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Riflessioni di un uomo di scienza su alcuni punti della Fides et ratio

Fortunato Tito Arecchi
Ordinario di Fisica, Università di Firenze
2008

«La peculiarità che distingue il testo biblico consiste nella convinzione che esista una profonda e inscindibile unità tra la conoscenza della ragione e quella della fede. Il mondo e ciò che accade in esso, come pure la storia e le diverse vicende del popolo, sono realtà che vengono guardate, analizzate e giudicate con i mezzi propri della ragione, ma senza che la fede resti estranea a questo processo. Essa non interviene per umiliare l'autonomia della ragione o per ridurne lo spazio di azione, ma solo per far comprendere all'uomo che in questi eventi si rende visibile e agisce il Dio di Israele», Fides et ratio, 16.


Nel testo della Fides et ratio che commenta il contenuto dei Libri sapienziali della Scrittura, a me pare significativa la frase che segnala l’esistenza di una profonda e inscindibile unità fra la conoscenza della ragione e quella della fede.

In effetti, è proprio sullo mancanza di questa unità che sono costruite le preclusioni a un discorso su Dio di molti uomini di scienza di oggi. Storicamente, la scienza moderna si è costituita attorno a due auto-limitazioni. La prima – enunciata da Galileo a Marco Welser nel 1610, consiste nel “non tentare le essenze, ma contentarsi delle affezioni quantitative”. In altre parole, con un programma di riduzionismo metodologico, si ritagliano da  un fenomeno solo quegli aspetti suscettibili di misura; si ha così un pacchetto di numeri con cui si cerca di ricostruire il fenomeno, avendo eliminato tutti gli aspetti non misurati. Una manipolazione formale, puramente sintattica, di un pacchetto di simboli, senza attribuire ad essi un significato, è il modo di procedere di un calcolatore; ne è emersa la convinzione che la ragione operi come una macchina di calcolo, per pura via sintattica, su un pacchetto di simboli (i dati misurati o percepiti) senza attribuire ad essi alcun significato.

La seconda auto-limitazione è legata al teorema di Bayes (1763). Nello sviluppare un ragionamento probabilistico, si formula un ventaglio di ipotesi a-priori con diverse probabilità di accadimento. Ognuna di queste ipotesi, introdotta in un modello di mondo, genera un dato. Misurando quali dati effettivamente si verifichino, si costruisce una probabilità a-posteriori che automaticamente seleziona fra tutte le ipotesi a-priori solo la più plausibile.

Questa procedura di inferenza è generale. L’evoluzione di Darwin può essere vista come una variante di Bayes: una “mutazione” dà luogo a molte varianti genomiche che entrano come ingresso di un programma (il modello di vivente cui si riferiscono); il successivo confronto con l’ambiente seleziona la mutazione più plausibile e conferma una sola mutazione, la più favorevole.

La procedura di Bayes ha influenzato tutta la cultura scientifica dell’800; Sherlock Holmes risolve i suoi casi criminali in modo bayesiano. Ma la procedura è trasferibile a una macchina di calcolo; infatti, negli ospedali si usano “expert systems” che istruiti con un modello umano e riforniti dei dati clinici di un paziente, emettono la diagnosi più plausibile. I successori di Sherlock Holmes nei polizieschi americani sono super computers in cui si immettono i dati e che risolvono bayesianamente il caso.

La scoperta recente di situazioni complesse indica che in un certo spazio logico scandito da certe variabili non si ha mai una soluzione unica a un problema dinamico; spesso il numero delle possibili soluzioni cresce in modo esponenziale con il numero di variabili. L’inferenza di Bayes esplora solo un possibile percorso; la ragione sintattica – o il computer per essa – si arrampica con successo su quell’unico percorso e ignora la  complessità.

Peraltro, le due auto-limitazioni della ragione scientifica (Galileo e Bayes) non forniscono indicazioni procedurali in situazioni complesse. Il fatto che invece la mente umana riesca con successo a costruire modelli alternativi indica che la nostra visione del mondo non è bayesiana, ma cattura quei significati che sfuggono alla procedura scientifica.

È questo che chiamiamo creatività. Ne diamo alcuni esempi. Nel 1931 Gödel mostrò che la mente umana può costruire teoremi che non sono deducibili per pura via sintattica a partire da un corpo di assiomi e pertanto non sono “dimostrabili”. Secondo esempio: a metà ‘800, elettricità, magnetismo e ottica erano tre discipline separate ; J.C. Maxwell le ha genialmente unificate nell’elettromagnetismo, teoria che ha implicato una innovazione non deducibile dallo stato delle conoscenze esistenti.  Terzo esempio: all’inizio ’900 la tavola di Mendeleev elencava 92 elementi correlati da alcune regolarità, ma non riconducibili a un unico principio; la quantizzazione di N. Bohr e il principio di esclusione di W. Pauli hanno permesso una costruzione univoca di tutti gli elementi.

Più in generale, andando oltre il campo ristretto delle scienze della natura, ogni combinazione nuova e significativa di elementi lessicali (le parole di una lingua, le note musicali) è un atto di creazione. Il nostro essere immersi nel mondo in modo non auto-limitato dalle procedure scientifiche fa sì che ci sia la poesia di Leopardi o la musica di Mozart.

Per concludere, solo ricuperando la ricchezza del nostro rapporto con il mondo, non limitata alle procedure scientifiche, giustifichiamo non solo la libertà nelle nostre decisioni etiche ed estetiche, ma anche la creatività scientifica per cui la scienza progredisce e non si limita a uno stanco esercizio sintattico.

Questa ragione non-bayesiana richiede una conoscenza incarnata, un rapporto di amore con il mondo che vada oltre l’elaborazione sintattica di un pacchetto fissato di dati; i dati mutano a seconda di come noi variamo il punto di vista; non siamo i prigionieri nella caverna di Platone, condannati a vedere le ombre sulla parete, cioè ad un unico punto di vista. Al contrario, la ragione scientifica seleziona pochi punti di vista, quelli assemblabili con le misure dei nostri apparati (le affezioni quantitative…). È con questo repertorio che attrezziamo un computer o un robot, ai quali pertanto saranno preclusi i salti creativi.

Tornando alla formulazione iniziale di Fides et ratio da cui siamo partiti, la ragione incarnata può anche di diritto operare su problemi di fede, perché è in grado di evidenziare significati, non solo  quantità.