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Matteo Ricci, un tomista alla corte cinese (2010)

Camillo Ruini
2010

Matteo Ricci è giustamente ritenuto un genio dell’inculturazione del cristianesimo – e in concreto del cattolicesimo – in un Paese e in una civiltà estremamente diversi da quelli nei quali il cattolicesimo aveva allora il suo baricentro, e più ampiamente da quelli in precedenza penetrati dal cristianesimo. Si può aggiungere che la «strategia dell’inculturazione » adottata da Matteo Ricci risentì certamente delle condizioni im­poste dall’autosufficienza del mondo cinese e dalla sua diffidenza nei confronti degli stranieri. Il genio di Ricci seppe accogliere quelle condizioni e volgerle al servizio della missione.

  Molto peso viene attribuito, giustamente, alle parole da lui scelte per e­sprimere in quel linguaggio così diverso i concetti portanti della nostra fede, a cominciare dalla parola «Dio», che egli ha reso con Tian zhu – «Signore del Cielo» –, o anche con Shang» – «Sovrano dall’Alto» –: una scelta coraggiosa, anche perché esposta «ad un’ampia gamma di fraintendimenti», come osserva Alessandra Chiricosta nella sua approfondita introduzione all’edizione italiana dell’opera di Ricci Il vero significato del «Signore del Cielo» (Urbaniana University press). Leggendo però tale opera, si può constatare che Matteo Ricci spiega con chiarezza il concetto cristiano dell’unico Dio, così come era formulato e argomentato nella teologia scolastica del suo tempo, superando in tal modo il rischio di fraintendimenti o interpretazioni riduttive e fuorvianti. Inoltre Ricci aggiunge, ad evitare ogni equivoco: «Ora questo Qualcuno non è altri che il Signore del Cielo, che le nostre nazioni occidentali chiamano Deus». È anche molto interessante che egli precisi espressamente che, nell’esporre i principi degli insegnamenti del Signore del Cielo, la sua «spiegazione sarà basata sulla sola razionalità». Ciò sebbene egli faccia menzione degli «scritti canonici» in cui questa dottrina è contenuta «in modo tale da non lasciar adito a dubbi». Questa scelta di basarsi sulla sola razionalità, oltre alle ben note e giustamente sottolineate motivazioni legate all’ambiente culturale in cui Matteo Ricci intendeva penetrare, mi sembra non sia senza rapporti con la teologia nella quale egli si era formato, una teologia che tendeva ad «indurire» la puntuale distinzione di san Tommaso tra ragione e fede.

  In particolare riguardo alla conoscenza di Dio, la via della ragione viene con­cepita come del tutto evidente e apodittica, ciò che poteva corrispondere al clima culturale di allora ma nel nostro tempo sarebbe difficilmente sostenibile. Perciò oggi, senza rinunciare all’argomentazione razionale nell’approccio a Dio, è sottolineata anche l’importanza delle nostre disposizioni morali e scelte esistenziali, quindi il ruolo della nostra libertà. Così la via della ragione e quella della fede, pur rimanendo ben distinte, risultano meno dissimili e più vicine l’una all’altra.

  La decisione di procedere basandosi soltanto sulla razionalità offre a Ricci una giustificazione teologica per la scelta, dettata anch’essa anzitutto dalle sue finalità di «strategia» missionaria e culturale, di ridurre al minimo il riferi­mento esplicito a Gesù Cristo. Soltanto nell’ultimo capitolo di Il vero significato del «Signore del Cielo» si trova infatti una breve «spiegazione» della ra­gione per la quale il Signore del Cielo è nato in Occidente, senza però far menzione delle tre Persone della Trinità e dell’incarnazione specificamente del Figlio e senza accennare in alcun modo alla sua croce e alla sua morte.

  Specialmente qui appare con grande chiarezza che l’intenzione e il metodo missionari di Matteo Ricci erano contrassegnati dalla gradualità, ossia da una sorta di «pedagogia», che in qualche modo poteva richiamarsi alla «pedagogia » che presiede allo sviluppo della rivelazione attraverso l’Antico e il Nuovo Testamento. Non è pensabile, infatti, che un missionario innamorato di Cristo e convinto che solo in lui, nella sua passione, morte e risurrezione, si è aperta la strada per la salvezza dell’umanità, potesse concepire il silenzio sulla Trinità e sulla croce se non come provvisorio. Fin dall’inizio, del resto, Matteo Ricci ha insegnato le verità della fede cristiana attraverso sussidi e catechismi in lingua cinese redatti per i catecumeni e i battezzati.

Matteo Ricci si è ampiamente servito delle sue conoscenze scientifiche e tecnologiche – ancora «pregalileiane» ma già permeate da un nuovo spirito – per accreditarsi culturalmente nell’universo culturale cinese. Oggi le scienze e le tecnologie sono diventate il più potente fattore di globalizzazione e di unificazione del mondo e le loro conquiste vengono trasmesse in tempo reale dall’una all’altra parte della terra. È profondamente cambiato, però, il modo stesso di concepire la ragione e la razionalità: alla verità come adeguamento alla realtà, nel quale tutti devono ritrovarsi, è largamente subentrata l’idea di una verità soltanto «operativa», intesa come ciò che è possibile fare e realizzare, in particolare attraverso la razionalità scientifica e tecnologica.

Vi è poco spazio, invece, per una verità oggettiva in tutti quei campi che la razionalità scientifico-tecnologica – per i suoi intrinseci limiti metodologici – lascia scoperti: tra questi in particolare i grandi interrogativi sul senso e la direzione della nostra vita e dell’intera realtà. In queste materie ciò che sembra importante sono piuttosto le preferenze personali dei singoli e, quando si tratta di decisioni comuni e vincolanti, l’opinione della maggioranza. Questo relativismo, che oggi cerca di penetrare anche dentro la fede e la teologia, è forse il problema più grande della nostra epoca.

Nello studio delle culture e delle reli­gioni l’attuale relativismo si esprime nei procedimenti rigorosamente a-valutativi, che interdicono di istituire con­fronti di valore tra le diverse culture e religioni e si limitano a descrivere e inquadrare concettualmente le loro parentele, analogie e differenze. In questa prospettiva ogni rivendicazione di verità e di valenza salvifica del cristianesimo diventa improponibile e quindi la missione cristiana perde la sua intrinseca giustificazione e ragion d’essere: semmai dovrebbe limitarsi a un aiuto umanitario, senza la finalità di convertire al cristianesimo. Siamo lontanissimi dall’approccio di Matteo Ricci che, nella sua opera culturale-missionaria, faceva leva proprio sulla verità e capacità salvifica di ciò che andava proponendo.

da Avvenire, 4 marzo 2010, p. 30.