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I tre tipi di filosofia

Vladimir Solov’ëv
1877

La conoscenza integrale

Il filosofo russo mostra come empirismo e idealismo, portati alle loro estreme conseguenze, giungono ad interne contraddizioni. Essi necessitano di un terzo tipo di filosofia, quella mistica, che cogliendo l’essere nella sua duplice dimensione oggettiva e soggetiva, apre alla possibilità di una sintesi. Tale sintesi, denominata conoscenza integrale, è raggiunta quando partendo dalla scienza, dalla filosofia, oppure dalla teologia, il soggetto attraversa tutto quanto è predicabile in quel setttore, percependo dal suo interno le aperture verso sintesi superiori. Proprio giungendo ad una sintesi con la filosofia e la teologia la scienza diviene “vera scienza” e così, analogamente, anche per le altre forme di conoscenza, una volta giunte al rango di “conoscenza integrale”.

La libera teosofia è la sintesi organica della teologia, della filosofia e della scienza sperimentale, e solo una simile sintesi può racchiudere in sé la verità integrale della conoscenza: al di fuori di essa, sia la scienza, sia la filosofia, sia la teologia sono soltanto delle parti o degli aspetti singoli, gli organi isolati della conoscenza, e in questo senso, quale che sia il livello nel quale si situano, non possono comunque essere adeguate alla verità integrale stessa. È chiaro che la sintesi cercata può essere raggiunta partendo da uno qualsiasi dei suoi elementi. Infatti, siccome la scienza autentica è impossibile senza la filosofia e la teologia, così come lo è l’autentica filosofia senza la teologia e la scienza positiva e come lo è ancora l’autentica teologia senza la filosofia e la scienza, è ovvio che ciascuno di questi elementi, portato alla sua autentica pienezza, acquisisce necessariamente un carattere sintetico e diventa conoscenza integrale. In questo senso, la scienza positiva, elevata a sistema autentico o ricondotta ai suoi principi e alle sue radici autentiche, si trasforma in libera teosofia, e tale diventa anche la filosofia, una volta che sia stata affrancata dalla sua unilateralità; e da ultimo, del resto, anche la teologia, liberata dal suo esclusivismo, si trasforma necessariamente in questa stessa ed identica libera teosofia; e se quest’ultima può essere definita in generale come conoscenza integrale, in particolare potrà presentarsi come scienza integrale o, ancora, come filosofia integrale o, da ultimo, come teologia integrale; la differenza qui sarà soltanto nel punto di partenza e nei metodi dell’esposizione, i risultati e il contenuto positivo, invece, saranno identici. Nella presente opera, il punto di partenza è il pensiero filosofico, e la libera teosofia viene considerata qui come un sistema filosofico; in questo senso, io sono tenuto innanzitutto a mostrare che la filosofia autentica deve necessariamente avere questo carattere teosofico o che essa può essere soltanto ciò che io chiamo libera teosofia o conoscenza integrale.

La parola filosofia, come è noto, non ha un unico significato precisamente definito, ma viene utilizzata in molti sensi, estremamente diversi tra di loro. Innanzitutto vi sono due concetti fondamentali di filosofia, nettamente distinti l’uno dall’altro: per il primo la filosofia è soltanto teoria, è una questione esclusivamente accademica, per il secondo essa è più che teoria, è principalmente una questione [1] di vita e poi, eventualmente, anche accademica. In base al primo concetto la filosofia concerne esclusivamente la capacità conoscitiva dell’uomo; in base al secondo essa risponde anche alle supreme esigenze della volontà umana e ai supremi ideali del sentimento umano, e ha in questo senso un significato non solo teoretico, ma anche morale ed estetico, ciò che la pone in un rapporto interiore profondo con le sfere della creatività e dell’attività pratica, dalle quali pur si distingue. Per la filosofia che corrisponde al primo concetto – per la filosofia accademica – dall’uomo si esige soltanto un intelletto che abbia raggiunto un ben preciso livello di sviluppo, che sia stato arricchito da un certo numero di conoscenze e si sia liberato da pregiudizi volgari; per la filosofia che corrisponde al secondo concetto – per la filosofia della vita – oltre a ciò si esige un particolare indirizzo della volontà, si esige cioè un particolare atteggiamento morale e anche un sentimento e un senso artistici, la forza dell’immaginazione o della fantasia. Il primo tipo di filosofia, occupandosi esclusivamente di problemi teoretici, non ha alcun legame interiore e diretto con la vita personale e sociale, il secondo tipo di filosofia aspira invece a diventare la forza organizzatrice direttiva di questa vita stessa.

È inevitabile chiedersi quale di queste due filosofie sia quella autentica. Sia l’una sia l’altra hanno un’identica pretesa di conoscere la verità, ma questa parola stessa viene da loro intesa in maniera assolutamente diversa: per una essa ha un significato esclusivamente teorico e astratto, per l’altra ne ha uno vivo e sostanziale. Se per risolvere il nostro problema ricorriamo all’etimologia della parola filosofia avremo una risposta favorevole alla filosofia viva. È evidente che la parola filosofia[2], cioè amore per la sapienza (questo è il significato della parola greca filosofia)non può essere applicata ad una scienza teorica astratta. Per sapienza si intende non solo la pienezza della conoscenza, ma anche una perfezione morale, una interiore integrità di spirito. Da questo punto di vista la parola filosofia indica l’aspirazione all’integrità spirituale dell’essere umano, e in questo senso, appunto, venne utilizzata originariamente. Ma è ovvio che questo argomento etimologico non ha di per se stesso grande importanza, dato che una parola presa da una lingua morta può ricevere in seguito un significato indipendente dalla sua etimologia. Così, ad esempio, la parola chimica, che significa etimologicamente “delle terre nere” o “egiziana” (dalla parola “chem”, terra nera o, come nome proprio, “Egitto”)[3], nel su significato contemporaneo ha, evidentemente, ben poco a che vedere con le terre nere o con l’Egitto. Ma, per quel che concerne la filosofia, bisogna osservare che anche adesso la maggior parte della gente la intende propriamente secondo il suo significato originario. Il senso comune e ciò in cui esso si esprime, la lingua parlata, anche oggi vedono nella filosofia qualcosa di più che non una scienza astratta, e nel filosofo qualcosa di più che non uno scienziato. Nella lingua parlata si può chiamare filosofo un uomo non solo poco istruito ma anche del tutto privo di istruzione, purché abbia un particolare senso intellettuale e morale. In questo modo, non solo l’etimologia ma anche l’uso comune conferisce a questa parola un significato assolutamente non corrispondente alla filosofia accademica ma molto vicino a quella che noi abbiamo chiamato filosofia della vita, il che, evidentemente costituisce un notevole præjudicium a favore di quest’ultima. Questa circostanza non ha però un valore decisivo: il concetto corrente di filosofia può non rispondere alle esigenze del pensiero più maturo. E così, per risolvere il nostro problema in maniera decisiva dobbiamo considerare i principi interiori di entrambe le filosofie e solo dalla loro intrinseca consistenza o inconsistenza trarre una conclusione a favore dell’una o dell’altra.

La grande varietà di sistemi esistenti nella filosofia accademica può essere ricondotta a due tipi o correnti fondamentali, in quanto alcuni sistemi sono soltanto semplici varianti di questi tipi o rappresentano diversi stadi del loro sviluppo, mentre altri sono soltanto dei livelli transitori o degli anelli intermedi tra un tipo e l’altro, ed altri ancora, da ultimo, costituiscono un tentativo di combinarli ecletticamente fra di loro.

Le dottrine che appartengono al primo tipo situano l’oggetto principale della filosofia nel mondo esterno, nella sfera della natura materiale, e considerano quindi come autentico punto di partenza della conoscenza l’esperienza esterna, cioè ciò che otteniamo attraverso la nostra abituale coscienza sensibile. Se si considera l’oggetto che viene presupposto come base della filosofia, questo tipo può essere chiamato naturalismo, se si considera invece quello che viene qui riconosciuto come punto di partenza della conoscenza, questo tipo può essere chiamato empirismo esteriore.

Pur considerando come autentico oggetto della filosofia la natura che ci viene data nell’esperienza esterna, il naturalismo non può tuttavia attribuire un simile valore alla realtà immediata e circostante, con tutta la complessa e mutevole varietà dei suoi fenomeni. Se la verità cercata dalla filosofia si identificasse con questa realtà che ci circonda e se, in questo senso, l’avessimo a portata di mano, è ovvio che non vi sarebbe neppure alcun motivo di cercarla e che la filosofia, come particolare tipo di conoscenza, non avrebbe ragione di esistere. Ma il problema consiste appunto nel fatto che questa nostra realtà non basta a se stessa, che essa si presenta come qualcosa di parziale, mutevole e derivato ed esige, in questo senso, di essere spiegata da qualcosa d’altro che sia autenticamente esistente e si ponga come suo principio originario. Questa realtà fenomenica, quella che nel suo complesso noi chiamiamo mondo, è soltanto l’oggetto dato della filosofia, ciò che esige di essere spiegato, il problema che deve essere risolto, l’enigma che deve essere sciolto. La chiave del problema, le mot de l’énigme, è appunto l’incognita della filosofia. Tutte le correnti filosofiche, quale che sia la direzione nella quale cercarono la verità autentica e quale che sia la definizione che ne diedero, riconoscono identicamente che essa deve avere un carattere di universalità e di immutabilità, capace di distinguerla dalla realtà transeunte e parcellizzata dei fenomeni. E questo viene riconosciuto anche dal naturalismo, in quanto dottrina filosofica, che, appunto per questo, attribuisce il carattere di veramente essente[4] alla natura intesa non nel senso del semplice insieme dei fenomeni esterni presi nella loro varietà visibile, ma nel senso del fondamento reale comune, o materia, di questi fenomeni. Nella definizione di questo fondamento il naturalismo attraversa tre livelli di sviluppo. La prima e infantile fase della filosofia naturalista (rappresentata, ad esempio, dall’antica scuola ionica) può essere definita come una forma di materialismo elementare o naturale; a fondamento o principio (α̉ρχὴ ) delle cose viene posto qui uno dei cosiddetti elementi della natura, mentre tutto il resto il resto viene considerato come una sua semplice modificazione. Ma è facile rendersi conto del fatto che nessun elemento della natura, in quanto realtà limitata e distinta da tutto il resto, può fungere da autentico principio primo; tale può essere soltanto un elemento della natura comune e indeterminato o il fondamento comune di tutti gli elementi naturali ( τὸ ά̉πειρον di Anassimandro).

Questa unica e universale natura – madre (materia[5] da mater), dalla quale deriva tutto ciò che esiste, generando da sé ogni vita, non può essere una realtà morta e inanimata, ma deve racchiudere in sé tutte le forze vive dell’essere, deve essere essa stessa viva e animata. Questa dottrina , che vivifica la natura materiale, si chiama ilozoismo e costituisce il secondo livello della filosofia naturalista ( suoi rappresentanti sono, tra gli altri, i filosofi della natura del XV e del XVI secolo, e soprattutto il più grande tra di loro: Giordano Bruno). Questo modo di rappresentarsi la natura come un essere vivo e animato può essere assolutamente esatto ( e in seguito vedremo che le cose stanno effettivamente così ); ma dal punto di vista del naturalismo non si può dare a tale concezione alcun fondamento adeguato; questo modo di vedere le cose può conservarsi nel naturalismo solo finché esso non si sia ancora reso conto di quali siano i metodi conoscitivi a lui propri; ma appena prende forma la coscienza che, se il fondamento di tutto ciò che esiste si situa nel mondo esterno, questo fondamento stesso può essere conosciuto soltanto sulla base dell’esperienza esterna, appena prende forma questa coscienza – si diceva – è ovvio che l’ilozoismo diventerà insostenibile per un naturalista. Nell’ esperienza esterna, infatti, noi non troviamo alcuna natura animata come principio primo di tutti i fenomeni; in genere, nell’esperienza esterna troviamo soltanto le differenti modificazioni e i moti meccanici della materia; la forza attiva e agente che produce questi moti, invece, non solo non si manifesta nell’esperienza esterna, ma non può neppure essere logicamente dedotta dai suoi soli dati. In tal senso, da questo punto di vista si può riconoscere come fondamento di tutto ciò che esiste solo il substrato del movimento meccanico, cioè le particelle stabili e indivisibili della materia: gli atomi.

Gli atomi – le particelle indivisibili della materia – sono il veramente essente, ciò che permane immutabilmente, tutto il resto deriva dalle diverse combinazioni meccaniche di questi atomi ed è soltanto un fenomeno transeunte: questo è il principio che definisce il terzo ed ultimo livello del naturalismo, il materialismo meccanicista o atomismo. Questa dottrina non sa nulla della forza viva universale affermata dall’ilozoismo; ma anche il materialismo meccanicista non può fare a meno di riconoscere l’esistenza di una forza in generale: deve riconoscere per lo meno le singole forze elementari appartenenti agli atomi. E così si fa strada la tesi secondo cui tutto ciò che esiste si compone di forza e materia: Kraft und Stoff. Se rimuoviamo alcuni malintesi, dovuti più ad incomprensioni terminologiche che alla sostanza delle cose, dovremo concordare con questo principio fondamentale del materialismo. Tutto, in effetti, si compone di forza e materia. L’enorme popolarità che il materialismo ha sempre saputo guadagnarsi in ogni tempo e luogo dipende appunto dalla verità e dalla semplicità di questa affermazione; per un altro verso, però, esso non ha mai potuto soddisfare totalmente nessuna mente filosofica profonda. E il motivo è comprensibile: dicendo la verità il materialismo non dice tutta la verità.L’affermazione secondo cui l’universo si compone di forza e materia è altrettanto vera di quella secondo cui la Venere di Milo è fatta di marmo, e come quest’ultima affermazione non ha alcun significato per un artista, così la prima non ha alcun valore per un filosofo. È ovvio che, in quanto tale, il problema del substrato universale di ciò che esiste ha per la filosofia un valore incomparabilmente più grande di quello che può avere il problema del materiale di una statua per l’arte; ma io sto pensando qui alla risposta che il materialismo dà a questo importante problema, risposta che, nella sua genericità, è assolutamente imprecisa e vuota. Quando poi cerca di uscire da questa genericità e di dare una qualche definizione positiva al proprio principio, il materialismo arriva a dei risultati estremamente tristi.

Il materialismo definisce la materia come un insieme di atomi. Ma cosa sono gli atomi? Per il naturalista sono delle particelle date empiricamente e relativamente indivisibili, tali cioè che, nelle condizioni esistenti, non possono essere assolutamente divise. In questo senso, quando si chiede che cosa sia la materia, ci si sente rispondere con grande serietà che la materia è un insieme di particelle di materia. Ma quei pochi materialisti che avvertono una certa insufficienza di questa risposta ricorrono anche ad un altro metodo di definizione, analizzando soprattutto gli elementiqualitativi della materia. Eliminando tutte le proprietà particolari e secondarie, questa analisi riduce la materia all’impenetrabilità, cioè alla capacità di opporre resistenza ad un’azione esterna. Propriamente qui possiamo parlare soltanto della resistenza alla nostra azione. La resistenza da noi percepita forma l’idea generale di materialità, e siccome anche tutte le manifestazioni secondarie e particolari della materia, quali i colori, i suoni, ecc., si riducono alle nostre sensazioni – visive, uditive, ecc.- ne consegue che tutto il contenuto empirico della materia non è, in generale, nient’altro che una nostra sensazione. Una simile conclusione è evidentemente esiziale per il punto di vista stesso del naturalismo, in quanto trasferisce il fondamento di tutto ciò che esiste dal mondo esterno in noi. Per evitare questo esito il materialismo deve tornare all’idea degli atomi, intesi ormai non più come particelle empiriche di una materia riducibile alle nostre sensazioni, ma come punti reali assolutamente indivisibili, che esistono di per sé, che sono indipendenti da qualsiasi esperienza e che, anzi, con la loro azione sul soggetto condizionano qualsiasi esperienza. Questi atomi metafisici, per la loro definizione stessa, non possono essere individuati empiricamente, poiché nell’empiria abbiamo soltanto l’essere relativo e non quello assoluto: ma se non possono essere datiempiricamente, ne consegue che il loro riconoscimento deve avere dei fondamenti logici e sottostare ad una critica logica. Questa critica, però, non solo non trova sufficienti motivazioni logiche per arrivare all’affermazione di questi punti, che dovrebbero essere assolutamente indivisibili e, nello stesso tempo, materiali, ma anzi dimostra con assoluta evidenza l’impossibilità logica di una simile idea. Questi atomi, infatti, o hanno una certa estensione o non ce l’hanno. Nel primo caso sono divisibili e, quindi, sono soltanto degli atomi empirici e non autentici. Se invece non hanno di per se stessi alcuna estensione (come appunto deve essere già per il solo fatto che l’estensione è una proprietà della materia empirica e fenomenica, determinata dalle forme della percezione soggettiva), allora sono dei punti matematici; ma per essere il fondamento di tutto ciò che esiste questi punti matematici devono avere una propria sostanzialità; ora, questa sostanzialità non può essere materiale, perché gli atomi sono stati privati di tutte le proprietà della materia, ivi compresa anche l’estensione, e tutto ciò che è materiale è ritenuto fenomenico e non sostanziale: questa sostanzialità, quindi, non essendo materiale, deve essere dinamica. Gli atomi non sono allora le parti di cui si compone la materia, ma le forze che producono[6] la materia. Queste forze, con la loro interazione ( reciproca ) e con la loro azione combinata sul nostro soggetto, formano tutta la nostra realtà empirica, tutto il mondo dei fenomeni. In questo senso, non è la forza ad essere un attributo della materia, come si era ritenuto in principio, ma è la materia ad essere il prodotto di varie forze o, per esprimersi con maggior precisione, il limite relativo della loro interazione reciproca. Così, gli atomi, o non esistono affatto, o sono delle entità dinamiche immateriali, delle vive monadi. Questa conclusione segna il crollo definitivo di ogni materialismo meccanicistico e, nello stesso tempo, anche di ogni concezione naturalistica del mondo. In effetti, dopo la riduzione degli atomi a forze vive, per i pensatori della corrente naturalista restano aperte due sole vie. O, avendo riconosciuto la realtà delle monadi, si comincia ad indagare quale sia il loro contenuto interiore e quali siano le loro relazioni reciproche. E come sarà mostrato in seguito una simile indagine, che ha necessariamente un carattere speculativo ( poiché nell’esperienza le monadi non si danno ) e che va ben al di là dei limiti del naturalismo, ci porta nel cuore stesso della filosofia mistica. Oppure, ed è la seconda via, restando ad ogni costo nel quadro dell’empirismo, si accettano tutte le conseguenze negative che derivano necessariamente da questo punto di vista. E cioè: se l’unica fonte della conoscenza è l’esperienza esterna e se nell’esperienza esterna non ci è dato alcun fondamento dell’essere, non ci è data alcuna essenza, ma ci sono dati soltanto i fenomeni, che a loro volta sono riducibili alle nostre sensazioni e alle nostre percezioni, allora è ovvio che sono proprio questi fenomeni, nelle loro relazioni di successione e somiglianza, a dover essere considerati come l’unico oggetto della conoscenza. Il materialismo meccanicista, pur fondandosi esclusivamente sull’esperienza esterna, ammette però qualcosa che nell’esperienza esterna non c’è, e cioè gli atomi. Questa contraddizione deve essere eliminata; devono essere eliminate anzi quelle povere essenze che sono gli atomi, e con loro deve essere eliminata ogni essenza; tutto ciò deve essere sacrificato all’empirismo, cui il punto di vista naturalistico è legato in maniera indissolubile, dal momento che non ha altro metodo di conoscenza ad esso confacente all’infuori dell’esperienza esterna.

E così, il naturalismo deve riconoscere come unico oggetto di conoscenza ciò che è dato nella effettiva esperienza esterna, cioè i fenomeni nel loro nesso esteriore di successione e somiglianza. Ma lo studio dei fenomeni da questo punto di vista è una questione che riguarda le scienze positive, alle quali si riduce appunto, in questo senso, il naturalismo conseguente, che cessa in tal modo di essere una filosofia. È sfuggito all’iperfisica solo per essere interamente assorbito dall’empirismo e confluire così nelle scienze positive. Per molti un simile risultato è l’espressione della verità nella sua forma più alta, il trionfo definitivo della ragione umana sui nebulosi fantasmi della metafisica. Invece delle essenze, i fenomeni; invece dei principi e dei fini, le immutabili leggi dei fenomeni; invece della filosofia trascendentale, la scienza positiva; e appunto in questo cambio di guardia l’empirismo vede il proprio trionfo più completo che, ovviamente, per esso è il trionfo della verità sull’inganno. Ma la disgrazia è che l’inesorabile logica dell’intelletto non consente all’empirismo di godersi l’asilo che gli è offerto dalla scienza positiva, un asilo che è certamente povero ma, con ogni evidenza, assolutamente sicuro; questa logica lo spinge ineluttabilmente verso il tenebroso abisso dello scetticismo assoluto. La scienza, infatti, aspira a conoscere le leggi dei fenomeni, cioè i loro rapporti necessari e universali, i rapporti che sono comuni a tutti i fenomeni dello stesso genere in tutti i casi particolari del passato e del futuro, cioè in ogni tempo. Il presupposto è che la scienza venga a conoscere queste leggi attraverso l’esperienza. Ma nell’esperienza noi possiamo osservare solo i rapporti empirici dei fenomeni, cioè i rapporti che si danno in quei ben determinati casi che sono appunto soggetti alla nostra esperienza. Un certo rapporto di successione e di somiglianza tra determinati fenomeni, identico in tutte le nostre esperienze passate, è un fatto; ma che cosa garantisce che questo rapporto sia assolutamente immutabile in tutti i tempi, sia quelli che seguiranno sia quelli che hanno preceduto le nostre esperienze, per i quali evidentemente non possiamo affermare questo rapporto come un fatto? Che cosa dà ad un nesso empirico e fattuale tra determinati fenomeni un carattere di universalità e necessità, che cosa lo rende una legge? La nostra esperienza scientifica, per così dire, è cominciata ieri, e la quantità di casi ad essa soggetta è infinitamente piccola se confrontata con quelli che le sfuggono. Ma anche se questa esperienza esistesse da milioni di secoli, neppure questi milioni di secoli potrebbero significare qualcosa rispetto al tempo infinito che ci sta davanti, e quindi non potrebbero neppure garantire un’attendibilità assoluta alle leggi da noi trovate in questa esperienza. Su che cosa fondano, dunque, gli empiristi, le loro leggi universali dei fenomeni? Dobbiamo qui constatare qualcosa di assolutamente incredibile: quegli stessi empiristi contemporanei, che tanto si pendono gioco degli scolastici e delle loro affermazioni assiomatiche secondo cui la natura non tollera il vuoto, non fa salti e via dicendo, questi stessi empiristi proclamano con grande serietà che l’universalità e la necessità o, in altre parole, l’immutabilità delle leggi dei fenomeni si fonda sull’assioma secondo cui la natura sarebbe costante e uniforme nelle sue azioni. Se son degni di riso gli scolastici, che per altro avevano un certo diritto di affermare simili assiomi, in quanto riconoscevano in genere l’esistenza diveritates æternæ et universales, di che cosa saranno degni allora questi empiristi contemporanei che, pur negando qualsiasi verità apriorica, ci propinano poi tra l’altro questa purissima veritatem æterna sulla natura e sulle sue azioni? Ma cos’è poi, per l’empirista la stessa natura? Un concetto generale, astratto dai fenomeni e dalle loro leggi, e quindi qualcosa che non ha alcun contenuto proprio indipendente da questi fenomeni e da queste leggi; in questo senso, l’assioma sulla regolarità della natura si riduce all’affermazione secondo cui le leggi dei fenomeni sono immutabili, e noi ci troviamo con un purissimo idem per idem: l’immutabilità della legge dei fenomeni fondata sulla pura e semplice affermazione di questa stessa immutabilità.

Così, quando ci si chiede perché un certo rapporto tra i fenomeni, dato nell’esperienza, dovrebbe essere una legge universale e necessaria, all’empirista resterà una sola risposta: perché questo rapporto è stato sempre osservato sino ad oggi. Ma in questo caso si tratta di una legge che resterà tale soltanto fino alla prima osservazione che sarà in grado di mostrarci un rapporto diverso tra i fenomeni di questo tipo, e quindi non è già più una legge autentica, cioè universale e necessaria. Se invece si ammette che un certo rapporto è una legge, in quanto è necessario in sé, cioè a priori, è ovvio che qui si è già usciti dall’empirismo e si è entrati nella filosofia speculativa. In questo senso, dal punto di vista empirico è impossibile persino la conoscenza dei fenomeni nelle loro leggi universali e necessarie; l’empirismo coerente distrugge non solo la filosofia, ma anche la scienza positiva, per lo meno nella sua valenza teoretica. L’unica cosa che resta possibile sono le osservazioni empiriche dei fenomeni, colti nel loro nesso fattuale e dato, mutevole e transeunte, osservazioni che possono avere un’utilità pratica, ma che sono evidentemente prive di qualsiasi interesse teoretico.

L’empirismo ammette la conoscenza dei soli fenomeni. Ma che cos’è il fenomeno? Esso si oppone all’essente in sé, e quindi si definisce come qualcosa che non è in sé, ma esiste solo relativamente ad altro, e cioè relativamente a noi, intesi come soggetto conoscente. Tutti i fenomeni si riducono alle nostre sensazioni o, per esser più precisi, ai diversi stati della nostra coscienza. Tutto ciò che abitualmente consideriamo come un oggetto esterno indipendente da noi, tutto ciò che vediamo, sentiamo, tocchiamo, e via dicendo, è costituito in realtà dalle nostre personali sensazioni, cioè dalle modificazioni del nostro soggetto e quindi non può pretendere di avere una qualche realtà diversa e ulteriore rispetto a quella che hanno già tutte le altre modificazioni del soggetto, quali ad esempio i desideri, i sentimenti, le idee, ecc. In questo senso scompare la contrapposizione di esperienza interna ed esterna; non si può più parlare degli oggetti esterni e dei nostri stati psichici come se fossero delle realtà fra loro contrapposte, dato che anche gli oggetti esterni, in realtà, non sono altro che nostri stati psichici: tutte le cose sono identicamente fenomeni, cioè delle modificazioni del nostro soggetto, diversi stati della nostra coscienza. Questo vale non solo per i cosiddetti oggetti inanimati, ma anche per i soggetti che si presuppone esistano fuori di noi. Tutto quello che possiamo sapere degli altri uomini si riduce alle nostre personali sensazioni: li vediamo, sentiamo e tocchiamo esattamente come vediamo, sentiamo e tocchiamo gli altri oggetti esterni; da questo punto di vista, dal punto di vista del modo in cui conosciamo non v’è dunque alcuna differenza tra gli uomini e tutti gli altri oggetti; e se, come fa l’empirismo, dal modo di conoscenza si trae anche una conclusione circa la forma dell’essere conosciuto, se cioè dal fatto che questo oggetto materiale è da me conosciuto attraverso le mie sensazioni si deduce che esso consiste soltanto delle mie sensazioni, è ovvio che una simile conclusione dovrà essere estesa anche agli uomini. Io so qualcosa degli altri uomini solo attraverso le mie sensazioni, essi esistono per me solo in questi stati della mia coscienza, e quindi, appunto, non sono altro se non degli stati della mia coscienza. Ma anche di me stesso come soggetto so qualcosa solo negli stati della mia coscienza, e quindi anch’io come soggetto devo essere ridotto agli stati della mia coscienza; ma questo è assurdo, perché la mia coscienza presuppone già mestesso. Resta quindi da ammettere che esistono i fenomeni della coscienza, non però quelli della mia coscienza, perché il mio io non esiste, bensì quelli della coscienza in generale, senza qualcuno che abbia coscienza e senza qualcosa di cui si abbia coscienza. Esistono i fenomeni in sé, le percezioni in sé. Ma questo è in immediata contraddizione con il significato logico di questi termini. Il fenomeno, nella sua contrapposizione all’essente, significa soltanto ciò che non è in sé ed esiste solo per altro; e lo stesso significa anche la percezione. Se però questo altro che percepisce non c’è, è ovvio che non c’è neppure la percezione e non c’è neppure il fenomeno e tutto si riduce ad un essere non meglio identificato ed indifferente, chiuso in se stesso e privo di qualsiasi rapporto con l’altro (dato che l’altro non c’è), conclusione che è logicamente assurda, che non ha nulla in comune con la realtà empirica e che finisce dunque col distruggere definitivamente l’empirismo.

Per sfuggire ad una simile conclusione non si può fare altro che riconoscere  che il soggetto conoscente in quanto tale possiede un essere non fenomenico ma assoluto, non è un fenomeno ma un veramente essente. Questa affermazione è il principio del secondo indirizzo o del secondo tipo di filosofia, quello della filosofia accademica che abitualmente viene identificato con il nome di idealismo. Il veramente essente, qui, non viene più posto nel mondo esterno, dove lo cerca il naturalismo, ma in noi stessi, nel soggetto conoscente. In questo senso, il passaggio naturale dal naturalismo all’idealismo è costituito appunto dall’empirismo coerentemente cosciente di sé, da quell’empirismo che ha fagocitato il principio del naturalismo attraverso la riduzione di ogni essere oggettivo esterno alle sensazioni del soggetto.

Ovviamente, affermando l’essere assoluto del soggetto conoscente, l’idealismo non si riferisce ai soggetti empirici nella loro molteplicità concreta e negli atti singoli e particolari della loro conoscenza materialmente condizionata; esso si riferisce al soggetto conoscente in quanto tale, preso cioè nelle forme universali e necessarie della sua conoscenza o idee (donde, appunto, il nome di idealismo). È evidente che queste idee, in quanto universali e necessarie, non possono essere date empiricamente; esse sono accessibili solo al pensiero apriorico della ragion pura; in questo senso l’idealismo, dal punto di vista del metodo della conoscenza, è un puro razionalismo. [Come si sa, questa concezione ha trovato la sua formulazione più cosciente e pura nella più recente filosofia tedesca, quella cioè che è nata da Kant. Gli sviluppi di questa filosofia sono a tutti noti, ed io mi limiterò quindi a ricordarli in poche parole.][7] Per l’idealismo il veramente essente è ciò che è conosciuto dal pensiero puro; ma col puro pensiero si conoscono soltanto i concetti generali; a questo appunto si riduce l’idea, nella misura in cui è data nel pensiero razionale puro. Il veramente essente, così, è il concetto generale, e siccome tutto ciò che esiste deve essere manifestazione del veramente essente come fondamento universale, ne consegue che tutto ciò che esiste non è altro che lo sviluppo del concetto generale, ma quest’ultimo, in quanto tale, in quanto cioè concetto generale κατ’εξοήν può essere solo quel concetto che non racchiude in sé alcun contenuto concreto, cioè il concetto di essere puro, che appunto non contiene in sé assolutamente nulla, che non si distingue assolutamente dal concetto di nulla e che, quindi, gli è identico. In questo modo, l’idealismo razionalistico si trasforma nella logica assoluta di Hegel, secondo la quale tutto ciò che esiste è il risultato dell’autosviluppo di questo puro concetto d’essere, che è identico al nulla. Se ogni cosa ha la propria realtà autentica solo nel concetto, ne consegue che anche il soggetto conoscente non è nient’altro che concetto e che, da questo punto di vista, non ha alcuna superiorità rispetto a tutto il resto dell’essere. In questo modo, i concetti o le idee, che formano tutto ciò che esiste, non sono idee del soggetto pensante (lui stesso è soltanto un’idea), esse sono in sé, e tutto ciò che esiste, come si è detto, è il risultato del loro autosviluppo o, per essere più esatti, dell’autosviluppo di un unico concetto, il concetto dell’essere puro o del nulla. In altre parole, tutto deriva dal nulla o tutto è, in sostanza, nulla. Ogni cosa è puro pensiero, cioè pensiero senza pensante e senza pensato, atto[8] senza soggetto agente e senza oggetto dell’azione[9]. Abbiamo qui un esempio sorprendente di come sia possibile che correnti nettamente contrapposte si incontrino nelle loro conclusioni estreme. Come abbiamo visto, infatti, l’empirismo coerente arriva ad un risultato simile: al riconoscimento della percezione senza soggetto della percezione e senza oggetto percepito, al riconoscimento degli stati di coscienza senza soggetto cosciente e senza oggetto della coscienza, al riconoscimento, per dirla in breve, di un fenomeno senza essente, di un non meglio identificato essere in divenire. L’unica differenza consiste nel fatto che l’empirismo definisce questo essere in maniera sensista, come sensazione o percezione sensibile, mentre il panlogismo o fa in maniera razionalista, come concetto generale. Ma anche questa differenza è soltanto apparente, perché se ogni cosa viene conosciuta attraverso la sensazione e se, sull’altro versante, ogni cosa viene conosciuta invece attraverso il concetto, ne consegue che sia la sensazione sia il concetto perdono la propria determinatezza, il proprio significato specifico. Una sensazione che sia tutto non è già più una sensazione e un concetto che sia tutto non è già più un concetto: la differenza è soltanto nelle parole. Sia l’una sia l’altro, privi del soggetto e dell’oggetto, si perdono in un’assoluta indeterminatezza, nel puro nulla. Questo loro ridursi a nulla, da loro stessi prodotto, suona già a sufficiente confutazione di queste concezioni nella loro unilateralità. E se questa autodistruzione deriva (come è assolutamente indubitabile) dal processo logico del pensiero, che non fa altro che trarre le conclusioni necessarie, già contenute nei punti di partenza o nelle premesse di queste concezioni, è allora evidente che il loro errore è contenuto in queste stesse premesse. La grande premessa del naturalismo empirista afferma che il veramente essente si trova nel mondo esterno, nella natura, e può essere conosciuto attraverso l’esperienza esterna. La grande premessa dell’idealismo razionalista afferma che il veramente essente si trova nel soggetto conoscente, nella nostra ragione, e che può essere conosciuto attraverso il pensiero razionale puro o attraverso la costruzione dei concetti generali. E invece, attraverso lo sviluppo coerente di questi principi, l’empirismo arriva alla negazione del mondo esterno, della natura e dell’esperienza esterna, come mezzo di conoscenza del veramente essente, mentre il razionalismo arriva alla negazione del soggetto conoscente e del pensiero puro come mezzo di conoscenza dell’essente (in quanto l’essente stesso viene negato). In questo senso, per respingere i principi di entrambi questi indirizzi o tipi di filosofia, non abbiamo bisogno di ricorrere ad alcun argomento che sia loro estrinseco: essi stessi si autoconfutano non appena giungono alle loro ultime conclusioni logiche, e insieme a loro crolla anche tutta la filosofia accademica astratta, della quale sono i due poli necessari. 

Così, o si deve rinunciare del tutto alla conoscenza autentica e si deve accettare il punto di vista dello scetticismo assoluto[10], oppure si deve riconoscere che quello che viene cercato dalla filosofia non si trova né nell’essere reale del mondo esterno, né nell’essere ideale della nostra ragione, non è conosciuto né attraverso l’empiria, né attraverso il pensiero razionale puro. Si deve riconoscere, in altre parole, che il veramente essente ha una propria realtà assoluta, del tutto indipendente sia dalla realtà del mondo materiale esterno sia dal nostro pensiero, e che anzi comunica  a questo mondo la sua realtà e al nostro pensiero il suo contenuto ideale. Le concezioni che attribuiscono il valore di veramente essente a questo principio sovracosmico e sovrumano, e lo concepiscono non solo nella forma di un principio astratto (quale è ad esempio nel cartesianesimo o nel deismo di Wolff), ma con tutta la pienezza della sua realtà viva, queste concezioni, si diceva, escono dall’ambito della filosofia accademica e, accanto ai suoi due tipi fondamentali, formano un terzo tipo particolare di contemplazione intellettuale, quello cui abitualmente viene dato il nome di misticismo.

Secondo questo tipo di concezione, la verità non si trova né nella forma logica di conoscenza, né nel suo contenuto empirico; generalmente parlando essa non rientra nell’ambito della conoscenza teoretica presa nel suo isolamento o nel suo esclusivismo: questa conoscenza non è autentica. La conoscenza della verità si ha soltanto quando la conoscenza stessa corrisponde al desiderio di bene e al senso della bellezza. La definizione della verità, infatti, riguarda immediatamente la sfera della conoscenza, ma non certo questa sfera presa nel suo esclusivismo (che già di per sé è una non verità); questa definizione può rientrare nella sfera della conoscenza solo nella misura in cui quest’ultima concorda con le altre sfere dell’essere spirituale; in altri termini, può essere considerato vero nel senso proprio di questa parola, può cioè essere considerato verità autentica solo ciò che nello stesso tempo è anche bene e bellezza. Esistono, certo, quelle cosiddette verità che sono accessibili alla facoltà conoscitiva presa nel suo isolamento o nella sua astrattezza; e tali sono, per un verso, le verità puramente formali e, per un altro verso, quelle puramente materiali o empiriche. Ogni principio matematico ha un suo carattere formale di verità, pur senza avere alcun rapporto diretto con la volontà e con il sentimento, ma appunto per questo è di per se stesso privo di qualsiasi realtà e di qualsiasi contenuto reale. Per un altro verso, anche ogni fatto storico o scientifico – naturale ha un suo carattere materiale di verità, pur senza avere alcun rapporto con l’etica o con l’estetica, ma appunto per questo è di per se stesso privo di qualsiasi significato razionale. Le verità del primo tipo sono irreali, quelle del secondo sono irrazionali, le prime hanno bisogno di una realizzazione, le seconde hanno bisogno di una donazione di senso. La verità autentica, invece, la verità integrale e viva, racchiude in se stessa sia la propria realtà sia la propria ragionevolezza e le comunica a tutto il resto. Conformemente a quanto si è detto, l’oggetto della filosofia mistica non è il mondo dei fenomeni, riducibili alle nostre sensazioni, e non è neppure il mondo delle idee, riducibili al nostro pensiero, ma la realtà viva degli esseri considerati nelle loro interiori relazioni esistenziali; questa filosofia non si occupa dell’ordine esterno dei fenomeni, ma dell’ordine interno degli esseri e della loro vita, ordine che è determinato dal loro rapporto con l’essere originario. Ovviamente, anche il misticismo, come ogni filosofia, si muove nell’ambito delle idee e dei pensieri, ma sa che questi pensieri hanno significato solo nella misura in cui si riferiscono a ciò che per loro tramite viene pensato e che già di per se stesso non è pensiero ma più che pensiero. La filosofia accademica, invece, o confonde l’essente con questo o quel tipo di essere, cioè di rappresentazione, o semplicemente nega la possibilità stessa di conoscere l’essente. La filosofia mistica, per un verso, sa che ogni essere è soltanto un modo di rappresentazione dell’essente e non l’essente; per un altro verso, e contro l’affermazione scettica secondo cui l’uomo non può conoscere nulla salvo la rappresentazione, essa mostra che l’uomo stesso è qualcosa di più di una rappresentazione o di un essere e che, in questo senso, pur senza uscire da se stesso, può conoscere qualcosa dell’essente.

Col misticismo si chiude il cerchio delle possibili concezioni filosofiche, perché è evidente che ciò che è cercato dalla filosofia può[11] avere la propria realtà o nel mondo esterno – cioè nell’oggetto conosciuto in quanto tale – o in noi stessi – cioè nel soggetto in quanto tale - o, da ultimo, in se stesso, indipendentemente da noi e dal mondo esterno, una quarta ipotesi è evidentemente impensabile. E se le due prime concezioni, che formano la filosofia accademica, non possono essere accettate in quanto si autoconfutano, ne consegue che non ci resta altro da fare se non rinunciare del tutto alla ricerca della verità o accettare questa terza concezione come fondamento della filosofia autentica. Infatti, se la verità, che non può essere trovata né nel mondo esterno né in noi stessi, può appartenere eo ipso soltanto alla realtà propriamente trascendente del principio primo assoluto e se ciò nonostante, come afferma lo scetticismo, noi non possiamo conoscere questa realtà trascendente, ciò significa che noi non possiamo conoscere la verità in generale; ma in questo modo gli argomenti dello scetticismo contro la possibilità della filosofia mistica si rivolgono per ciò stesso contro qualsiasi ricerca della verità, contro qualsiasi filosofia e, in ultima analisi, anche contro qualsiasi forma di conoscenza.

La conoscenza mistica[12], così, è necessaria per la filosofia, perché, se si prescinde da essa, la filosofia porterà sempre ad un identico assurdo, vuoi nella forma dell’empirismo coerente, vuoi nella forma del razionalismo coerente. Ma questa conoscenza mistica può essere solo il fondamento della filosofia autentica, esattamente come l’esperienza esterna funge da fondamento per la filosofia empirica, e il pensiero logico funge da fondamento del razionalismo; di per se stessa, invece, la conoscenza mistica non costituisce ancora il sistema della filosofia autentica o sintetica, di quella filosofia che ho chiamato conoscenza integrale o libera teosofia. Questo sistema, per il suo concetto stesso, deve essere libero da ogni forma di esclusivismo e di unilateralità, mentre il misticismo, preso nel suo isolamento, può anche essere ed effettivamente è qualcosa di esclusivo, appunto in quanto afferma la sola conoscenza immediata, una conoscenza che ha la forma dell’assoluta certezza interiore. È ovvio che è proprio su questa certezza che deve fondarsi la conoscenza autentica, ma per esser piena o integrale essa non può poi accontentarsi di questo (come fa invece il misticismo esclusivo): le è necessario inoltre, in primo luogo, sottoporsi alla riflessione della ragione, ricevere una giustificazione dal pensiero logico e, in secondo luogo, ricevere una conferma da parte dei fatti empirici. Pur confutando i falsi principi e le conclusioni assurde dell’empirismo e del razionalismo, la filosofia autentica deve racchiudere in sé il contenuto oggettivo di queste correnti in qualità di elementi secondari o subordinati. Infatti, se la conoscenza integrale nel suo complesso è la sintesi della filosofia con la teologia e con la scienza, è evidente che questa ampia sintesi deve essere preceduta da una ancora più stretta sintesi ad essa corrispondente nell’ambito della filosofia stessa, e cioè dalla sintesi delle sue tre correnti: il misticismo, il razionalismo e l’empirismo. L’analogia qui è indiscutibile: il misticismo corrisponde alla teologia, e l’empirismo alla scienza positiva, mentre il razionalismo si distingue per un carattere astratto propriamente filosofico, in quanto appunto si limita al puro pensiero filosofico, laddove il misticismo cerca i propri fondamenti nei dati della religione, e l’empirismo li cerca nei dati della scienza positiva.

Nel sistema della conoscenza integrale o libera teosofia il rapporto che intercorre tra i tre elementi filosofici è determinato dall’analogia appena ricordata. Il misticismo, per il suo carattere assoluto, ha un significato primario, in quanto definisce il principio supremo e il fine ultimo della conoscenza filosofica; l’empirismo, per il suo carattere materiale, funge da base esteriore, e nello stesso tempo è anche l’applicazione o realizzazione ultima dei principi superiori; mentre l’elemento razionalista, propriamente filosofico, per il suo carattere prevalentemente formale, è lo strumento o il nesso comune di tutto il sistema.

Da quanto si è detto è chiaro che la libera filosofia o conoscenza integrale non è una fra le tante correnti o fra i tanti possibili tipi di filosofia, ma deve costituire lo stadio supremo di tutta la filosofia, sia nella sintesi interna delle sue tre correnti principali, il misticismo, il razionalismo e l’empirismo, sia nel suo nesso più ampio e generale con la teologia e la scienza positiva[13]. Obbedendo alla legge generale dello sviluppo storico, la filosofia passa attraverso tre stadi fondamentali, perfettamente corrispondenti a quelli che erano stati indicati nel primo capitolo per tutta la sfera delle conoscenza ( così come per le altre sfere). Il primo momento è caratterizzato dal dominio esclusivo del misticismo, che mantiene in uno stato di latenza o di fusione l’elemento razionalista e quello empirico (ciò che coincide con il dominio complessivo della teologia); nella seconda fase questi elementi si dividono, la filosofia si disgrega in tre correnti o tipi distinti che aspirano all’autoaffermazione assoluta e, quindi, alla negazione reciproca; qui, in corrispondenza con la generale disgregazione della sfera teoretica in teologia, filosofia astratta e scienza positiva, in lotta fra di loro, abbiamo allora l’apparizione di misticismo unilaterale, razionalismo unilaterale ed empirismo unilaterale. Nel terzo momento essi giungono ad una libera sintesi interiore che serve da base per la sintesi complessiva dei tre gradi della conoscenza e poi, anche, per la sintesi universale di tutta la vita umana nel suo complesso. Se l’unità nella sfera della conoscenza, determinata necessariamente dal principio teologico o mistico, viene da noi definita nel suo complesso come teosofia ( il che significa, per essere più esatti, che la conoscenza nella sua unità è teosofia), ne consegue che l’unità sintetica suprema del terzo momento ( a differenza dell’unità coatta o confusa del primo momento) può essere caratterizzata col nome da me proposto di libera teosofia o conoscenza integrale.

Per la sua definizione generale, l’oggetto della conoscenza integrale è il veramente essente, considerato sia in sé sia nei suoi rapporti con la realtà empirica del mondo soggettivo ed oggettivo, di cui esso è il principio primo assoluto. Donde viene poi la suddivisione di tutto il sistema filosofico della conoscenza integrale in tre parti organiche. Infatti, una volta che nell’oggetto della filosofia siano dati due elementi, e cioè il principio primo assoluto e la realtà secondaria che da esso deriva, è ovvio che questi due elementi possono essere pensati solo sotto tre rapporti. In primo luogo, nella loro unità immediata, in secondo luogo nella loro contrapposizione e, in terzo luogo, nella loro unità o sintesi attuale, che è unità nella distinzione. Abbiamo così tre scienze filosofiche: la prima considera il principio assoluto nelle sue caratteristiche proprie, universali e necessarie (e quindi aprioriche), tra le quali quella di un’altra esistenza finita rientra solo potenzialmente: è il momento dell’unità immediata; la seconda considera il principio assoluto in quanto produce o pone fuori di sé la realtà finita: è il momento della divisione; la terza, da ultimo, ha come proprio oggetto il principio assoluto in quanto riunisce a sé il mondo finito in un’unità sistematica e attuale. Questa tripartizione della filosofia, derivando dalla sua natura stessa, ha un’origine molto antica e in questa o quella forma si incontra in tutti i sistemi compiuti e dotati di un minimo di profondità; ogni sistema singolo infatti, essendo in realtà soltanto una manifestazione unilaterale di uno dei vari momenti della conoscenza filosofica, tende di per ciò stesso a presentare tutta la filosofia nel suo complesso partendo dal proprio limitato punto di vista[14].
Per queste tre parti costitutive della libera teosofia manterrò i nomi tradizionale: logicametafisica ed etica; per differenziarle invece dalle parti corrispondenti degli altri sistemi filosofici utilizzerò i termini: logica organicametafisica organica ed etica organica[15].


1 Il testo seguito per la traduzione ha qui un “celi” (“scopo”) che in base al contesto (nella parte precedente della frase si parla di un “questione esclusivamente accademica”) è un evidente errore di stampa e che abbiamo emendato in base ad altre edizioni con “delo” (“questione”). Ndc

2 Solov’ëv fa qui un gioco di parole che non può essere reso in italiano in quanto non usa come al solito il solo prestito “filosofija”, ma anche il calco slavo “ljubomudrie” (da “ljubov’, amore” e “mudrost’, sapienza”). Ndc

3 Solov’ëv fa qui riferimento ad una tradizionale etimologia di “chimica” che argomenta sulla base di un antico nome greco dell’Egitto, Χημία, cioè, appunto, “terra nera”. Ndc

4 In questo capitolo e nei successivi Solov’ëv insiste in maniera molto netta sulla differenza tra i concetti di “suščee” (participio presente del verbo byt’, essere”) e di “bytie, essere”; in quanto tali, questi termini russi potrebbero anche essere resi entrambi con l’italiano “essere”, e spesso si è fatto così (precisando magari “essere in quanto tale” o “essere assoluto” con delle aggiunte che a volte sono fatte anche da Solov’ëv – si vedano in questo senso gli stessi schemi dei capitoli successivi – e che in questo senso, però, non precisano più nulla o complicano la questione, perché esiste anche un “assoluto” in quanto tale, ecc.), finendo in tal modo col non rispettare più l’intenzione di Solov’ëv, che noi abbiamo cercato di seguire, da qui in avanti, traducendo “suščee” con un “essente” che, con la sua disarmante letteralità, dovrebbe in qualche maniera suggerire l’idea del carattere più personale e di realtà vivente che ha in Solov’ëv questo concetto. Ndc

5 In latino nel testo. Ndc

6 Il testo seguito per la traduzione ha qui un “proizvodjaščaja” (“che produce”) che è un evidente errore di stampa e che abbiamo emendato in base alle altre edizioni con “proizvodjaščija”.Ndc

7 Le parentesi quadre sono di Solov’ëv. Ndc

8 Il testo seguito per la traduzione ha qui un “kak” (“come”) che è un evidente errore di stampa e che abbiamo emendato in base alle altre edizioni con “akt”. Ndc

9 La necessità logica che riduce al nulla l’idealismo coerente è stata illustrata da molti, ad esempio (per citare solo l’ultimo), da Hartmann, nel suo {Kritische} Grundlegung des transcendentalen Realismus {Berlin 1875}. Questa necessità può essere negata solo da hegeliani dogmatici ormai intellettualmente morti.

10 Lo scetticismo è la semplice negazione di qualsiasi filosofia determinata (in quanto anche il dubbio è una negazione, e cioè la negazione della certezza e della determinazione), e perciò è sbagliato considerarlo (come fanno invece molti) un tipo o una corrente filosofica particolare.

11 Il testo seguito per la traduzione ha qui un “non può” che ci è parso un evidente errore di stampa e che abbiamo emendato in base ad altre edizioni eliminando la negazione. Ndc

12 Per ora utilizzo questo termine in modo esclusivamente negativo; il suo contenuto positivo, infatti, potrà essere indicato solo in seguito.

13 La libera teosofia rappresenta in questo senso l’esatto contrario dello scetticismo: come quest’ultimo è la negazione di qualsiasi filosofia determinata, così essa è l’unità onnitotale di tutte le filosofie.

14 Ciò deve essere detto in particolare della filosofia di Hegel che, nella sua sfera di pensiero formale puramente logico, è assolutamente piena e compiuta. È per questo, tra l’altro, che le formule generali dell’hegelismo resteranno sempre come formule eterne delle filosofia.

15 Il significato preciso di questi termini sarà spiegato a suo luogo.

Vladimir Solov’ëv, La conoscenza integrale, tr. it. e note di Adriano dell’Asta, La casa di matriona, Seriate 1998, pp. 35-49.