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La causalità della natura

Max Planck
1932

La conoscenza del mondo fisico

Max Planck ci offre una riflessione sulla causalità degli eventi della natura, sottolineando la differenza tra il mondo sensibile nel quale in nessun caso è possibile prevedere con esattezza un evento fisico, e “l’immagine fisica del mondo” ove gli eventi seguono leggi causalmente determinate. Di qui la nascita della fisica quantistica come risposta al bisogno di dare un senso all’imprecisione di calcolo di un evento della fisica classica, attribuendo questa imprecisione alla differenza tra l’immagine del mondo e il mondo sensibile. Infine ci invita ad una riflessione sulla perenne ricerca di “perché?” della scienza, testimonianza dell’apertura dello spirito umano alla ricchezza di un reale sempre più grande delle nostre rappresentazioni.

I recenti sviluppi della fisica ci hanno insegnato che occorre moderare alquanto le superbe speranze che i brillanti successi dell’indagine fisica avevano fatto riporre nelle nostre possibilità di approfondire la conoscenza della natura, ed hanno specialmente mostrato che è impossibile dare una portata generale, nella formulazione classica in uso finora, alla legge di causalità, perché questa è definitivamente fallita nella sua applicazione al mondo degli atomi. Quindi chiunque abbia interesse per il senso ed il significato dell’indagine scientifica si trova di fronte al compito urgente di sottoporre a nuovo esame l’intima essenza delle leggi naturali, e soprattutto di studiare la natura del concetto di causa più profondamente di quanto non si sia fatto finora.

Oggi non è più lecito limitarsi ad annoverare la legge di causalità fra le categorie, come ha fatto Kant, quale espressione della validità di leggi inderogabili che governano tutto ciò che avviene, quale forma di intuizione senza cui non siamo in grado di raccogliere esperienze. Infatti il principio di Kant, che certe categorie costituiscono a priori il fondamento di ogni nostra esperienza, anche se destinato a rimanere intangibile per tutti i tempi, non dice ancor nulla circa il significato speciale delle singole categorie; ed il fatto che recentemente si sia riconosciuta non solo la possibilità, ma la necessità di ampliare gli assiomi della geometria euclidea, che Kant annoverava fra le categorie, ha reso i fisici molto prudenti a questo riguardo. Per procedere senza prevenzioni non ci vogliamo legare a presupposti pericolosi, e cercheremo anzitutto un punto di partenza durevolmente sicuro per inserirvi il concetto di causa.

Quando si parla del rapporto causale fra due avvenimenti successivi si intende indubbiamente con ciò un certo concatenamento, conforme ad una legge, dei due avvenimenti, dove il primo avvenimento è definito causa ed il successivo effetto. In che consiste questa particolare concatenazione? C’è un segno infallibile che un certo avvenimento che ha luogo in natura sia dovuto causalmente ad un altro?

È una questione vecchia come la scienza della natura, anzi, come la scienza in generale, e la circostanza che essa venga sempre posta di nuovo sul tappeto dimostra che anche oggi non le si è ancora trovata una soluzione definitiva. Non fa piacere constatarlo, ma ci consoleremo pensando che non può essere diversamente. La speranza che si possa mai riuscire a formulare nettamente a priori il concetto di causa, ed a fondare poi su questa definizione una ricerca della validità della legge causale nella natura, doveva già parere ingenua nei tempi precedenti l’attuale, ma oggi, dato lo sviluppo assunto dalle scienze esatte, non può essere definita altrimenti che pazzesca. Le scienze naturali, come tutte le scienze, non partono già da concetti fondamentali fissi cercando come essi siano realizzati nel mondo che ci circonda, ma procedono proprio nella maniera opposta. Tutti noi uomini siamo stati lanciati nella vita senza esservi preparati, senza previa intesa, e per orientarci in questa vita che ci è stata concessa cerchiamo di ordinare le nostre esperienze, formando come meglio possiamo, coll’aiuto delle nostre attitudini intellettuali innate, certi concetti appropriati agli avvenimenti da noi vissuti o che dovremo vivere. Che in questo procedere siano inevitabili molto arbitrio e molta indeterminatezza è ovvio, ed è continuamente confermato da innumerevoli fatti in tutti i campi della scienza. Non ho che da accennare alla circostanza che perfino nella più esatta di tutte le scienze, la matematica, ancor oggi si discute più vivamente che mai circa l’origine ed il significato dei concetti fondamentali. Se questo succede per i concetti matematici, nessuno potrà attendersi che sia tanto facile fissare il concetto di causa nella natura in modo valevole per tutti i tempi e per tutte le civiltà.

Eppure è proprio l’interesse dell’umanità pensante per la questione dell’essenza e della validità della legge causale, interesse che non è mai venuto meno e presentemente al contrario sta fortemente aumentando, quello che ci fa sospettare che il concetto di causa sia qualcosa di veramente fondamentale, sia un concetto che in sostanza non dipende dai sensi umani o dall’intelligenza umana, e che si addentra colle sue radici in un mondo reale inaccessibile al diretto controllo scientifico. Nessuno infatti dubiterà che, se la nostra terra sprofondasse con tutti i suoi abitanti, i processi cosmici continuerebbero ad obbedire alle loro leggi causali, benché nessun uomo sia in grado di controllare il senso e la plausibilità di questa affermazione.

Comunque sia, l’unico mezzo che possediamo per andare in traccia della vera essenza della causalità consiste nel partire dal mondo dei fatti quale ci è dato, cioè dalle nostre esperienze, elaborandole e generalizzandole convenientemente ed eliminando possibilmente tutti gli elementi antropomorfi commisti, in modo di avvicinarci gradatamente al concetto obbiettivo di causalità.

Dalle numerose ricerche impostate finora su questa questione risulta che il modo più sicuro per avvicinarci al concetto di causa è quello di porlo in connessione colla nostra capacità, acquisita e controllata per mezzo della nostra quotidiana esperienza, di prevedere gli avvenimenti futuri. Infatti per provare che due processi qualunque sono in nesso causale fra di loro, non c’è mezzo più inoppugnabile che il mostrare che quando si è verificato uno dei due processi il verificarsi dell’altro può sempre essere dedotto in antecedenza. Lo sapeva già quell’agricoltore che dimostrò ad oculos in modo lampante ai contadini increduli il nesso causale fra concime artificiale e fertilità del terreno. I contadini non volevano credere che la crescita rigogliosa del trifoglio nel campo del padrone fosse dovuta al concime artificiale, e cercavano qualche altra ragione. Allora il padrone fece tracciare sul proprio campo alcune strisce sottili a forma di lettere alfabetiche e le concimò intensamente lasciando inconcimato il resto del terreno. In primavera, quando l’erba spuntò, ognuno poté leggere, scritta chiaramente dai trifogli, la frase: «Questa striscia è stata concimata con gesso».

Io voglio quindi usare come punto di partenza per ogni ulteriore considerazione il seguente principio generale: un evento è causalmente determinato quando può essere previsto con sicurezza. Con ciò naturalmente si intende dire soltanto che la possibilità di fare una esatta previsione del futuro è un indice infallibile dell’esistenza di un vincolo causale, e non già che essa sia la stessa cosa che questo vincolo. Rammentiamoci il noto esempio del giorno e della notte. Di giorno si può predire con sicurezza lo scendere della notte e dedurne che la notte ha una causa. Ma non per questo riterremo che il giorno sia la causa della notte. D’altra parte capita spesso che venga ammessa la possibilità di un vincolo causale in casi in cui è assolutamente esclusa la possibilità di una esatta previsione. Non c’è che da rammentare i pronostici metereologici. Che non ci sia da fidarsi dei profeti del tempo è proverbiale, eppure non c’è metereologo colto che non ritenga causalmente determinati i processi atmosferici. Il principio che abbiamo scelto come punto di partenza possiede dunque soltanto un carattere provvisorio. Per rintracciare l’essenza del concetto di causa occorre scavare alquanto più in profondità.

Nel caso della previsione del tempo è naturale pensare che l’incertezza sia dovuta soltanto alla grandezza ed alla complessità dell’oggetto in questione, l’atmosfera. Se di questa isoliamo una piccola parte, per esempio un litro d’aria, ci è assai più facile predire esattamente il suo comportamento di fronte ad influenze esterne, quali la compressione, il riscaldamento, l’inumidimento, ecc. Conosciamo delle leggi fisiche precise che ci permettono di indicare in antecedenza con discreta sicurezza i risultati delle ricerche intraprese per misurare l’aumento della pressione e della temperatura, la condensazione ecc.

Tuttavia per quanto semplici siano le condizioni scelte e per quanto fini siano gli strumenti di misura adoperati, non si riuscirà mai ad ottenere una concordanza assolutamente esatta, in tutte le cifre decimali, fra il risultato fornito dalle misure e quello calcolato in antecedenza. Rimane sempre un certo residuo di imprecisione, contrariamente a quanto avviene nei calcoli di natura puramente matematica (la radice quadrata di 2, per esempio, può essere indicata esattamente con quante si vogliono cifre decimali). E ciò che vale per i processi meccanici e termici si verifica in tutti i campi della fisica, anche per i processi elettrici ed ottici.

Quindi siamo costretti da tutte le esperienze di cui disponiamo a riconoscere come un fatto stabilito quello espresso dal seguente enunciato: in nessun caso è possibile prevedere con esattezza un evento fisico.

Se raffrontiamo questo enunciato con quello fissato come punto di partenza (cioè che un evento è causalmente determinato quando può essere previsto con sicurezza), ci troviamo di fronte ad un dilemma scomodo, ma inevitabile. O ci atteniamo alla lettera dell’enunciato di partenza, ed allora non esiste in natura un solo caso in cui possa essere affermato un vincolo causale, oppure esigiamo a priori che abbia valore una rigida causalità, ed allora siamo costretti a sottoporre ad una certa modificazione l’enunciato di partenza.

Ci sono attualmente molti fisici e molti filosofi che scelgono la prima alternativa: li chiamerò indeterministi. Secondo loro non c’è in natura una vera e propria causalità, non ci sono leggi rigorose. Queste vengono soltanto simulate dalla presenza di certe regole valevoli sovente con grandissima approssimazione, ma mai con assoluta esattezza. Per principio l’indeterminista cerca una radice di natura statistica in tutte le leggi fisiche, anche nella gravitazione, anche nell’attrazione elettrica; per lui sono tutte leggi di probabilità che si riferiscono solamente a valori medi tratti da numerose osservazioni simili, ma che per le singole osservazioni non posseggono che una validità approssimativa ed ammettono eccezioni.

Un bell’esempio di legge statistica è la dipendenza della pressione, esercitata da un gas sulla parete del recipiente che lo contiene, dalla densità del gas e dalla temperatura. La pressione del gas è provocata dal continuo rimbalzare contro le pareti del recipiente delle molecole del gas, enormemente numerose, che volano irregolarmente e velocissimamente di qua e di là. Dal calcolo sommario della forza complessiva esercitata dagli urti delle molecole risulta che la pressione sulla parete del recipiente è presso a poco proporzionale alla densità del gas e alla media dei quadrati delle velocità delle molecole, e ciò concorda abbastanza bene colle misurazioni se si considera la temperatura come una misura della velocità molecolare.

Questa teoria è confermata dall’esame delle oscillazioni temporanee della pressione che si constatano quando si considera una piccolissima parte della parete del recipiente, per esempio la miliardesima parte di un millimetro quadrato. Può passare molto tempo prima che una molecola colpisca proprio questo tratto di superficie; può anche avvenire che questo tratto sia talora colpito da due o tre molecole l’una dopo l’altra, come porta il caso, e questo spiega perché la pressione del gas, su un minimo tratto di superficie, non sia affatto uniforme e costante, ma vada soggetta ad oscillazioni irregolari. La legge della pressione vale soltanto per grandi superfici della parete, su cui urtano molte molecole, perché allora le irregolarità si compensano.

Le oscillazioni prodotte dagli urti irregolari delle molecole si osservano dovunque delle molecole in rapido movimento vengono in contatto con corpi facilmente movibili, come le particelle sospese in un liquido, a cui le molecole del liquido imprimono i movimenti browniani, e le bilance molto sensibili, che non si fermano mai ma compiono continuamente piccole oscillazioni irregolari attorno alla loro posizione di equilibrio.

Un altro esempio di leggi statistiche ci è offerto dai fenomeni di radioattività. Una sostanza radioattiva emette continuamente, in conseguenza della spontanea disintegrazione dei suoi atomi, una quantità di particelle di carica positiva o negativa. Per spazi di tempo abbastanza lunghi si può parlare di una emissione uniforme. Ma in piccoli spazi di tempo, che non superano considerevolmente l’intervallo medio fra due emissioni successive, c’è una completa irregolarità.

Analogamente alle leggi dei gas ed alle leggi della radioattività, anche tutte le altre specie di leggi fisiche vengono dagli indeterministi ricondotte in ultima analisi al caso. Per loro in natura regna esclusivamente la statistica, ed il loro scopo è quello di costruire la fisica sul calcolo delle probabilità.

Ma in realtà la fisica finora si è sviluppata in base al principio opposto. Essa ha scelto la seconda delle due suddette alternative. Per poter conservare la legge causale in tutto il suo rigore, ha cioè modificato alquanta l’enunciato iniziale («un evento è causalmente determinato quando può essere previsto con sicurezza») dando un significato un po’ diverso alla parola «evento». Come evento la fisica teorica non considera un singolo processo di misurazione, che contiene sempre elementi casuali ed inessenziali, ma un processo puramente ideale; essa mette al posto del mondo sensibile, quale ci è dato immediatamente dai nostri organi di senso e dagli strumenti di misura, che lavorano come organi di senso più acuti, un altro mondo, la cosiddetta «immagine fisica del mondo», che è una costruzione ideale fino ad un certo punto arbitraria, una specie di modello creato allo scopo di uscire dall’incertezza da cui ogni misura è gravata e di precisare nettamente i concetti.

Perciò in fisica ogni grandezza misurabile (lunghezza, tempo, massa, carica ecc.) ha un duplice significato, secondo che la si considera come un dato direttamente fornito da una misurazione oppure la si immagina trasferita sul modello che noi chiamiamo immagine fisica del mondo. Nel primo significato essa non è mai definibile con precisione, e quindi non è mai esprimibile con una cifra assolutamente determinata, nell’immagine fisica del mondo possiede invece un simbolo matematico con cui si può operare secondo regole precise. Se in fisica parliamo dell’altezza di una torre e ci serviamo di un’equazione trigonometrica per calcolarla, intendiamo riferirci ad una grandezza ben definita. Ma la misurazione effettiva della altezza non ci dà una grandezza determinata. Dunque l’altezza ideale, esattamente calcolabile, e l’altezza misurata non sono la medesima cosa. Lo stesso dicasi per il periodo di oscillazione di un pendolo e per la luminosità di una lampada ad incandescenza. E parimenti ogni costante universale, come la velocità della luce nel vuoto o la carica di un elettrone, nell’immagine fisica del mondo è diversa da qualunque misura realmente eseguita. Nel primo significato è definita in modo assolutamente preciso, nel secondo invece è soltanto definita in modo impreciso. La distinzione chiara e conseguente fra le grandezze del mondo sensibile e le grandezze di ugual nome dell’immagine del mondo è indispensabile per avere le idee chiare. Senza di essa discutendo su questi problemi non ci si intenderà mai.

Non è affatto vero, come talora si sente dire, che l’immagine fisica del mondo contenga o debba contenere soltanto grandezze direttamente osservabili. Al contrario: nell’immagine del mondo non si incontrano grandezze realmente osservabili, ma solo simboli. L’immagine del mondo contiene perfino degli elementi che per il mondo sensibile non hanno che un significato indiretto, se pur l’hanno, come le onde dell’etere, le vibrazioni parziali, i sistemi di riferimento ecc. Questi elementi a tutta prima sembrano zavorra, ma si fa finta di nulla per il grande vantaggio che offre l’adozione dell’immagine del mondo, e che consiste nel rendere possibile l’applicazione di un rigoroso determinismo.

Certo l’immagine del mondo è soltanto un concetto ausiliario. In ultima linea, si capisce, ciò che conta sono gli eventi del mondo sensibile ed il loro calcolo preventivo, approssimato quanto più è possibile. Questo calcolo, nella teoria classica, procede nel seguente modo. L’oggetto preso dal mondo sensibile, per esempio un sistema di corpi materiali, è anzitutto simbolizzato in uno stato misurato, cioè è trasferito nell’immagine del mondo. Così si ottiene un ente fisico determinato in uno stato iniziale determinato. Analogamente le azioni che in seguito vengono esercitate sull’oggetto dall’esterno vengono sostituite nell’immagine fisica del mondo dai simboli corrispondenti. Per mezzo di questi dati il comportamento dell’ente è causalmente determinato per tutti i tempi e può essere calcolato con assoluta precisione mediante le equazioni differenziali della teoria. Così si ottengono le coordinate e le velocità di tutti i punti materiali dell’ente quali funzioni ben determinate del tempo. Se ora in un tempo successivo ritraduciamo nel mondo sensibile i simboli usati per l’immagine del mondo, abbiamo come risultato un collegamento di un evento successivo del mondo sensibile con un evento antecedente del mondo sensibile, e possiamo utilizzare l’evento antecedente per prevedere approssimativamente l’evento successivo.

Riassumendo possiamo dire: mentre nel mondo sensibile la previsione di un evento è sempre gravata da una certa imprecisione, nell’immagine fisica del mondo tutti gli eventi decorrono secondo leggi esattamente specificabili, sono causalmente determinati in modo rigoroso. Perciò mediante l’adozione dell’immagine del mondo - e qui risiede la sua importanza - l’imprecisione nella previsione di un evento del mondo sensibile è ridotta alla imprecisione del passaggio dell’evento dal mondo sensibile all’immagine del mondo, e della sua ritraduzione dall’immagine del mondo nel mondo sensibile.

La teoria classica si è poco curata di questa imprecisione. Ha rivolto la sua attenzione principalmente allo studio causale dei fenomeni nell’immagine del mondo e vi ha ottenuto i suoi maggiori successi. È perfino riuscita a trovare una spiegazione soddisfacente, in base all’ipotesi di una rigida causalità, per le oscillazioni irregolari della pressione dei gas e dei movimenti browniani, di cui sopra abbiamo parlato. Per gli indeterministi qui non c’erano veri problemi. Infatti, siccome questi cercano dietro ogni regola la mancanza di regola, ciò che li soddisfa completamente sono le leggi statistiche, ed essi si accontentano di ammettere che secondo leggi esclusivamente statistiche avvengano sia l’urto di due molecole che il rimbalzo di una molecola contro la parete del recipiente. Però quest’idea non è fondata su motivi plausibili, come non sarebbe fondato il dire che, siccome in un conduttore gli elettroni si raccolgono alla superficie, anche la carica di un singolo elettrone ha sede alla sua superficie. Invece i deterministi, che cercano una regola dovunque sembra che la regola manchi, furono posti di fronte al compito di costruire una teoria dei gas sulla premessa che l’urto di due molecole sia condizionato in modo rigidamente causale. La soluzione di questo compito fu l’opera del grande fisico Ludwig Boltzmann, e rappresenta uno dei più bei trionfi della fisica teorica. Infatti essa non solo conduce al principio, confermato dalle misure, che l’energia media delle oscillazioni attorno alla posizione di equilibrio è proporzionale alla temperatura assoluta, ma permette anche di calcolare con notevole esattezza il numero assoluto e la massa delle molecole che urtano mediante la misura di queste oscillazioni, usando per esempio una bilancia di torsione sensibilissima.

Dopo questi ed altri grandi successi parve fondata la speranza che l’immagine del mondo della fisica classica avrebbe sostanzialmente assolto al suo compito, e che le imprecisioni residuanti dopo la traduzione dal mondo sensibile e la ritraduzione nel mondo sensibile avrebbero gradatamente perso importanza col progredire dell’affinamento dei metodi di misura. Questa speranza è stata di colpo annientata, e per sempre, dalla comparsa del quanto elementare di azione.

Siccome la teoria dei quanti è partita originariamente dalle radiazioni luminosa e termica, cominceremo qui coll’occuparci dei fenomeni di radiazione. Si può considerare come stabilito da numerosi fatti che in un raggio luminoso di determinato colore l’energia non si propaga sotto forma di una corrente uniforme e continua, ma per particelle isolate dette fotoni, la cui grandezza dipende soltanto dal colore della luce, e che volan via dalla sorgente di radiazione in tutte le direzioni colla velocità della luce, proprio come supponeva l’antica teoria newtoniana. Se l’intensità luminosa è forte i fotoni si succedono in tale ressa che in pratica agiscono come una corrente continua uniforme. Se invece, col crescere della distanza della sorgente luminosa, la densità di radiazione diventa più debole, i fotoni si allontanano l’uno dall’altro, come in un getto d’acqua che diventa sempre meno stipato finché finisce per sparpagliarsi in gocce isolate. Ciò che qui c’è di caratteristico è che col progressivo indebolimento dell’energia radiante i fotoni o gocce di energia non diventano progressivamente più piccoli, ma si succedono sempre più rari conservando uguale la grandezza.

L’applicazione del modo di ragionare a questi processi conduce ad una grave difficoltà. Se ad esempio un raggio luminoso di determinato colore cade in una determinata direzione sopra una lastra di vetro ben levigata, una parte della luce viene riflessa, un’altra, per esempio tripla della prima, attraversa la superficie della lastra. L’esperienza ci dice che questo comportamento è del tutto indipendente dalla intensità della luce, cioè dal numero dei fotoni che colpiscono la lastra. Se questa è colpita da molti fotoni, per esempio da un milione, non è difficile indicare il numero dei fotoni riflessi e dei fotoni che penetrano nella lastra: 1/4 di milione viene riflesso, 3/4 di milione penetrano. Ma se, in un tenuissimo raggio luminoso, un solo fotone colpisce la lastra, esso si troverà in un bell’imbarazzo quando dovrà decidere se si deve lasciar riflettere o se deve penetrare. È infatti escluso che esso si divida in quattro, come farebbe comodo pensare.

Ma c’è di peggio. Mentre nel caso precedente ci si può forse ancora aiutare coll’ipotesi che nell’incertezza possa entrare in gioco qualche fattore ancora ignoto, capace di influenzare la decisione del fotone in un senso o nell’altro, nel caso che segue questa speranza non c’è più. Alcuni colori vengono prevalentemente riflessi dalla lastra, ed altri vengono prevalentemente lasciati passare. La lastra, se è colpita da luce bianca, appare colorata sia nella luce riflessa che nella luce rifratta. Ciò si spiega perfettamente mediante la teoria ondulatoria della luce, ammettendo che la luce riflessa dalla superficie anteriore della lastra interferisca con quella riflessa dalla faccia posteriore, cioè che questi due raggi riflessi si rinforzino o si attenuino vicendevolmente secondo che la cresta dell’onda di un raggio coincide colla cresta o coll’avvallamento dell’onda di un altro raggio. Essendo la lunghezza d’onda diversa per i diversi colori, per i diversi colori risultano delle differenze, e le differenze così calcolate concordano perfettamente coll’esperienza. Questo fenomeno si osserva anche colle più deboli intensità luminose.

Che cosa avviene ora quando un fotone isolato colpisce la lastra? Il fotone deve interferire con sé stesso, perché altrimenti la sua lunghezza d’onda non potrebbe esercitare nessuna influenza.

A tale scopo dovrebbe dividersi, ciò che è impossibile. Si vede dunque che tutta la maniera di considerare la cosa è insostenibile. In meccanica la teoria dei quanti conduce alle stesse conseguenze che in ottica. Infatti anche i più piccoli punti materiali, gli elettroni, si comportano come i fotoni e interferiscono con sé stessi. Un elettrone con determinata velocità corrisponde esattamente, a questo riguardo, ad un fotone di determinato colore, e se colpisce in una data direzione una lastra di cristallo vi penetra o ne viene riflesso più o meno facilmente a seconda della sua velocità, e questo fatto si spiega perfettamente in tutti i particolari se si tien conto della lunghezza d’onda che corrisponde alla sua energia. Perciò il problema di conoscere quale strada segua realmente l’elettrone quando colpisce la lastra è, come nel caso del fotone, non solo insoluto, ma insolubile.

La difficoltà fondamentale di determinare la posizione di un elettrone che si muove con determinata velocità trova la sua espressione generale nella cosiddetta relazione di indeterminazione di Werner Heisenberg, caratteristica della fisica dei quanti, la quale dice fra l’altro che quanto più esattamente si misura la posizione di un elettrone nello spazio, tanto meno esatta riesce la misura della velocità, ed inversamente. Possiamo render chiara la cosa nel modo che segue. Per misurare la posizione di un elettrone in volo, dobbiamo vederlo, e per vederlo dobbiamo illuminarlo, cioè dobbiamo farci cadere della luce sopra. Ma i raggi luminosi che colpiscono l’elettrone gli impartiscono un urto e modificano quindi la sua velocità in modo incontrollabile. Quanto più precisa deve essere la determinazione della posizione dell’elettrone, tanto minore è la lunghezza d’onda della luce che dobbiamo adoperare, tanto più forte diventa l’urto e quindi tanto maggiore l’imprecisione nella determinazione della velocità.

Si capisce che in base a questo fatto è per principio impossibile trasferire nel mondo sensibile, colla precisione voluta, i valori contemporanei delle coordinate e della velocità di punti materiali, cardine dell’immagine del mondo della fisica classica; e da ciò sorge, per chi voglia applicare rigorosamente il principio di causalità, una difficoltà che ha già indotto alcuni indeterministi a dichiarare definitivamente superata, in fisica, la legge causale. Però, a guardar meglio, questa conclusione, dovuta allo scambio dell’immagine del mondo col mondo sensibile, si dimostra per lo meno affrettata. Per uscire dalla difficoltà è infatti assai più plausibile ammettere che la questione del valore contemporaneo delle coordinate e della velocità di un punto materiale, come quella della traiettoria di un fotone di determinato colore, non abbia alcun senso fisico. È una via di uscita che in casi consimili ha già reso eccellenti servigi. L’impossibilità di risolvere una questione senza senso non può naturalmente essere posta a carico della legge causale come tale, ma soltanto delle premesse che hanno condotto ad impostare la questione: nel nostro caso a carico delle premesse su cui è costruita l’immagine fisica del mondo. Ed essendo fallita l’immagine del mondo classico, bisogna sostituirla con un’altra.

Così è infatti avvenuto. La nuova immagine del mondo della fisica quantistica è sorta proprio dal bisogno di rendere possibile l’applicazione di un rigido determinismo anche col quanto di azione. A questo scopo quello che finora era stato l’elemento primo dell’immagine del mondo, il punto materiale, deve essere spogliato del suo carattere elementare e disciolto in un sistema di onde materiali. Queste onde formano gli elementi della nuova immagine del mondo.

L’immagine del mondo della fisica quantistica sta a quella della fisica classica press’a poco come l’ottica ondulatoria di Huygens sta all’ottica corpuscolare o geometrica di Newton. Come quest’ultima in molti casi è sufficiente ed in altri fallisce, così la meccanica classica o corpuscolare non è più che un caso speciale della più generale meccanica ondulatoria. Al posto del classico punto materiale subentra un pacchetto d’onde infinitamente sottile, cioè un sistema di numerose onde che interferiscono fra di loro in modo da annullarsi reciprocamente dovunque nello spazio, eccezion fatta per il luogo dove si trova il punto materiale. Naturalmente le leggi della meccanica ondulatoria sono fondamentalmente diverse da quelle della meccanica classica del punto materiale, ma l’essenziale è che la grandezza caratteristica per le onde materiali, la «funzione d’onda ψ», è determinata completamente per tutti i luoghi e per tutti i tempi dalle condizioni iniziali e dalle condizioni al contorno secondo regole di calcolo ben definite, sia che ci si serva degli operatori di Schrödinger, o delle matrici di Heisenberg, o dei numeri q di Dirac.

Così, mediante l’adozione della funzione d’onda, si risolve anche la suaccennata difficoltà di sapere come si comporti un elettrone isolato quando colpisce una lastra di cristallo, se cioè esso venga riflesso o penetri nella lastra. L’elettrone incidente non si può dividere, ma ognuna delle onde incidenti messe al suo posto può dividersi, e così diventa possibile un’interferenza delle onde riflesse dalla superficie anteriore e di quelle riflesse dalla superficie posteriore della lastra, che prima era del tutto incomprensibile, ma ora avviene secondo leggi ben precisabili.

Nell’immagine del mondo della fisica quantistica il determinismo regna dunque altrettanto rigoroso che nella fisica classica, solo che i simboli usati sono diversi e si opera con altri precetti di calcolo. Perciò nella fisica quantistica, come prima nella fisica classica, l’imprecisione della previsione degli avvenimenti del mondo sensibile si riduce alla imprecisione del nesso fra immagine del mondo e mondo sensibile, cioè all’imprecisione della traduzione dei simboli dell’immagine del mondo nel mondo sensibile ed inversamente. Il fatto stesso che ci si adatti a questa doppia imprecisione prova quanto sia importante il compito di mantenere anzitutto in piedi il determinismo nell’immagine del mondo.

Chi giudica criticamente deve certo trovare assai alto il prezzo pagato per il salvataggio della rigida causalità. Infatti un semplice rapido sguardo mostra che nella fisica quantistica l’immagine del mondo si allontana molto dal mondo sensibile, e che la traduzione di un evento dall’immagine del mondo nel mondo sensibile ed inversamente è assai più difficile nella fisica quantistica che nella fisica classica. Qui il significato di ogni simbolo era senz’altro comprensibile: la posizione, la velocità, l’energia di un punto materiale erano determinabili più o meno direttamente per mezzo di misurazioni, e non si vedeva ragione per non ammettere che l’imprecisione residua sarebbe stata abbassata al disotto di ogni limite desiderabile col progressivo affinamento dei metodi di misura. Viceversa la funzione d’onda della meccanica quantistica non offre a primo aspetto nessun appiglio per un’immediata interpretazione del mondo sensibile. Il nome «onda», per quanto intuitivo ed opportunamente scelto, non ci deve illudere, e non dobbiamo dimenticare che il significato di questa parola nella fisica quantistica è ben differente da quello che essa possedeva nella fisica classica. In questa per onda si intendeva un processo fisico ben definito, un movimento percepibile coi sensi o un campo alternato elettrico accessibile ad una misurazione diretta. Qui invece questo termine indica soltanto la probabilità dell’esistenza di un determinato stato. Infatti ciò che si divide quando un fotone o un elettrone colpisce una lastra di cristallo, per produrre i fenomeni di interferenza, non è già lo stesso fotone o elettrone, ma è soltanto la probabilità della presenza del fotone o elettrone inscindibile. Solo quando è enorme il numero dei fotoni o degli elettroni incidenti, questa grandezza rappresenta un numero ben determinato di fotoni o di elettroni.

Queste considerazioni hanno spinto gli indeterministi a muovere un nuovo attacco contro la legge causale. E questa volta l’attacco sembra prometta effettivamente un successo positivo, perché da tutte le misure non si può ricavare per la funzione d’onda che un significato statistico. Cionondimeno anche questa volta ai propugnatori della rigida causalità si offre di nuovo la stessa via di salvezza di prima: ammettere cioè che il domandarsi quale sia il significato di un certo simbolo dell’immagine del mondo della fisica quantistica, per esempio di un’onda materiale, non abbia un senso determinato finché non si indica anche come si voglia fissare questo significato, in quale stato si trovi dunque lo speciale strumento di misura che si adopera per tradurre il simbolo nel mondo sensibile. Si parla quindi anche di un’azione causale dello strumento di misura adoperato, e si vuol dire con ciò che l’indeterminatezza di cui stiamo trattando è almeno in parte dovuta al fatto che l’ammontare della grandezza da misurare dipende secondo una certa legge dal modo con cui è effettuata la misura.

Effettivamente ogni misura, qualunque sia il metodo con cui è eseguita, porta sempre con sé una perturbazione più o meno grande del processo da misurare, come abbiamo già visto nell’esempio prima citato dell’elettrone volante, la cui traiettoria è disturbata tanto più sensibilmente dall’illuminazione indispensabile per la misura, quanto più l’illuminazione è viva. Se dunque una determinata onda materiale corrisponde una volta a questo, una volta a quel processo del mondo sensibile, ciò dipende dal fatto che la questione del significato sensibile dell’onda materiale non può essere risolta studiando l’onda materiale da sola, ma studiando come agiscono l’uno sull’altro l’onda materiale e lo strumento di misura.

Con questa ipotesi ausiliaria tutta la questione è però spostata su di un binario il cui ulteriore percorso è per ora all’oscuro. Infatti ora gli indeterministi possono a buon diritto porre il quesito se l’idea di una influenza causale dello strumento di misura sul processo da misurare ha veramente un senso ragionevole, dato che noi conosciamo il processo solo in quanto lo misuriamo e dato che con ogni nuova misura si effettua un nuovo intervento causale, cioè una nuova perturbazione del processo. Deve quindi per principio sembrare del tutto impossibile separare il «processo in sé» dall’apparecchio con cui è misurato.

Eppure con questa obbiezione non è ancor detta l’ultima parola. Infatti, come sa ogni cultore della fisica sperimentale, oltre ai metodi di controllo diretti esistono anche dei metodi indiretti, che hanno reso dei buoni servigi in molti casi dove i primi hanno fallito. Ma soprattutto io devo protestare contro l’opinione oggi assai diffusa, ed in apparenza assai plausibile, che una questione fisica non meriti di essere studiata se non quando si è stabilito in antecedenza che essa ammette una soluzione determinata. Se i fisici avessero sempre seguito questo precetto, non sarebbe mai stato impostato il celebre esperimento di Michelson e Morley per misurare la cosiddetta velocità assoluta della terra, e forse oggi non saremmo ancora in possesso della teoria della relatività. Se dunque il solo fatto di essersi occupati di una questione che oggi quasi tutti riconoscono esser priva di senso, come quella della velocità assoluta della terra, si è dimostrato fertilissimo per la scienza, tanto più deve mettere il conto di seguitare a studiare il problema dell’applicazione di una stretta causalità, sul cui più profondo significato gli atti non sono ancora chiusi, e che come nessun altro può render feconda la scienza.

Ma per che via si può ottenere una decisione? Evidentemente altro non resta che cominciare col prender le mosse da uno dei due punti di vista opposti, liberamente scelto, e vedere se esso conduce a conseguenze di qualche valore o inutilizzabili. In questo senso non c’è che da esser lieti che i fisici più direttamente interessati a questa vertenza si siano divisi in due campi, di cui l’uno propende per il determinismo e l’altro per l’indeterminismo. A quanto mi consta, gli indeterministi sono attualmente in maggior numero; tuttavia ciò è difficile da stabilire, e coll’andar del tempo la situazione può anche cambiare. C’è poi un terzo partito che ha assunto una posizione intermedia, ammettendo una rigida conformità alle leggi per ciò che riguarda certi concetti, quali la forza di attrazione elettrica e la gravitazione, ed attribuendo invece un valore puramente statistico per il mondo sensibile ad altri concetti, come quello di onda luminosa e di onda materiale. Però questa concezione per la sua mancanza di unità non può non apparire fin dall’inizio poco soddisfacente. Quindi preferisco per ora non tenerne conto e diffondermi ancora un poco solamente sui due punti di vista pienamente conseguenti.

L’indeterminista si accontenta di constatare che la funzione d’onda della fisica quantistica è esclusivamente una grandezza di probabilità; il suo bisogno di conoscenza è con ciò soddisfatto ed egli non chiede di più. Anche nei processi radioattivi gli basta constatare che per esempio di un certo composto di radio si disintegra in media un dato numero di atomi al secondo, e non chiede perché un atomo si disintegri proprio ora ed un atomo immediatamente vicino attenda forse mille anni per disintegrarsi. Viceversa una legge naturale determinata, come la legge di Coulomb dell’attrazione elettrica, gli pare un problema insoluto, perché egli non si può accontentare dell’espressione del potenziale di Coulomb, ma deve cercare eccezioni e non può darsi pace finché non è riuscito a stabilire quanto sia grande la probabilità che la forza devii di una certa quantità presa a piacere dal valore di Coulomb.

Il determinista in tutti questi punti la pensa proprio all’opposto. La legge di Coulomb dell’attrazione elettrica lo soddisfa completamente ed ha per lui carattere definitivo. Viceversa egli non vede nella funzione d’onda una grandezza di probabilità che fino a quando si fa astrazione dallo speciale apparecchio per mezzo del quale l’onda è prodotta o analizzata, e cerca una legge che governi rigorosamente i rapporti fra le proprietà della funzione d’onda ed i processi nei corpi che agiscono sull’onda o ne subiscono l’azione. A tale scopo deve naturalmente cominciare col fare oggetto di ricerca tutti questi corpi e la funzione d’onda, deve dunque trasportare nella sua immagine fisica del mondo tutto l’apparato sperimentale che serve a produrre le onde materiali (batteria ad alta tensione, filamento incandescente, preparato radioattivo) ed a misurarle (lastra fotografica, camera di ionizzazione, contatore a punta), con tutti i processi che vi si svolgono, e deve trattare tutti questi oggetti insieme come un campo unico, come un tutto chiuso.

Non già che il problema sia in tal modo risolto. Al contrario, esso diventa ancor più complesso. Infatti non potendo il sistema complessivo venire né spezzettato né esposto ad interventi esterni, se le sue caratteristiche non devono andare perdute, non ne è possibile un esame diretto. Sarà invece possibile stabilire ora delle nuove ipotesi riguardanti i processi interni, per esaminarne poi le conseguenze. In base a ciò che abbiamo detto è lecito tuttavia considerare come accertato che il quanto elementare di azione ha tracciato una barriera obbiettiva oltre la quale gli strumenti fisici di misura di cui disponiamo non servono più, e che ci impedirà per tutti i tempi di capire in modo completamente causale i più fini processi fisici «in sé», vale a dire indipendentemente dalla loro origine e dai loro effetti.

Così saremmo giunti alla fine delle nostre riflessioni, le quali ci hanno mostrato che anche dal punto di vista della fisica moderna non è affatto escluso che si possa eseguire lo studio rigidamente causale dei fatti naturali (dando alla parola «causale» il significato modificato che sopra abbiamo spiegato), benché non sia dimostrabile né a priori né a posteriori che ciò sia necessario. Tuttavia anche alla mente del determinista convinto, anzi, proprio alla mente del determinista convinto si affaccia qui un dubbio che gli impedisce di essere pienamente soddisfatto dell’interpretazione della causalità che abbiamo adottata. Infatti, anche se si dovesse riuscire a sviluppare ulteriormente il concetto di causa nel modo descritto, esso è gravato, nella formulazione da noi usata, da una deficienza fondamentale ed importantissima. Noi abbiamo cioè potuto applicare la visuale deterministica, e con un certo sforzo, a condizione di mettere al posto del mondo sensibile, che è un dato diretto, l’immagine fisica del mondo, che è una creazione della fantasia umana, di carattere provvisorio e variabile. È un espediente poco adatto ad un concetto fisico fondamentale, e c’è da domandarsi se non ci sia mezzo di dare al concetto di causa un significato più diretto e più profondo e di renderlo indipendente da ogni artificio umano, riferendolo non all’immagine fisica del mondo ma alle esperienze immediate del mondo sensibile. Dovremo certo tener fermo al nostro postulato iniziale che un evento è causalmente determinato quando può essere previsto con sicurezza, perché altrimenti verremmo meno al nostro principio di partire soltanto da esperienze effettive. Ma dovremo anche riconoscere come un dato di fatto il nostro secondo enunciato, che in nessun caso è possibile prevedere esattamente un evento. Ne segue allora, come prima, che per poter parlare di causalità nella natura dobbiamo apportare qualche modificazione al primo postulato. Fin qui tutto rimane dunque come prima. Ma la natura della modificazione che abbiamo intrapresa sopra può essere sostituita da un’altra completamente differente, in un certo senso perfino opposta.

Ciò che là modificavamo era l’oggetto della previsione: l’evento. Noi riferivamo cioè gli eventi non al mondo sensibile, che è un dato immediato, ma all’immagine del mondo, che è una finzione artificiale, e ne ottenevamo la possibilità di determinare esattamente gli eventi. Invece dell’oggetto possiamo anche modificare il soggetto della previsione: la mente che prevede. Vogliamo quindi nelle pagine che seguono rivolgere la nostra attenzione solamente al soggetto che prevede, continuando a considerare come oggetto della previsione gli eventi del mondo sensibile immediatamente dati, senza ricorrere all’artificio dell’immagine del mondo.

È facile vedere, come prima cosa, che la sicurezza della previsione è per larga misura dipendente dall’individualità di chi prevede. Per ritornare ai pronostici meteorologici, non è lo stesso se il tempo di domani è pronosticato da un incompetente, che non sa nulla della pressione atmosferica di oggi, della direzione del vento, della temperatura e dell’umidità dell’aria, o da un agricoltore pratico che osserva tutti questi dati ed inoltre dispone di una ricca esperienza, o infine da un cultore della meteorologia scientifica, che oltre ai dati ha a sua disposizione numerose carte meteorologiche di paesi vicini e lontani con precise indicazioni. L’incertezza della previsione diventa sempre minore se passiamo dal primo al secondo e poi al terzo di questi profeti. È ovvio ammettere che uno spirito ideale, capace di esplorare e comprendere i processi fisici di oggi dovunque ed in tutti i particolari, potrebbe predire il tempo di domani con piena sicurezza, e lo stesso dicasi della previsione di qualunque altro fatto fisico.

Questa ipotesi è una extrapolazione, una generalizzazione che non è sostenibile con ragionamenti logici ma che non può neppure essere confutata a priori, e che quindi è lecito giudicare non secondo la sua verità ma secondo il suo valore. Alla luce di questa concezione l’impossibilità di predire un evento con esattezza anche in un unico caso sembra, sia dal punto di vista della fisica dei quanti che dal punto di vista della fisica classica, una naturale conseguenza del fatto che l’uomo coi suoi organi di senso ed i suoi strumenti di misura è egli stesso parte della natura, alle cui leggi è sottomesso e da cui non può uscire, mentre questo legame non esiste per uno spirito ideale.

L’obbiezione che questo spirito ideale non è altro che un prodotto del nostro pensiero e che il nostro cervello è pure costituito di atomi che obbediscono alle leggi fisiche, non resiste ad una critica serrata. Infatti non può esservi dubbio che i nostri pensieri ci possono trasportare al di là di ogni legge naturale a noi nota e che noi possiamo dipingerci dei nessi che colla fisica vera e propria non hanno nulla a che fare. Chi sostiene che lo spirito ideale, non esistendo che nel pensiero umano, scomparirebbe dalla vita assieme a chi lo pensa, dovrebbe logicamente sostenere che il sole e tutto il mondo che ci circonda, unica fonte delle nostre conoscenze scientifiche, esistono soltanto nei nostri sensi, mentre invece ogni uomo assennato è convinto che il sole non perderebbe nulla della sua luminosità quand’anche tutto il genere umano morisse. Noi crediamo alla esistenza di un mondo esterno reale, benché esso si sottragga ad ogni indagine diretta. E parimenti nulla vieta di credere all’esistenza di uno spirito ideale, benché esso non possa mai essere oggetto di una ricerca scientifica.

Ci dobbiamo ben guardare dal considerare lo spirito ideale come un nostro pari e dal domandargli come si procura le conoscenze che gli permettono di predire con esattezza gli avvenimenti futuri. Potrebbe allora succedere all’indiscreto interrogatore di sentirsi rispondere colle parole che lo spirito della terra rivolge a Faust: «Tu somigli allo spirito che tu comprendi, non a me». E se costui si ostina nel dichiarare che l’idea di uno spirito ideale, se non illogica, è per lo meno superflua e priva di contenuto, gli si può opporre che non tutti i principi che si sottraggono ad una giustificazione logica sono privi di valore scientifico, e che egli col suo miope formalismo dissecca proprio quella sorgente a cui uomini come Galileo, Keplero e Newton e molti altri grandi fisici hanno nutrito il loro bisogno di ricerca scientifica. Per tutti questi uomini la dedizione consapevole o inconsapevole alla scienza era questione di fede, di fede imperturbabile in un ordinamento razionale dell’universo.

Questa fede non sì può certo imporre a nessuno, così come non si può prescrivere la verità o proibire l’errore. Ma già il semplice fatto che noi siamo in grado, almeno fino ad un certo punto, di sottoporre i futuri avvenimenti naturali al nostro pensiero e di piegarli alla nostra volontà, dovrebbe rimanere un enigma del tutto incomprensibile, se non si potesse almeno intravvedere una corta armonia fra il mondo esterno e lo spirito umano. Ed a rigor di logica è di secondaria importanza il conoscere fino a che profondità si estenda questa armonia. L’armonia più perfetta e la più rigorosa causalità culminano nell’immagine di uno spirito ideale che penetri col suo sguardo e comprenda appieno tutte le forze della natura e tutti i più fini processi della vita spirituale umana, nel presente, nel passato e nel futuro.

E che ne è allora della libera volontà umana? Forse che l’intuizione ora descritta non la sopprime, degradando l’uomo al livello di un automa senz’anima? Questa questione è troppo ovvia e troppo importante perché io possa esimermi dal dedicarvi qui qualche parola, per quanto io abbia già avuto spesso occasione di prender posizione al riguardo. Secondo me non esiste la minima contraddizione fra il dominio di una rigorosa causalità nel senso qui trattato e la libertà della volontà umana. La legge causale ed il libero arbitrio si riferiscono infatti a problemi ben differenti. Mentre, come abbiamo visto, per comprendere la stretta causalità nell’universo bisogna ricorrere all’ipotesi di uno spirito ideale che tutto scruta, la questione se la volontà umana sia libera o no è di esclusiva pertinenza della nostra coscienza e non può essere decisa che dal nostro io. Dire che la volontà dell’uomo è libera significa soltanto che l’uomo nel suo intimo si sente libero, ed egli solo può sapere se è veramente così. Non è in contraddizione con ciò la possibilità che i motivi del suo volere siano scrutati e compresi appieno da uno spirito ideale onniveggente. Chi si sente diminuito nella sua dignità morale da questa concezione dimentica da quale enorme altezza lo spirito ideale sovrasti la nostra intelligenza.

La prova più efficace dell’indipendenza della nostra volontà dalla legge causale si ha quando si tenta, aumentando la conoscenza che abbiamo di noi stessi, di determinare coll’aiuto della legge causale i motivi della nostra volontà e le nostre azioni. Un tale tentativo è a priori destinato a fallire, perché applicando la legge causale alla nostra volontà si acquistano delle conoscenze che agiscono a loro volta come motivi di volere e quindi modificano il risultato cercato. È un errore quindi attribuire l’impossibilità di predeterminare in modo puramente causale le nostre azioni ad una deficienza, correggibile col tempo, del nostro intelletto. Sarebbe lo stesso come se in fisica volessimo attribuire ad una incompletezza dei metodi di misura l’impossibilità di misurare contemporaneamente e con esattezza la posizione e la velocità di un elettrone. No, la nostra impossibilità di dedurre in modo puramente causale le nostre azioni future non dipende da una mancanza di intelligenza, ma dal semplice principio che per esaminare un oggetto non è adatto nessun metodo colla cui applicazione l’oggetto venga sostanzialmente modificato. Perciò l’uomo che pensa non potrà mai dedurre dalla legge causale la decisione delle proprie azioni volontarie, ma dovrà trarla da un’altra legge ben differente, la legge morale, che cresce su di un suo particolare terreno e non è comprensibile con metodi puramente scientifici.

Il pensiero scientifico esige sempre una grande distanza ed una netta separazione fra il soggetto che pensa e l’oggetto pensato, e questa distanza è assicurata nel modo migliore quando si ammetta l’esistenza di uno spirito ideale che funga soltanto da soggetto e mai da oggetto.

Ma nella proibizione di fare oggetto di pensiero lo spirito ideale non è forse implicita una sgradevole rinunzia? E non si paga così un prezzo troppo caro per potere applicare un rigoroso determinismo? Non sarà mai un prezzo tanto caro quanto quello che debbono pagare gli indeterministi per applicare la loro concezione del mondo. Costoro sono infatti costretti ad imporre il fermo al loro impulso verso la conoscenza molto prima, poiché rinunciano a priori a porre delle leggi determinate valide per i casi singoli; e questo è un grado di rassegnazione cosi sorprendente che c’è da domandarsi come mai l’indeterminismo abbia attualmente tanti partigiani fra i fisici. Se non erro, questo fatto ha una ragione psicologica. Ogni volta che nella scienza sorge una nuova grande idea la si prova in tutte le direzioni e, se essa si mostra fertile, si cerca di farne il fondamento di un sistema di pensieri possibilmente vasto e chiuso in sé. Così è avvenuto per la teoria della relatività, e cosi avviene attualmente per la teoria dei quanti.

Siccome la fisica dei quanti allo stadio attuale culmina nella funzione d’onda, si cerca di dare un significato definitivo alla funzione d’onda, e poiché la funzione d’onda di per sé non possiede altro significato che quello di una grandezza di probabilità, si cerca di porre come ultimo e supremo compito la questione della probabilità, facendo del concetto di probabilità la base definitiva di tutta la fisica.

Io non credo che in tutti i tempi futuri ci si accontenterà di questa impostazione del problema. Infatti se perfino nel campo spirituale, le cui leggi posseggono in assai maggior misura un carattere probabilistico, non si può considerare esaurito lo studio scientifico di un avvenimento isolato se non se ne è chiarita la causa, tanto meno sarà possibile eliminare per sempre il problema di causa dalle scienze della natura.

Indubbiamente la legge causale non è né dimostrabile né confutabile per via logica, non è quindi né vera né falsa; ma è un principio euristico, una guida, la guida più preziosa che noi possediamo se vogliamo orientarci nel groviglio degli eventi e conoscere la direzione in cui deve procedere la ricerca scientifica per giungere a risultati fecondi. Come la legge causale afferra subito la fresca anima del bambino e gli pone in bocca l’instancabile domanda «perché?», così essa accompagna lo scienziato per tutta la sua vita e gli pone incessantemente nuovi problemi. La scienza non mira ad un riposo contemplativo dopo aver acquistato delle conoscenze sicure, ma è lavoro senza posa, è sviluppo sempre progressivo verso una meta che potremo bensì poeticamente intravvedere, ma che non potremo mai afferrare appieno col nostro intelletto.

    

M. Planck, La conoscenza del mondo fisico, trad. it. di Enrico Persico e Augusto Gamba, Bollati Boringhieri, Torino 1993, pp. 265-292.