capito questo, credo che ci si terrà quieti, ciascuno nello stato in cui la natura lo ha posto. Poiché questo luogo di mezzo che ci è toccato in sorte è sempre lontano dagli estremi, che cosa importa che uno abbia un po’ più di intelligenza delle cose?» (POL, n. 84, pp. 431-432). Il nostro orizzonte umano ci confina in una docta ignorantia: «Quel poco di essere che abbiamo ci nasconde la vista dell’infinito. La nostra intelligenza occupa nell’ordine delle cose intellegibili lo stesso grado del nostro corpo nell’estensione della natura […]. Se l’uomo studiasse se stesso per prima cosa, capirebbe quanto sia incapace di andare oltre» (ibidem, pp. 430 e 432). Pascal è ben lontano da Descartes il quale, malgrado il suo dubbio metodico, illustra le principali presunzioni naturali dell’intelligenza umana nella sua dottrina della certezza fondata sull’evidenza delle idee chiare e distinte.
 
Due obiezioni si presentano al modo di procedere di Pascal. Non sta egli confondendo l’infinito (desunto da riflessioni filosofico-matematiche) con l’immensità (geometrica) dello spazio? È forse allora lo scetticismo il solo esito consentito alla nostra condizione? Concediamo che Pascal ammetta la “duplice infinità” sia per ragioni fisiche che matematiche, senza tuttavia confonderle. L’ipotesi dell’infinità dello spazio era ritenuta all’epoca una conseguenza necessaria della geometria euclidea, considerata un solido edificio senza contraddizioni interne, benché alcuni suoi critici ponevano in questione la sua applicabilità alla realtà fisica. Ma i geometri erano ancora lontani dalla revisione degli assiomi di Euclide (in particolare del suo quinto postulato), che avrebbe condotto alla coerente concezione e all’introduzione di geometrie non-euclidee, in particolare la geometria di uno spazio finito e illimitato (come faranno più tardi Gauss, Lobacewskij, Bolyai e Riemann in sede geometrica e che Einstein concettualizzerà dal punto di vista dello spazio-tempo fisico). Rispetto alla seconda obiezione osserviamo che, alla luce del suo intero pensiero, lo scetticismo pascaliano non è mai da intendersi come scetticismo radicale.
 
Un ulteriore elemento di interesse è un certo “superamento” della stessa immaginazione grazie al pensiero sull’infinito. In matematica l’idea della “duplice infinità” ha avvicinato Pascal alla soglia del calcolo infinitesimale: l’infinito è infatti una caratteristica dei numeri e delle grandezze, ma il continuo è la chiave che spiega l’implicazione reciproca dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo. Pascal giunge anche alle porte del calcolo integrale e del calcolo differenziale nell’opuscolo Sommazione delle potenze numeriche (cfr. Oeuvres, pp. 90-95), ove affronta il problema: «Data, a partire da un termine qualunque, una qualsiasi serie di una progressione arbitraria, trovare la somma delle potenze simili di questi termini, supposti elevati alle potenze che si vuole» (ibidem, p. 93). Egli dà poi le regole di calcolo che risolvono il problema: «Pochi, per poco informati che siano della dottrina degli indivisibili, mancheranno di vedere quale partito si può ricavare dai risultati precedenti allo scopo di determinare le aree con contorno curvilineo. Si scopriranno le altre regole senza difficoltà ricorrendo al principio che non si aumenta una grandezza continua quando le si aggiunge, tante volte quante si vuole, grandezze appartenenti ad un ordine inferiore d’infinità. Ad esempio, i punti non aggiungono nulla alle linee, le linee alle superfici, le superfici ai volumi, così come le radici sono trascurabili rispetto ai quadrati, i quadrati rispetto ai cubi e i cubi rispetto ai biquadrati. Si devono quindi trascurare, come nulle, le quantità di ordine inferiore» (ibidem, 94)». L’utilizzo dei diversi “ordini di infinità” consente a Pascal di introdurre la nuova operazione sui generis del “passaggio al limite”, che trasforma la concezione tradizionale dell’uguaglianza statica in una nuova uguaglianza dinamica. Diventano uguali due grandezze la cui differenza tende allo zero. Leibniz parlerà della differenza infinitesima, il moderno “differenziale”, come di una differenza evanescente .
 
2. La valenza teologica della meditazione sull’infinito. L’infinità è centrale anche nella teologia naturale di Pascal: «Che la nostra immaginazione si perda in tale pensiero (dell’immensità - infinità del mondo) è il più grande segno sensibile dell’onnipotenza di Dio» (POL, n. 84, p. 426). Da una parte, l’infinità è il segno specifico della presenza di Dio nell’universo; dall’altra, l’infinità è per Pascal l’attributo essenziale di  Dio.
Come il finito può essere il segno e l’immagine dell’infinito? Tale domanda è per Pascal la questione capitale della teologia naturale. Precisiamo qui che anche se egli non ripercorre la storia filosofica della nozione di infinito, nondimeno l’ha chiaramente presente. L’infinito “potenziale” e incompleto è l’illimitato e l’indeterminato: è l’infinito dell’immaginazione. Ma consiste in una nozione “inadempiente”. Lo riprova il fatto che i “finitisti” sono pronti ad ammettere l’infinito potenziale, perché non si tratta di un vero infinito: l’infinito potenziale può infatti essere sempre aumentato o prolungato. C’è quindi una contraddizione quando si parla di numero infinito o di grandezza infinita, giacché non c’è numero massimo. L’infinito “attuale”, invece, è l’inesauribile, del quale il continuo ci dà l’idea più adeguata. L’infinito attuale non è diminuito dalla sottrazione di una parte finita, pur reiterata. La sua nozione è richiesta dall’intelligibilità della realtà. L’idea stessa di un infinito potenziale postula l’infinito attuale. La “continuità”, per esempio, richiede la divisibilità infinita del movimento, dello spazio e del tempo, che non sono colte dalla percezione.
 
La presenza di Dio nella sua creazione, collegata all’opposizione fra finito e infinito, si manifesta particolarmente nella relazione dell’infinito attuale con l’infinito potenziale. Pascal ne viene convinto da una considerazione di s. Agostino, spesso ribadita a Port-Royal: l’infinità di Dio è allo stesso tempo certissima e incomprensibilissima. Perciò la meditazione del frammento “dei due infiniti”, che propone un bilancio delle conoscenze naturali, si presenta assai diversa dall’Itinerarium mentis in Deum (1259) di S. Bonaventura, ispirato alla teologia tradizionale dell’esemplarismo cristiano. Il teologo francescano risaliva a Dio secondo tre tappe: le tracce di Dio nel mondo, diverse dall’uomo; la considerazione della nostra somiglianza con Dio nell’intelletto e nella volontà; la contemplazione di Dio nelle cose al di sopra delle nostre capacità. Le idee fondamentali dell’ascesa verso Dio sono due: le realtà naturali (vestigia Dei) sono immagini degli attributi divini; il rapporto fra l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio (imago Dei) e la natura è quello fra un microcosmo e il macrocosmo. Pascal rompe con questa tradizione: la presenza dell’infinito nell’immensità e nell’incommensurabilità del finito è il segno della presenza del Dio infinito e della sua trascendenza. Ma il segno non è più immagine perché, allo stesso tempo, vela e svela, nasconde e manifesta. Il segno naturale condurrà Pascal alla dottrina delle “figure” nelle Sacre Scritture. Risponde la dottrina pascaliana dei due infiniti ad una elaborazione filosofica che lo guiderà nella sua Apologia della religione cristiana? Diciamo per ora che egli interpreta la trascendenza di Dio in termini di infinità, e l’infinità in termini di incomprensibilità; aggiungiamo che l’itinerario apologetico di Pascal consiste, secondo l’espressione dei coniugi Le Guern, in un percorso dall’antropologia alla teologia.
 

IV. Il calcolo delle probabilità e la “scommessa” su Dio

Molti manuali indicano l’origine del calcolo delle probabilità in «un problema interno ai giochi d’azzardo proposto ad un austero giansenista da un uomo del mondo». Blaise Pascal era quest’austero giansenista e l’uomo del mondo era il cavalier de Méré, un giocatore che l’aveva contattato in merito a due quesiti. Il primo riguardava i lanci ripetuti di due dadi e domandava quanti lanci si dovessero richiedere all’avversario per avere una probabilità di ottenere un doppio sei almeno uguale a quella di non ottenerlo. Il secondo quesito aveva per oggetto i giochi che si svolgono nei tornei, cioè in una serie di partite. Quando la serie delle partite viene interrotta, come si deve dividere la posta messa in gioco? Ad esempio, se si è deciso che guadagnerà l’intera posta colui che per primo avrà vinto quattro partite, come si dovrà dividere la posta se il gioco è stato interrotto dopo la terza partita?
Osserviamo che il calcolo delle probabilità preesisteva alle soluzioni che ne darà Pascal. Risaliva almeno al De ludo aleae (Del gioco dei dadi, 1563) di Girolamo Cardano (1501-1576). Però costituiva un semplice capitolo dell’analisi combinatoria che non aveva una sua propria autonomia: si trattava soltanto della considerazione di eventualità “equipossibili”.
 
Un dado lanciato in aria cade indifferentemente, a caso, su una delle sei facce del cubo. Pascal riorienta radicalmente il calcolo delle probabilità conferendogli una propria autonomia. Egli fonda il calcolo delle probabilità sulle scommesse, le quali consistono in decisioni prese in situazioni di incertezza. Introduce perciò due considerazioni basilari che aiutano a definire le regole delle partizioni. Pascal usa la parola “parti”, che ha però perduto questa accezione nel francese moderno. Le due regole sono: a) l’equità nella “partizione dei vantaggi e dei rischi”: in qualsiasi situazione sottoposta a causalità e coinvolgente parecchi partecipanti, c’è un momento in cui ciascuno ha uguali probabilità di vincere o di perdere. Ad ogni mossa dei giocatori, la ripartizione delle probabilità di vincere o di perdere varia continuamente, sebbene non uniformemente. Ma ciascun giocatore attraversa un momento nel quale ha altrettante possibilità di vincere quante di perdere. Tale eventualità risulterebbe esclusa solo a causa dell’imbroglio di un baro. b) In ogni scommessa ragionevole esiste un legame matematico fra l’aspettativa di un guadagno e la spesa (investimento) che si è disposti a sborsare per ottenerlo, cioè la “speranza di guadagno”. Va però segnalato che il termine «probabilità» non appare qui negli scritti pascaliani, bensì nel contesto della polemica contro i casuisti gesuiti che abusarono della “massima della probabilità” (vedi supra, I.3), all’interno del quale esso significava «consiglio di autorevolezza plausibile che libera la coscienza e dà pace».
 
Il punto che qui ci interessa è vedere come Pascal passi dalla speranza “razionale” ad una speranza che abbia per oggetto Dio. Convinto che non ci può essere vera fede senza vera speranza, perché la fede aderisce a beni spirituali promessi da Dio stesso, Pascal riconosce qualche affinità tra l’atto di fede cristiana e una scommessa. Tale è, a nostro parere, il senso del celebre frammento intitolato: «Infinito - nulla» e noto come “la scommessa sull’esistenza del Dio dei cristiani” (POL, n. 451, pp. 572-578). Oltre ad essere isolato nei frammenti non classificati dei Pensieri, l’argomento non si lascia agevolmente collocare nel disegno apologetico di Pascal. D’altronde, non fu recepito favorevolmente ed è tutt’oggi oggetto di molte discussioni. I principali rimproveri rivoltigli furono di peccare di leggerezza: come fare dell’esistenza di Dio l’oggetto di una scommessa, quasi si trattasse di un’eventualità fortuita? Era poi ritenuta persino immorale: non devo condizionare la mia credenza all’esistenza di Dio all’interesse che spero di ricavarne. L’argomento non manca inoltre di certa incoerenza: come si può scommettere rinunciando a qualcosa di certo senza neppure sapere se, vincendo, si avrà un premio? E non si ammette così, anche, la possibilità che Dio non esista (che senso infatti avrebbe la scommessa se tale eventualità venisse esclusa)? Vi fu poi l’obiezione, sorta nel clima dell’illuminismo, di Diderot, Condorcet e Voltaire: tutte le religioni che minacciano un inferno e promettono un paradiso sono in grado di proporre lo stesso argomento. Un’ultima obiezione, più filosofica, è la critica neo-kantiana di Jules Lachelier (1832-1918) alla scommessa: questa è un atto empirico che non può oltrepassare i limiti dell’esperienza. Si tratta di scommessa ideale, soggetta allo stesso vizio dei “cento talleri sognati” che Kant utilizzava contro l’argomento ontologico di Anselmo di Aosta: in questa scommessa concettuale la posta in gioco non è deposta sul tavolo di gioco, ma è sognata, e dunque non “posta realmente in gioco”. In compenso, mentre Lachelier nega ogni valore metafisico alla scommessa pascaliana, le concede tuttavia un’importanza psicologica.
 
Pensiamo a come i filosofi cercano di provare l’esistenza di Dio, in particolare a come Descartes, nelle sue Meditazioni Metafisiche (1641) rielabora l’argomento ontologico di Anselmo a partire dall’idea innata di infinito, la quale è altrettanto presente alla nostra mente quanto lo è quella dell’“io pensante”. Nondimeno, l’alternativa filosofica resta sempre: o Dio esiste o non esiste; uno contro uno: una ragione opposta all’altra. Come trasformare l’alternativa teorica e logica in una scommessa pratica? Un gioco (come testa o croce) nel quale ho una probabilità su due di vincere, non è né vantaggioso né svantaggioso se la somma vinta è doppia della posta investita. Diventa vantaggioso se tale somma è più che doppia. Partendo da questa regola e dai suoi sviluppi, si arriva alla proposta pascaliana. Se, scommettendo per Dio, avessi una probabilità su due di vincere due vite, potrei scommettere o non scommettere. Se vincessi tre vite, avrei più interesse a scommettere. Ma nella scommessa in favore di Dio, se vinco, vinco infinite vite: allora, se ho una probabilità contro due di vincere, e un premio di infinite vite contro una sola, esiste un evidente interesse a giocare. Pascal ci pone di fronte ad un caso limite che non può essere escluso a priori: una sola possibilità (chance) favorevole contro infinite contrarie. E Pascal ha la risposta: puntare sull’infinità del premio.
 
Lo schema appena tracciato, fedele al testo intitolato appunto «infinito - nulla», spiega l’interpretazione standard della scommessa pascaliana. In termini matematici l’infinito più uno è uguale all’infinito; l’infinito meno uno è uguale all’infinito. Se i beni del mondo fossero “oggettivamente” quasi nulla, l’impegno a puntare e scegliere per Dio sarebbe fuori dubbio. Ma questa interpretazione elementare e matematicizzante solleva un’enorme difficoltà e i suoi aspetti paradossali la riducono all’assurdo. Se infatti concediamo che si può scommettere quando si mette in gioco qualcosa di certo contro qualcosa di superiore, pure incerto, è anche vero che se la vita presente non vale nulla, non si ha niente da mettere in gioco; e se riteniamo la nostra vita e i nostri beni come tali, cioè quasi nulla rispetto all’infinito attuale, lo facciamo in realtà perché già sappiamo che Dio esiste. E se so che Dio è qualcosa di reale, non ho più ragione di scommettere. La condizione di possibilità di questa scommessa (che Dio esista) elimina la scommessa medesima.
 
Si può tuttavia preferire un’interpretazione più profonda della scommessa di Pascal, che egli stesso riferisce alla condizione umana. Vi è altrettanto impegno nello scommettere sull’immortalità della nostra anima quanto sull’esistenza di Dio. «Distrazione. Gli uomini, non avendo potuto liberarsi dalla morte, dalla miseria, dall’ignoranza hanno deciso, per esser felici, di non pensarci» (POL, n. 213, p. 482). «Ci si immagini un gran numero di uomini in catene e tutti condannati a morte, di cui alcuni sono ogni giorno sgozzati sotto gli occhi degli altri; quelli che restano vedono la propria sorte in quella dei loro simili e, guardandosi gli uni gli altri con dolore e senza speranza aspettano il loro turno. Tale è l’immagine della condizione degli uomini» (POL, n. 341, p. 528). Viviamo e siamo mortali. Dipende da noi scommettere in favore di Dio o scommettere contro la sua esistenza, ma non dipende da noi scommettere o non scommettere affatto. «Giusto è non scommettere. — Sì, ma bisogna scommettere, questo non è lasciato al libero volere, voi siete imbarcato. Ma cosa sceglierete dunque? Guardiamo. Dal momento che bisogna scegliere guardiamo ciò che vi interessa di meno» (POL, n. 451, p. 575). E difatti, qualunque scommessa, più o meno remotamente, scommette sulla morte, perché l’uomo è proteso verso un futuro. Il vero oggetto della scommessa ultima è la vita eterna, la vittoria sulla morte: «Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?» (Lc 9,25) (cfr. POL, n. 649, p. 686). La scommessa dei giocatori di azzardo soppesa casi equipossibili, cosa che non esclude l’indifferenza verso di essa; la scommessa religiosa riflette su due compossibili: la mia propria esistenza con o senza Dio.
 
Pare che il frammento n. 451 «Infinito - nulla», sia databile al 1655, pochi mesi dopo i lavori di Pascal sul calcolo delle probabilità. Anteriore di almeno due anni alla classificazione dei frammenti in vista della redazione dell’Apologia della religione cristiana, non era previsto che ne facesse parte. Nella prima edizione di Port-Royal (1670), il frammento era preceduto da un’avvertenza: «Quasi tutto il contenuto del presente capitolo riguarda soltanto certe persone che, non essendo convinti della religione, e meno ancora dalle ragioni degli atei, persistono in uno stato di sospensione tra fede e infedeltà». Si è perciò ritenuto che l’argomento della scommessa fosse rivolto ai “libertini”, ragionatori scetticheggianti e restii alla morale cristiana.
  

V. Pascal apologeta: la condizione dell’uomo e la ricerca di Dio

L’apologetica pascaliana dei Pensieri spazia su molteplici temi: dal rapporto fra fede e ragione all’interpretazione della Scrittura, dalla dottrina sui miracoli alla conoscenza razionale di Dio. Ma Pascal è senza dubbio uno degli autori che ha posto in luce con maggiore realismo e drammaticità la condizione dell’uomo di fronte a se stesso, all’enigma della propria vita e della propria  morte, e dunque la sua condizione di fronte a Dio. Oltre a quanto prima notato in merito alla sua polemica con i libertini e gli scettici a proposito della “scommessa su Dio”, accenneremo qui brevemente ad altri due importanti temi: la necessità per l’uomo di porsi domande esistenzialmente significative, alle quali egli cerca si sfuggire attraverso il divertissement, e la tensione che egli sperimenta, nella sua ricerca, fra nascondimento e rivelazione di Dio.
 
1. La miseria dell’uomo e l’oblio di questa nel divertimento. Pascal è meno preoccupato di sottolineare le divergenze dei filosofi, sia dogmatici sia pirroniani, che di evidenziare l’importanza, per gli uni e per gli altri, di conoscere la vera condizione e il destino dell’uomo. «Vi è in lui la capacità di conoscere la verità e di essere felice; ma non ha la verità stabile o soddisfacente. Vorrei dunque portare l’uomo a desiderare di trovarne, a essere pronto e libero dalle passioni, per seguirla ovunque la troverà sapendo quanto la sua conoscenza sia oscurata dalle passioni; vorrei bene che odiasse in sé la concupiscenza che lo determina di per se stessa, affinché non lo accusasse nel fare la sua scelta, né lo trattenesse quando avrà scelto» (POL, n. 331, p. 516).
 
Al centro dell’VIII° gruppo di frammenti dedicato ai “Contrari”, vi è la questione del contrasto fra la costituzione dell’uomo e la sua condizione esistenziale: «È necessario conoscersi: quand’anche questo non servisse a trovare il vero, almeno servirebbe a regolare la propria vita; e non vi sarebbe nulla di più giusto» (POL, n. 81, p. 425). Ma i filosofi non hanno alcuna soluzione a questo problema paradossale: «Quale novità, quale mostro, quale caos, quale soggetto di contraddizione, quale prodigio! Giudice di tutte le cose, sprovveduto verme della terra; depositario del vero, cloaca di incertezza e di errore; gloria e rifiuto dell’universo. Chi sbroglierà questo garbuglio? La natura confonde i pirroniani, e la ragione confonde i dogmatici. Cosa diventerete dunque, o uomini che cercate la vostra vera condizione con la vostra ragione naturale? Voi non potete sfuggire una di queste sette, né rimanere in alcuna. Conosci dunque, o superbo, quale paradosso sei a te stesso. Umiliati, ragione impotente; taci, natura imbecille: imparate che l’uomo supera infinitamente l’uomo: apprendete dal vostro maestro la vostra vera condizione, che ignorate. Ascoltate Dio». La lunga citazione è estratta da un frammento che costituisce un vero e proprio discorso apologetico (POL, n. 438, pp. 564-565). L’enigma insolubile della nostra condizione ha la sua origine in un mistero ancora più incomprensibile, la trasmissione della miseria spirituale della colpa a tutti gli uomini, che la dottrina cristiana conosce come peccato originale. «Certamente nulla ci urta più fortemente di questa dottrina, e tuttavia senza questo mistero, il più incomprensibile di tutti, noi restiamo incompressibili a noi stessi. Il nodo della nostra condizione si avvolge e si attorce in questo abisso di modo che l’uomo è più inconcepibile senza questo mistero di quanto questo mistero non sia inconcepibile per l’uomo» (ibidem, p. 566).
 
Il gruppo successivo di frammenti ha per oggetto il “Divertimento”. Uno di essi spiega chiaramente ciò che Pascal intende con la parola divertissement: «Se l’uomo fosse felice, lo sarebbe tanto più quanto meno si fosse perso nel divertimento, come i Santi e Dio. Sì, ma non è forse essere felici il poter essere allietati dal divertimento? No, perché esso viene da altra fonte e dal di fuori; e quindi è dipendente, e perciò suscettibile di essere turbato da mille accidenti, che rendono inevitabili le afflizioni» (POL, n. 216, p. 482). Pascal prende dunque il “divertirsi” nell’accezione etimologica di “distogliere lo sguardo da ciò che non si vuole guardare”. Senza eccessiva forzatura, si potrebbe accostare il “divertimento” pascaliano alla “rimozione” freudiana. Ma da cosa si è spinti a “divertirsi”? «Gli uomini non avendo potuto liberarsi dalla morte, dalla miseria, dall’ignoranza, hanno deciso per essere felici, di non pensarci» (POL, n. 213, p. 482).
 
Il divertimento manifesta il contrasto tra la nostra costituzione (non possiamo non aspirare alla felicità) e la nostra condizione (non possiamo raggiungere la felicità). La ricerca della felicità è per noi una specie di “droga”: dipendiamo da essa, e quando ci manca siamo in crisi di astinenza. Il divertimento ci fornisce una felicità di sostituzione e di supplenza. I principali sintomi della sua mancanza sono la noia e la paura. «Nonostante queste miserie l’uomo vuole essere felice e non vuole che essere felice e non può non volerlo; ma come potrà riuscirvi? Bisognerebbe per riuscire che egli si rendesse immortale; ma non potendolo, ha deciso di astenersi dal pensarci» (POL, n. 214, p. 482).
 
Ma l’efficacia del divertimento è precaria e transitoria. L’uomo conosce altrettante inquietudini quanti i sentimenti che gli sono costitutivamente naturali: mortale, aspira all’immortalità; finito, soltanto l’infinito l’accontenterebbe. Ma di fronte alla felicità, la ragione, impotente a dar valore alle cose, sa soltanto rifugiarsi nell’illusione . Pascal non sentenzia che la ragione ha inventato con il divertimento un rimedio ancora più miserabile della miseria, ma lo lascia intendere. Il “divertimento” è un rifugio contro la disperazione, ma il suo vero esito è la “vanità”, che ha come caratteristiche la vacuità dei contenuti, l’inconsistenza degli artifizi, lo svuotamento del proprio tempo: un’agitazione senza vero presente, pura incostanza del flusso temporale. «Non ci teniamo mai fermi al tempo presente. Anticipiamo l’avvenire quasi fosse troppo lento a venire, quasi per affrettare il suo corso; oppure richiamiamo il passato, per arrestarlo quasi fosse troppo fugace; imprudenti al punto di aggirarci nei tempi che non sono nostri, e di non pensare al solo che ci appartiene; e talmente vani che ci abbandoniamo a pensare a quei tempi che non hanno realtà e sfuggono senza riflettere il solo che sussiste» (POL, n. 168, pp. 461-462).
 
Ma qual è per Pascal il rilievo apologetico del tema del “divertimento”? Egli intende sottolineare l’importanza del desiderio umano di felicità. Delusi e insoddisfatti di noi stessi, poniamo il nostro centro di gravità fuori di noi, privandoci di ogni stabilità. Il divertimento, facendoci perdere l’equilibrio, ci mette in moto. «Noi siamo sfortunati a tal punto da non poter provare piacere per una cosa se non alla condizione di addolorarci se essa riesce male, ciò che di mille cose può accadere, e accade, ogni momento. Chi avesse trovato il segreto di rallegrarsi del bene senza rattristarsi del male contrario, avrebbe trovato la soluzione; è come il moto perpetuo» (POL, n. 164, p. 460). E Pascal conclude, come già Agostino, che non potendo trovare la felicità né in noi stessi, né fuori di noi, la troveremo soltanto in Dio. «Gli stoici dicono: “Rientrate in voi stessi; è lì che troverete la vostra quiete”. E ciò non è vero. Gli altri dicono: “Uscite al di fuori; cercate la felicità, divertendovi”. E ciò non è vero. Vengono le malattie. La felicità non è né fuori di noi, né dentro di noi; è in Dio, e fuori e dentro di noi» (POL, n. 391, p. 544).
 
2. Un Dio nascosto che va ricercato. Il Dio nascosto non è per Pascal un Dio assente. Se non fosse presente, non sarebbe nascosto. L’assenza di Dio sarebbe pura contingenza, senza provvidenza alcuna, essenzialmente tragicità. L’idea di Dio nascosto è in Pascal un tema mistico.
Appena dopo il riconoscimento della guarigione miracolosa della piccola Marguerite Périer, Pascal scrive nel 1656 a Charlotte de Roannez citando il versetto di Isaia: «Veramente tu sei un Dio nascosto» (Is 45,15). «Se Dio si svelasse continuamente agli uomini, non ci sarebbe merito a credergli; e, se non si svelasse mai, ci sarebbe poca fede. Ma egli di solito si nasconde, e si svela di rado a quelli che vuole assumere a suo servizio. Questo strano segreto, in cui Dio è nascosto, impenetrabile alla vista degli uomini, è una grande lezione per portarci nella solitudine, lontano dalla vita degli uomini» (POL, p. 207). Sono così poche le persone a cui Dio si manifesta con tali azioni straordinarie, che si deve ben approfittare di queste occasioni; poiché Egli non esce dal segreto della natura che lo copre, se non per eccitare la nostra fede a servirlo con tanto più ardore, quanto più lo conosciamo con certezza. A coloro che non lo cercano, non si manifesta per misericordia affinché Egli non sia per loro un accusatore e un motivo di condanna. La Lettera a Charlotte si conclude con una preghiera: «Tutte le cose nascondono qualche mistero: tutte le cose sono veli che nascondono Dio. I cristiani devono riconoscerlo in ogni cosa. Le afflizioni temporali nascondono i beni eterni a cui esse conducono; le gioie temporali nascondono i mali esterni che esse causano. Preghiamo Dio di farcelo riconoscere e servire in ogni cosa. Rendiamogli grazie infinite per il fatto che, essendosi nascosto in tutte le cose per gli altri, si è svelato in tutte le cose e in tanti modi per noi» (POL, p. 208).
 
Da massima di vita spirituale, l’idea del Dio nascosto si trasforma in un principio universale di teologia fondamentale che contraddistingue tutte le manifestazioni e rivelazioni divine. La storia della salvezza del genere umano si è svolta con una successione di rivelazioni del Dio nascosto. Pascal distingue quattro nascondimenti-svelamenti: il primo è quello della Sua natura increata, che ce lo nascose fino all’evento dell’Incarnazione; nel secondo Dio si è nascosto ancora di più coprendosi con la nostra umanità; nel terzo ha scelto di restare con gli uomini nel più oscuro dei segreti, quello della  Eucaristia; il quarto è il nascondimento dello Spirito di Dio nella Sacra Scrittura e nella sua interpretazione, nella tensione fra senso spirituale e senso letterale.
 
Perché un Dio che si nasconde? Una presenza nascosta è una presenza inaccessibile, eppur riconoscibile. Quando non è riconosciuta, resta non di meno reale. E la presenza nascosta viene ricercata, per essere scoperta e svelata. Non pochi commentatori di Pascal ne hanno travisato il pensiero ritenendo che, per lui, Dio non potrebbe non nascondersi, perché altrimenti non vi sarebbe né morale né religione. In realtà, per Pascal, Dio vuole nascondersi perché è questa la condizione per stabilire una vera comunicazione con gli uomini, chiamati a cercarlo non solo con la ragione, ma anche con il cuore. Il nascondimento di Dio non risponde ad una convenienza strategica, né ad una necessità ontologica. «Il modo di agire di Dio, che dispone ogni cosa con dolcezza, è di porre la religione nelle menti con le ragioni, e nei cuori con la grazia. Ma volerla porre nelle menti e nei cuori con la forza e con le minacce, non è porvi la religione, ma il terrore» (POL, n. 9, p. 401). «Dio vuole disporre più la volontà che la mente. La chiarezza perfetta servirebbe alla mente e nuocerebbe alla volontà. Umiliare la superbia». «Che Dio ha voluto nascondersi. Essendo Dio così nascosto, ogni religione che non afferma che Dio è nascosto non è vera; e ogni religione che non ne dia la ragione, non istruisce. La nostra fa tutto questo: vere tu es Deus absconditus» (POL, nn. 596 e 598, p. 661).
 
L’originalità di Pascal consiste nella rielaborazione dei princìpi della teologia fondamentale relativi alla Rivelazione da un duplice punto di vista: a) il tema del Dio nascosto è anche il tema di Dio che si rivela nell’economia del suo disegno provvidenziale, una rivelazione che Pascal preferisce presentare sotto il profilo degli attributi operativi di Dio, anziché ontologici; b) inserisce le azioni divine in una storia del genere umano costituita in una storia della salvezza.
Pascal parla di «segreti» per designare le antitesi e i paradossi di Dio che allo stesso tempo si nasconde e si svela. a) Dio nascosto nella natura: l’immensità occulta l’infinità. L’infinito potenziale, illimitato ma incompleto ed indeterminato, dell’immaginazione, offusca l’infinito attuale, l’infinito dell’intelligenza che è il solo vero infinito. Il visibile dissimula l’invisibile. L’AT insegna che Dio è trascendente, cioè incomprensibile ed inaccessibile. I suoi pensieri sono infinitamente superiori a quelli dell’uomo. Pascal intende l’incomprensibilità biblica di Dio alla luce della sua idea di infinità. Tutta la natura porta i segni dell’infinito potenziale: l’infinità attuale dell’unico Dio, in compenso, lo rende inesauribilmente comunicabile. b) Dio nascosto in Gesù Cristo: l’umanità del Verbo incarnato oscura la sua divinità rendendola meno riconoscibile, ma grazie all’incarnazione Dio si è reso sorprendentemente riconoscibile e vicino a noi con al sua umanità. c) Dio nascosto nella Chiesa: mentre la mondanità degli ecclesiastici oscura la morale evangelica e sembra interrompere l’evangelizzazione, la presenza eucaristica manifesta e perpetua la permanenza della verità di Cristo risorto nell’annuncio del Vangelo. d) Dio nascosto nelle difficoltà di comprensione della Bibbia: gli uomini hanno sempre aspettato un salvatore e i profeti annunciato vari Messia: non sono mancati falsi profeti che ne hanno compromesso il vero riconoscimento. Eppure Dio ha progressivamente preparato l’avvento del Verbo divino fatto carne per mezzo di profezie ove senso spirituale e senso letterale della Scrittura convergono.
 
I quattro “nascondimenti” di Dio indicano in definitiva l’economia divina della distribuzione di luci ed ombre nella successione dei tempi. I tempi della storia umana, sia collettiva che individuale, allargano la frattura che separa la verità della nostra costituzione dalla realtà storica della nostra condizione, accrescendo in noi la nostalgia che venga ricomposta la loro unità. Se la dialettica della “contrarietà” ha precipitato nella miseria l’uomo senza Dio, la nostalgia della grandezza della sua alleanza con Dio lo risolleva alla sua prima dignità. Se la sua miseria è invalicabile, la sua dignità è indistruggibile. «Tutte queste miserie provano la sua grandezza. Sono miserie di grande signore, miserie di un re spodestato». «La grandezza dell’uomo sta in ciò, che si riconosce miserabile. Un albero non si riconosce miserabile. Si è quindi miserabili perché ci si riconosce miserabili; ma è essere grandi riconoscere che si è miserabili» (POL, nn. 269 e 255, pp. 499 e 495).
 
Il fondamento della sua inalienabile dignità è che l’uomo è un “essere pensante”. «Canna pensante. Non è nello spazio che io devo cercare la mia dignità, ma nel retto esercizio del mio pensiero. Non avrei alcuna superiorità, possedendo delle terre. Con lo spazio, l’universo mi comprende e mi inghiotte come un punto; con il pensiero io lo comprendo» (POL, n. 265, p 497). In questo Pascal è pienamente d’accordo con Descartes, ma non secondo la logica del cogito, ergo sum. All’interno del pensiero umano c’è un contrasto fra la ragione, facoltà della deduzione, e il “cuore”, facoltà della certezza. Tutti i ragionamenti giungono alla conclusione della mia miseria, il  cuore ha la certezza della mia dignità. Paziente nelle miserie, reminiscente nella grandezza: ecco l’attuale condizione decaduta dell’uomo. Ma la verità per l’uomo non consiste tanto nella conformità dei suoi giudizi alla realtà delle sue miserie, quanto nella rettitudine del suo cuore che percepisce e asserisce la sua dignità, in modo però ben diverso da quanto richiedeva l’evidenza cartesiana delle idee innate, chiare e distinte: «Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce; lo si constata in mille cose». «Noi conosciamo la verità, non solamente, con la ragione, ma anche con il cuore; è in quest’ultimo modo che noi conosciamo i primi princìpi, ed è invano che il ragionamento, che non vi ha parte, cerca di impugnarli» (POL, nn. 477, 479, pp. 585-586).
 
È la constatazione della propria condizione di miseria e la reminiscenza della nostra nativa grandezza che deve muovere gli uomini alla ricerca della propria verità, e con essa della propria felicità, in Dio. Per questo, osserva Pascal, «non ci sono che tre categorie di persone: quelle che servono Dio, perché l’hanno trovato; quelle che si impegnano a cercarlo, perché non l’hanno trovato; quelle che vivono senza cercarlo, né averlo trovato. Le prime sono ragionevoli e felici; le ultime sono folli e infelici; quelle di mezzo sono infelici e ragionevoli» (POL, n. 364, p. 532).

   

Documenti della Chiesa Cattolica correlati:
Fides et ratio, 13, 76.

 

 

Bibliografia: 

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