Tu sei qui

Fini naturali. Storia e riscoperta del pensiero teleologico

Robert Spaemann, Reinhard Löw
Ares, Milano 2013
pp. 464
ISBN:
9788881555734

Robert Spaemann, Reinhard Löw, Fini naturali. Storia & riscoperta del pensiero teleologico (1981), Edizioni Ares, Milano 2013, tr. it. di Leonardo Allodi e Giacomo Miranda, prefazione del Card. Camillo Ruini

Indice: Prefazione, del Card. Camillo Ruini – Introduzione, di Leonardo Allodi – Nota dell'autore – Introduzione dell'autore – I. Il concetto di teleologia in Platone – II. Aristotele – III. L'espansione della teleologia nella tarda antichità e la sua fondazione onto-teleologica nella Scolastica – IV. Crisi e depotenziamento del pensiero teleologico fino alla prima età moderna – V. Tentativi di mediazione tra teleologia e meccanica universale in Leibniz, Wolff e Kant – VI. La teleologia nell'idealismo tedesco: Fichte, Schelling, Hegel – VII. La radicalizzazione e distruzione della teleologia della conservazione nel XIX secolo – VIII. La piena realizzazione dell'antiteleologismo attraverso la scienza naturale del XIX e XX secolo – IX. Critica all'antiteleologismo – X. La riscoperta della teleologia – XI. Teleologia e teleonomia –Bibliografia.

«Il libro intende stimolare a ripensare ancora una volta un pregiudizio caro alla scienza, il pregiudizio che il senso sia una variante del non senso, che la ragione sia una variante della non-ragione e che l'uomo sia un antropomorfismo». Tale l'obiettivo esplicitato da Spaemann nella nota introduttiva all'opera, realizzata con il contributo del discepolo Löw e ora fruibile anche in italiano. L'intenzione alla «persuasione» dell'impossibilità di eliminare la teleologia dal discorso scientifico, insieme con la riflessione sulle conseguenze negative della plurisecolare assunzione di apparenti surrogati ad essa, fu la motivazione, alla fine degli anni Settanta, per un corso universitario tenuto dal nostro autore presso l'Università di Monaco e destinato a uditori di tutte le Facoltà; dal corso  scaturirono le prime due edizioni in tedesco dell'opera, tradotta per Ares da Leonardo Allodi e Giacomo Miranda.

Al lettore è proposta una magistrale sintesi storico-teoretica che costituisce una vera e propria chiave di lettura di tutto il pensiero occidentale, dalle origini greche fino ai nostri giorni. Il tema della teleologia si presta costitutivamente a tale ruolo, non solo per essere stato continuamente oggetto di indagine nel corso dei millenni, ma poiché solo l'orizzonte finalistico permette di fondare sensatamente e senza vacui nominalismi la tipica domanda occidentale “perché?”, sia nell'ambito del vivente, sia, più in generale, nella dinamica dei processi naturali. Per giustificare tale fondazione, Spaemann dapprima affronta sistematicamente e con dovizia di dettagli tutte le critiche storicamente mosse al pensiero teleologico, argomentando con il classico metodo dell'elenchos, mai esplicitamente nominato, ma continuamente applicato. Ovviamente, però, il metodo dell'elenchos non è costruttivo e il nostro autore ne è ben consapevole; una formulazione dello statuto ontologico della teleologia, allora, non potrà che fare riferimento all'esperienza primaria dell'uomo, conoscitiva e morale, come porta d'accesso alla pienezza dell'essere cui la teleologia deve ultimamente ricondursi. Per illustrare più in dettaglio il pensiero delineato da Spaemann è utile ripercorrere brevemente la struttura dell'opera.

L'Autore focalizza i primi due capitoli interamente su Platone e Aristotele, mostrando come il loro pensiero vada integralmente letto su uno sfondo teleologico in quanto intrinsecamente orientato alla comprensione del divenire e della molteplicità, non solo in termini naturalistici, ma anche antropologici. Platone caratterizza come persuasione l'influsso del nous (la razionalità della natura) sull'ananke (la necessità cieca, il caso), ma tale persuasione per Platone non può essere descritta che in termini metaforici, poiché del movimento in senso stretto non si dà alcuna scienza, avendo le figure geometriche una natura statica. L'essere orientato a qualcosa, allora, ha come modello l'impulso umano dell'eros, il cui contenuto oggettivo è il «per amore di...» insito in tutte le cose, il Bello; il soggetto partecipa del Bello e il suo possesso duraturo è l'eudaimonia, la felicità, dalla quale non procedono ulteriori domande: «la risposta ha ormai raggiunto il suo fine» (Simposio, 205 A). Aristotele rafforza il principio immanente della tensione al fine mediante alcune correzioni apportate al pensiero platonico. Egli non ammette l'esistenza indipendente del movimento caotico privo di direzione, facendo così venir meno il corrispondente ruolo ordinatore del Demiurgo: la materia è sempre formata in un concreto, sostanzializzato in un’ousia, che però, nell'analisi aristotelica del movimento, è intrinsecamente composta in unità secondo quanto espresso nel concetto di entelechia, così tradotto da Spaemann: «io porto il fine in me» (p. 96). L'Autore chiarisce in che senso Aristotele intende l'anticipazione del telos nella dinamica del movimento, ciò che costituisce il problema centrale della teleologia e sempre fonte di fraintendimento nella modernità: per lo Stagirita il movimento è «la realtà del possibile in quanto possibile» (Fisica, III 3), dunque il telos è anticipato nella qualità di possibilità reale, che Spaemann concepisce come «possibilità di uno stato futuro che appartiene alla definizione del presente, in quanto possibilità» (p. 90; possibilità più comunemente tradotta come potenza).

 Il pensiero teleologico aristotelico trova il suo apice nel riconoscimento che la tendenza a permanere nell'essere è insita nell'essere finito come forma di partecipazione al divino. Spaemann riconosce al pensiero della Scolastica medievale, in particolare a san Tommaso d'Aquino, il merito di aver saputo inquadrare in una corretta metafisica della creazione l'immanenza della tensione al fine di ogni essere finito, immanenza che realizza la representatio del divino nel finito. Una sintesi di questa portata speculativa ha avuto ben presto epigoni che l'hanno fatalmente deformata (si pensi ad Ockham o Buridano), sotto la spinta di capziosità teologiche e scientifiche che sono sfociate in fallaci interpretazioni nominalistiche. Il risultato è stato quello che Spaemann concettualizza come inversione della teleologia: l'attività dell'ente non manifesta più un ulteriore grado di perfezione del medesimo rispetto al semplice esserci, da leggere come teleologia che trascende sé stessa nella partecipazione all'Assoluto, ma si riduce allaautoconservazione dell'ente stesso, unico telos possibile. Ciò in modo del tutto conforme ad una concezione originariamente stoica dell'universo (teleologia universale), inteso come puro incastro di connessioni fine-mezzo, concezione che allontanava dalla considerazione del fine in sé dell'ente finito. Sotto la spinta degli enormi progressi della fisica, la modernità ha radicalizzato tale posizione: il principio d'inerzia e lo studio geometrico del moto hanno progressivamente condotto anche alla caduta dell'ipotesi del Dio orologiaio della teleologia universale, poiché fondamentalmente non più necessario per giustificare l'universalità delle connessioni fine-mezzo; bastava infatti invocare la catena causal-meccanica dei fenomeni. A tal proposito Spaemann analizza sia il pensiero di Leibniz, supremo tentativo di conciliare, attraverso la sua monadologia, il meccanicismo con il regno dei fini (entrambi radicalizzati), sia il pensiero di altri autori che hanno posto nell'universo medesimo quelle che erano state le prerogative divine (come in Spinoza e altri pensatori).

Il passo decisivo verso la deteleologizzazione della natura è visto da Spaemann nell'interpretazione causal-meccanica del darwinismo quale motore dell'evoluzione biologica, spinta determinante alla vasta espansione delle teorie positiviste in tutti i settori del sapere e della prassi. I capitoli terminali dell'opera sono dedicati ad una critica puntuale delle argomentazioni relative ai tentativi operati nell'ultimo secolo e mezzo di estromettere dalla scienza ogni riferimento alla finalità; in particolare Spaemann si sofferma estesamente sul paradosso novecentesco riguardante l'introduzione del concetto di teleonomia: finalizzato all'eliminazione degli scrupoli verbali sollevati dalla ovvia necessità di utilizzare espressioni teleologiche nella descrizione dei fenomeni connessi alla vita (il problema linguistico), tale concetto rappresenterebbe il paradigma dell'approccio contemporaneo, caratterizzato non più dall'atteggiamento contemplativo dell'uomo, ma dalla volontà di dominio della natura, in una visione ormai globalmente sistemica dei processi naturali e del vivente declinata secondo l'orientamento meccanicistico. Spaemann sembra fare qualche allusione negativa anche a quella visione sistemica allargata che oggi sottende lo studio dei cosiddetti sistemi caotici, senza però essere mai nominati nell'opera; tuttavia, ma questo è il pensiero di chi scrive queste righe, se è vero che nei sistemi caotici si può riconoscere l'emergere dinuova informazione nel corso del  processo evolutivo, il nuovo, in quanto nuovo, sfugge ad ogni formalizzazione, per ricadere ancora in una visione causale non meccanicistica, ma teleologica. Insomma, dalle nozioni di forma e telos non è possibile sottrarsi.

Concludiamo questa breve presentazione tornando sulla ricerca di Spaemann dello status ontologico della teleologia; così l'Autore nella nota introduttiva all'opera: «Come si può parlare di teleologia in modo sistematico? Platone ha utilizzato la metafora del persuadere per caratterizzare l'azione della ragione sulla necessità di orientarla verso ciò che è “migliore”». Il metafisico sistematico (e anche chi scrive) non accetterà la conclusione del nostro Autore, secondo cui «chi spiega ogni agire come accadere solo teleonomico, dunque spiegabile in termini di leggi causali, non può certo essere confutato sul piano teoretico» (p. 348); in effetti in metafisica sistematica lo stesso essere è atto, dunque sul piano trascendentale (usando il linguaggio della Scolastica) intrinsecamente legato alla nozione di fine, ciò che consente una confutazione teoretica. Ma Spaemann non è certo uno sprovveduto, tanto che la sua pars construens, che pure non invoca esplicitamente la metafisica “dura”, fa comunque riferimento, come abbiamo già precisato, a quelle nozioni che tecnicamente vanno sotto il nome di senso comune, dalle quali ogni sapere sistematico trae origine, metafisica compresa: «Che cosa deve significare essere in sé, se non significa coscienza di sé? E in che cosa deve sussistere una costituzione teleologica se essa per parte sua non deve essere riducibile a pura auto-conservazione, ma l'auto-conservazione stessa deve avere ancora una volta un “per amore di...”, se però questo “per amore di...” non deve significare un essere-per-altro ma un “essere-per-amore di” dell'essere in sé? E in terzo luogo questa auto-trascendenza che solo costituisce il sé non deve avere la forma di una coscienza morale?» (pp. 353-354). Insomma, riassumendo, per Spaemann è ineludibile l'impronta umana nella conoscenza, nell'azione e nella relazione con l'altro, ma proprio per questo il finalismo non potrà mai essere estromesso da alcuna scienza, alla quale, comunque, nessuno dovrebbe togliere la pretesa di affermare verità.

Danilo Saccoccioni