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La sacralità del Cielo: una lettura dal Trattato di Storia delle Religioni

Mircea Eliade
1954

Eliade    

Nel suo celebre Trattato di storia delle religioni, da cui è stata estratta questa lettura, Mircea Eliade, uno dei più celebri antropologi del Novecento, analizza il significato della sacralità del cielo secondo al religiosità di diverse popolazioni. All’uomo primitivo, egli afferma: “il Cielo rivela direttamente la sua trascendenza, la sua forza e la sua sacralità. La contemplazione della volta celeste, da sola, suscita nella coscienza primitiva un’esperienza religiosa.” Nella religiosità arcaica non è il Cielo ad essere adorato come Essere superiore, e in fondo nemmeno i corpi celesti. Piuttosto, il Cielo è la sede della trascendenza, perché della trascendenza ne incarna gli attributi. La adorazione di Jahvè da parte dell’esperienza religiosa di Israele mostra caratteri di singolarità che la distaccano da altre tradizioni religiose, in particolare per quanto riguarda la radicale superiorità di Jahvè rispetto ad ogni corpo celeste, di cui Egli si professa Creatore.


La più popolare preghiera del mondo è rivolta al “Padre nostro che è nei Cieli”. Potrebbe darsi che la preghiera più antica fosse diretta allo stesso Padre celeste; questo spiegherebbe la testimonianza di un Africano della tribù degli Ewe: “Dove è il Cielo, ivi è anche Dio”. La scuola etnografica di Vienna, e in primo luogo il Padre W. Schmidt, autore della più vasta monografia sull’origine dell’idea di divinità, cerca addirittura di dimostrare l’esistenza di un monoteismo primordiale, basato essenzialmente sulla presenza degli dèi celesti nelle società umane più primitive. Lasciamo per ora sospeso il problema del monoteismo originario. Quel che non ammette alcun dubbio è la quasi-universalità della credenza in un Essere divino celeste creatore dell’Universo e garante della fecondità della terra (grazie alle piogge che versa). Questi Esseri sono dotati di prescienza e sapienza infinite, hanno instaurato le leggi morali, spesso anche i rituali del clan, durante la loro breve dimora sulla terra; sovrintendono all’osservanza delle leggi, e fulminano con la folgore chi le viola.

Prima di passare in rassegna alcune figure divine di struttura uranica, cerchiamo di capire il significato religioso del Cielo in sé. Senza neppure ricorrere alle favole mitiche, il Cielo rivela direttamente la sua trascendenza, la sua forza e la sua sacralità. La contemplazione della volta celeste, da sola, suscita nella coscienza primitiva un’esperienza religiosa. Questa affermazione non implica necessariamente un “naturismo” uranico. Per la mentalità arcaica, la Natura non è mai esclusivamente “naturale”. L’espressione “contemplazione della volta celeste” ha un significato del tutto diverso se la riferiamo all’uomo primitivo, aperto ai miracoli quotidiani con un’intensità difficilmente immaginabile per noi. Questa contemplazione equivale, per lui, a una rivelazione. Il Cielo si rivela quel che è in realtà: infinito, trascendente. La volta celeste è per eccellenza “cosa del tutto diversa” dalla pochezza dell’uomo e del suo spazio vitale. Il simbolismo della sua trascendenza si deduce, diremo, semplicemente dalla constatazione della sua infinita altezza. “L’altissimo” diventa, nel modo più naturale, un attributo della divinità. Le regioni superiori inaccessibili all’uomo, le zone sideree, acquistano i prestigi divini del trascendente, della realtà assoluta, della perennità. Queste regioni sono la dimora degli dèi, e alcuni privilegiati vi giungono per mezzo dei riti di ascensione celeste; fin lassù si innalzano, secondo i concetti di certe religioni, le anime dei morti. L’“alto” è una categoria inaccessibile all’uomo in quanto tale; appartiene di diritto alle forze e agli esseri sovrumani; colui che si innalza salendo cerimonialmente i gradini di un santuario o la scala rituale che porta al Cielo, cessa allora di essere un uomo; le anime dei morti privilegiati, nella loro ascensione celeste, hanno abbandonato la condizione umana.

Tutto questo si deduce dalla semplice contemplazione del Cielo; sarebbe però un grave errore considerarla una deduzione logica, razionale. La categoria trascendente dell’“altezza”, del sopraterrestre, dell’infinito, si rivela all’uomo intero, alla sua intelligenza non meno che alla sua anima. Il simbolismo è un dato immediato della coscienza totale, vale a dire dell’uomo che scopre di essere uomo, che prende coscienza della propria posizione nell’Universo; queste scoperte primordiali sono legate al suo dramma in modo tanto organico che lo stesso simbolismo determina sia l’attività del suo subcosciente, sia le più nobili espressioni della sua vita spirituale. Insistiamo dunque su queste distinzioni: se il simbolismo e il valore religioso del Cielo non sono dedotti, in modo logico, dall’osservazione calma, obiettiva della volta celeste, non sono tuttavia prodotto esclusivo dell’affabulazione mistica e delle esperienze irrazionali religiose. Ripetiamolo: il Cielo rivelò la propria trascendenza prima di venire valorizzato religiosamente. Il Cielo “simboleggia” la trascendenza, la forza, l’immutabilità, semplicemente con la sua esistenza. Esiste perché è alto, infinito, immutabile, potente.

Che il semplice fatto di essere “alto”, di trovarsi “in alto”, equivalga ad essere “potente” (nel senso religioso della parola) e ad essere, in quanto tale, saturo di sacralità, è dimostrato dall’etimologia stessa di certi dèi. Per gli Irochesi, tutto quel che possiede orenda si chiama oki, ma il senso della parola oki sembra sia “chi sta in alto”; troviamo perfino un Essere Supremo celeste chiamato Oke. Le popolazioni Sioux (Plain Indians dell’America del Nord) esprimono la forza magico-religiosa (mana, orenda, ecc.) col termine wakan, foneticamente molto vicino a wakān, wankān, che in lingua Dakota significa “in alto, al disopra”; il sole, la luna, il fulmine, il vento possiedono wakān, e questa forza è stata personificata, sebbene imperfettamente, in Wakan, che i missionari traducono “Signore”, ma che è, più esattamente, un Essere Supremo celeste, manifestatesi specialmente nel fulmine.

La divinità suprema dei Maori si chiama Iho; iho vuol dire “eccelso, in alto”. I negri Akposo conoscono un dio supremo Uvolavu; il nome significa “ciò che sta in alto, le regioni superiori”. Si potrebbero moltiplicare gli esempi. Vedremo fra breve che “l’altissimo, il lucente, il cielo”, sono nozioni esistite più o meno manifestamente nelle espressioni arcaiche con le quali i popoli civili esprimevano l’idea di divinità. La trascendenza divina si rivela direttamente nell’inaccessibilità, l’infinità, l’eternità e la forza creatrice del cielo (pioggia). Il modo di essere celeste è una ierofania inesauribile. Di conseguenza tutto quel che avviene negli spazi siderei e nelle regioni superiori dell’atmosfera – la rivoluzione ritmica degli astri, le nuvole che si inseguono, le tempeste, il fulmine, le meteore, l’arcobaleno – sono momenti di questa medesima ierofania.

Quando si sia personificata questa ierofania, quando le divinità del cielo si siano rivelate, prendendo il posto della sacralità celeste come tale, è difficile precisare. Una cosa però è certa, che le divinità celesti sono state, fin dall’inizio, divinità supreme; che le loro ierofanie, diversamente drammatizzate dall’esperienza mitica, sono rimaste, in seguito, ierofanie iraniche; e quella che si potrebbe chiamare la storia delle divinità celesti è i gran parte la storia delle intuizioni di “forza”, di “creazione”, di “leggi” e di “sovranità”.

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Simbolismo celeste

Il carattere sacro del cielo è diffuso in complessi rituali o mitici innumerevoli che, a quanto pare, non sono in relazione diretta con una divinità iranica. Il sacro celeste rimane attivo nell’esperienza religiosa, per mezzo del simbolismo dell’“altezza”, dell’“ascensione”, del “centro”, ecc. Anche in questo simbolismo troviamo talvolta una divinità fecondatrice sostituita a una divinità iranica, ma la struttura celeste del simbolismo sussiste egualmente.

La montagna è più vicina al cielo, e questo le conferisce una doppia sacralità: da un lato partecipa al simbolismo spaziale della trascendenza (“alto”, “verticale”, “supremo”, ecc.), e da’altra parte il monte è per eccellenza il dominio delle ierofanie atmosferiche. Ed, in quanto tale, dimora degli dèi. Tutte le mitologie hanno una montagna sacra, variante più o meno illustre dell’Olimpo. Tutti gli dèi celesti hanno luoghi riservati al loro culto, sulle cime. Le valenze simboliche e religiose delle montagne sono innumerevoli. Spesso la montagna è considerata punto d’incontro del cielo e della terra; quindi un “centro”, punto per il quale passa l’Asse del Mondo, regione satura di sacro, luogo dove possono attuarsi i passaggi fra le zone cosmiche diverse. Così, secondo credenze mesopotamiche, il “Monte dei Paesi” unisce il cielo alla terra, e il Monte Meru della mitologia indiana si erge nel centro del mondo; al di sopra di lui, spande la sua luce la Stella Polare. Anche i popoli uralo-altaici conoscono un monte centrale, Sumbur, Sumur o Sumeru, in cima al quale è sospesa la stella polare. Secondo credenze iraniche, il sacro monte Haraberezaiti (Harbuz) sta al centro della terra ed è collegato col cielo. Nell’Edda, Himingbjörg è un “monte celeste”, come dice il suo nome; ivi l’arcobaleno (Bifröst) tocca la volta celeste. Credenze simili si trovano fra i Finlandesi, i Giapponesi, ecc.

Il “monte”, in quanto punto d’incontro fra cielo e terra, si trova al “centro del mondo” ed è sicuramente il punto più alto della terra. Per questo le regioni consacrate – “luoghi santi”, templi, palazzi, città sante – sono parificate alle montagne e diventano esse stesse “centri”, e la Palestina, “la terra santa”, essendo perciò considerata come il luogo più alto del mondo, non fu raggiunta dal Diluvio. “La terra d’Israele non fu sommersa dal Diluvio”, dice un testo rabbinico. Per i Cristiani il Golgotha si trova al centro del mondo perché è la cima della montagna cosmica e anche il luogo dove Adamo fu creato e sepolto. E secondo la tradizione islamica, il luogo più alto della terra è la Ka’ba, perché “la stella polare dimostra che la Ka’ba si trova esattamente al disopra del centro del cielo”.

Perfino i nomi dei templi  e delle torri sacre attestano l’assimilano alla montagna cosmica: “il Monte Casa”, “la casa del Monte di tutti i paesi”, “la montagna delle Tempeste”, “il Legame fra cielo e terra”, ecc. . Il termine numerico per indicare Ziqqurat è U-Nir (monte), che Jastrow interpreta come “visibile a grande distanza”. La ziqqurat era, propriamente, un “monte cosmico”, cioè un’immagine simbolica del Cosmo; i suoi sette paini rappresentavano i sette cieli planetari (come a Borsippa) o avevano i colori del mondo (come a Ur). Il tempio di Barabudur è anch’esso un’immagine del Cosmo, costruito a mo’ di montagna artificiale. Per estensione del sacro tempio (monte = centro del mondo) alla città intera, le città orientali diventavano anch’esse dei “centri”, delle cime di montagne cosmiche, punti di congiungimento fra regioni cosmiche. Così Larsa era chiamata, fra l’altro, “La casa del congiungimento fra cielo e terra”, “il collegamento fra cielo e terra”, “la casa del Monte luminoso”, ecc. . In Cina la capitale del Sovrano perfetto si trovava esattamente al centro dell’Universo, vale a dire sulla cima della montagna cosmica.

L’altitudine ha una virtù consacrante. Le regioni superiori sono sature di forze sacre. Tutto quel che più si avvicina al cielo, partecipa con intensità variabile alla trascendenza. L’”altitudine”, il “superiore”, sono assimilati al trascendente, al sovrumano. Ogni “ascensione” è una rottura di livello, un passaggio nell’oltretomba, un superamento dello spazio profano e della condizione umana. Inutile aggiungere che il sacro dell’”altitudine” è convalidato dal sacro delle regioni atmosferiche superiori e, quindi, dal sacro del Cielo. Il Monte, il Tempio, la Città, ecc. sono consacrati perché investiti del prestigio del “centro”, cioè, in origine, perché assimilati alla cima più alta dell’Universo e al punto d’incontro fra Cielo e Terra. Ne consegue che la consacrazione mediante rituali di ascensione o scalata di monti, o salita di scale, è valida perché inserisce chi la pratica in una regione superiore celeste. La ricchezza e la varietà del simbolismo dell’”ascensione” sono caotiche soltanto in apparenza; considerati nel loro insieme, tutti questi riti e simboli si spiegano col sacro dell’”altitudine”, cioè del celeste. Trascendere la condizione umana, in quanto si penetra in una zona sacra (tempio, altare) per mezzo della consacrazione rituale o della morte, si esprime concretamente con un “passaggio”, una “salita”, un’”ascensione”.

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Jahvè

La personalità di Jahvè e la sua storia religiosa sono troppo complesse per potersi riassumere in poche righe. Diciamo tuttavia che le sue ierofanie celesti e atmosferiche hanno formato molto presto il centro di esperienze religiose che resero possibili le rivelazioni ulteriori. Jahvè manifesta la sua potenza nell’uragano; il tuono è la sua voce e il fulmine viene chiamato “il fuoco” di Jahvè o le sue “frecce” [cfr. Salmi 18,15, ecc.]. Il Signore d’Israele si annuncia con “tuoni, fulmini e un fumo denso” [Esodo 19,16] quando consegna le leggi a Mosè. “La montagna del Sinai era tutta in fumo, perché l’Eterno vi era disceso in mezzo al fuoco…” [Esodo 19,15]. Debora rammenta con religioso timore come, ai passi del Signore “la terra tremò, i cieli si agitarono e le nuvole si disciolsero in acqua” [Giudici 5,4]. Jahvè avvertì Elia che si avvicinava con “un grande uragano, da lacerare i monti e spaccare le rocce: il Signore non era nell’uragano. Dopo la tempesta venne un terremoto: il Signore non era in quel terremoto. E dopo il terremoto un fuoco: il Signore non era neppure in quel fuoco, e dopo il fuoco un mormorio dolce e leggero” [IRe 19,11 e segg.]. il fuoco del Signore cade sugli olocausti di Elia [IRe 18,38] quando il profeta lo supplica di mostrarsi e di confondere i sacerdoti di Ba’al. Il roveto ardente dell’episodio di Mosè, la colonna di fuoco e le nuvole che guidano gli Israeliti nel deserto, sono epifanie jahviste. E l’alleanza di Jahvè con la discendenza di Noè, sfuggito al Diluvio, si manifesta con un arcobaleno. “Ho posto il mio arcobaleno nella nuvola e servirà come segno di alleanza fra me e la terra” [Genesi 9,13].

Queste ierofanie celesti e atmosferiche, diversamente dalle altre divinità dell’uragano, manifestano anzitutto la “potenza” di Jahvè. “Dio è grande per la sua potenza; chi saprebbe insegnare come lui?” [Giobbe 36,22]. “Prende la luce in mano… si annuncia con un boato… A questo spettacolo il mio cuore è tutto tremante, balza dal suo posto. Ascoltate! Udite il fremito della sua voce, il rombo che esce dalla sua bocca! Lo fa rotolare su tutta l’estensione dei cieli, e il suo lampo brilla fino alle estremità della terra. Non trattiene più il lampo, appena la sua voce rimbomba. Dio tuona con la sua voce in modo meraviglioso…” [Giobbe 36,32-33; 37,1-4]. Il Signore è il vero e unico padrone del Cosmo, può fare tutto e annientare tutto; la sua “potenza” è assoluta, per questo anche la sua libertà non conosce limiti. Sovrano incontestato, misura la sua misericordia o la sua collera a proprio arbitrio, e questa libertà assoluta del Signore è la più efficace rivelazione della sua trascendenza e della sua autonomia assoluta, poiché il Signore “non è legato da nulla”, nulla lo costringe, nemmeno le buone azioni e il rispetto delle proprie leggi.

Questa intuizione della “potenza” di Dio come sola realtà assoluta è il punto di partenza di tutte le mistiche e le speculazioni ulteriori sulla libertà dell’uomo e le sue possibilità di salvazione mediante il rispetto delle leggi e una morale severa. Nessuno è “innocente” di fronte e Dio. Jahvè ha concluso un’“alleanza” col suo popolo, ma la sua sovranità gli permette, di annullarla in qualsiasi momento. Se non fa questo, non è in virtù dell’“alleanza” – nulla “lega” Dio, neppure le sue proprie promesse – bensì in virtù della sua infinita bontà. Jahvè si mostra in tutta la storia religiosa d’Israele come un dio celeste e della tempesta, creatore e onnipotente, sovrano assoluto e “Signore degli Eserciti”, appoggio dei re della dinastia di David, autore di tutte le norme e di tutte le leggi che consentono alla vita di continuare sulla terra. La “legge”, sotto qualsiasi forma, trova il suo fondamento e la sua giustificazione in una rivelazione di Jahvè. Ma, diversamente dagli altri dèi supremi, che non possono essi stessi agire contro le leggi, Jahvè conserva la sua libertà assoluta.

 

da Trattato di Storia delle Religioni (1948), Einaudi, Torino 1954, pp. 42-45; 111-114; 105-107.