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Il pensiero di Leibniz e la Teodicea

Alfonso Pérez de Laborda
2016

Il brano che vi proponiamo è tratto da un saggio in cui l’autore, professore di Storia della Scienza presso l’Università Pontificia di Salamanca, esamina le ampie e complesse relazioni tra Newton e Leibniz offrendone il punto di vista filosofico, scientifico e teologico. In particolare, questo estratto si riferisce a quanto Leibniz affida alla Teodicea. Pérez de Laborda, in continuo dialogo con quest’opera, porta alla luce i diversi aspetti fondanti del saggio: Dio che crea e conserva il Creato e la sua armonia, senza dover intervenire fisicamente, come voleva la concezione meccanicista.


I punti nodali della teodicea, così come qui sono risultati, sono due: l'armonia prestabilita da Dio e Lui stesso come creatore e conservatore del migliore dei mondi. L'intelligenza e il potere di Dio nella costruzione del mondo - quello materiale e quello spirituale, se così si può dire - sono stati tali che, sebbene non ci sia, perché non ci può essere, influenza tra entrambi i mondi, la corrispondenza è esatta. L'anima non influisce sui corpo, né il corpo influisce sull'anima, e, tuttavia, c'è tra entrambi una corrispondenza tanto singolare e precisa, che questa influenza dell'uno sull'altra e di questa su quello sembra evidente. D'altro canto, la combinazione dei possibili è tanto grande che un'infinità di mondi possibili esiste nella mente di Dio, il quale, nella sua immensa sapienza e bontà, sceglie quello che dà come risultato maggior quantità di bene, che lo rende il migliore. Queste due sono le note fondamentali della teodicea, intorno ad esse si articola tutto il pensiero su Dio.

Dio, che è il saggio, sceglie sempre il meglio; da ciò deriva la più perfetta delle libertà, quella che non trova alcun impedimento a scegliere in qualsiasi momento il meglio. Ora dunque, quando Dio sceglie il meglio, quello che non ha scelto e che, pertanto, è inferiore in perfezione, non cessa di essere possibile. Quando Dio sceglie ciò che sceglie, non lo fa perché quello sia necessario, per cui sarebbe impossibile qualsiasi altra decisione. No, non è così -andrebbe contro la nostra ipotesi -, ciò che Dio non sceglie continua ad essere possibile, dal momento che il possibile è quello le cui parti non implicano contraddizione. Inferire dal fatto che Dio non può scegliere se non il meglio che ciò che non sceglie è impossibile, significa confondere il potere con la volontà, la necessità metafisica con la necessità morale, le essenze con le esistenze. Ciò che è necessario e tale per essenza, dal momento che il suo opposto implica contraddizione; il contingente che esiste deve la sua esistenza al principio del meglio, ragion sufficiente delle cose. Non si deve confondere quello che Dio non vuole con quello che Dio non può. Dio può creare tutto quello che è possibile, ma non vuole creare se non quello che è il meglio. Già nella Teodicea venne rifiutata quell'affermazione che dice: non è possibile se non ciò che accade effettivamente. Affermando questo, si confonde la necessità morale, che deriva dalla scelta del meglio, con la necessità assoluta.

Dio può produrre tutto ciò che è possibile, tutto ciò che in se stesso non implica contraddizione, ma vuole produrre il meglio tra tutti i possibili. Così, Dio non è un agente necessario alla creazione delle creature, dal momento che agisce per scelta.

Dio ha il potere di scegliere, potere fondato nella ragione della scelta conforme alla sua sapienza. Si dà perciò una certa fatalità, che non è altro che quella che proviene dall'ordine del più saggio o della provvidenza, ma non si tratta di una fatalità, o necessità bruta, dove non c'è né sapienza né scelta. Parlando di queste cose bisogna prestare molta attenzione, se non si vuole sbagliare, a non confondere la libertà, la contingenza e la spontaneità , da un lato, e la necessità assoluta, il caso, la coazione, dall'altro. Bisogna distinguere tra una necessità assoluta e una necessità ipotetica; tra una necessità che ha luogo perché il suo opposto implica contraddizione - la necessità logica, metafisica o matematica -, è una necessita morale che fa sì che il saggio scelga il meglio è che qualsiasi spirito segua l'inclinazione maggiore. La necessità ipotetica è quella la cui supposizione o ipotesi della previsione e preordinazione di Dio si impone ai futuri contingenti. Si dovrà ammettere questa necessità, a meno che non si voglia ricusare, con i sociniani, la prescienza che Dio ha dei futuri contingenti e la provvidenza che dirige e governa le cose in particolare.

Da ciò che si è precedentemente detto non consegue che questa prescienza e questa preordinazione sopprimano la libertà. Dio, portato dalla sua suprema ragione a scegliere tra varie concatenazioni di cose o di mondi possibili, quello nel quale, precisamente, le libere creature prenderanno tali e tal altre risoluzioni - sebbene confidando sempre nel suo concorso -, ha creato in questo modo tutto un certo evento, determinandolo una volta per tutte, senza per questo sopprimere la libertà delle sue creature. Questo decreto primario di scelta, in assoluto, non cambia, ma semplicemente attualizza, le nature libere che Egli vedeva nelle sue idee.

Neanche la necessità morale sopprime la libertà; abbiamo precedentemente visto che la più grande libertà è quella del saggio, che non ha alcun impedimento a scegliere il meglio. Ma il bene inclina senza obbligare, senza imporre una necessità assoluta. Sappiamo che ciò che Dio non sceglie, anche se inferiore quanto a perfezione, non cessa di essere possibile. Si spiega in questo modo il fatto che ci sia una certezza e infallibilità, ma senza che si dia una necessità assoluta nella scelta dei contingenti.

Venne dimostrato nella Teodicea che questa necessità morale e conforme alla perfezione divina, conforme al principio delle esistenze, in altre parole, al principio di ragion sufficiente. La necessità assoluta e metafisica, invece, dipende dall'altro grande principio, quello delle essenze, in altre parole, quello di identità o contraddizione, dal momento che ciò che è assolutamente necessario è l'unico possibile tra le varie azioni, la sua contraria implicando contraddizione.

Infine, per quanto riguarda la fatalità, non si devono confondere il fatum mahometanum, il fatum stoicum e il fatum christianum. >Il destino per i Turchi vuole che gli effetti abbiano luogo anche se si evitano le cause, come se ci fosse necessità assoluta. Il destino in senso stoico richiede la tranquillità, siamo forzati ad avere pazienza, non si può lottare controciò che avviene. II fatum christianum concede un destino certo a tutte le cose, diretto dalla prescienza e dalla provvidenza di Dio. Fatum deriva da fari, cioè pronunciare, concedere; significa, quindi, il decreto della provvidenza. Coloro che si sottomettono a questa, a causa della conoscenza delle perfezioni divine, delle quali l'amore per Dio è una continuazione (consiste nel piacere che da questa conoscenza), non solamente prendono le cose con pazienza, come i filosofi pagani, bensì si rallegrano anche di ciò che Dio ordina, poiché sanno che fa tutto ciò cercando sempre il meglio, tanto il maggior bene generale quanto il maggior bene particolare di coloro che lo amano. I miracoli che Dio compie, a meno che uno non si faccia una cattiva idea circa la sua sapienza e il suo potere, non vanno a sostenere le necessità della natura, bensì quelle della grazia; riguardo a ciò già sappiamo qualcosa e vi ritorneremo pili avanti.

Quando qualcuno loda una macchina non lo fa tanto per la causa che la produsse, quanto per gli effetti che si ottennero. Nella costruzione di quella macchina che è il mondo, Dio non dovette prendere materia da fuori: lì vediamo plasmato il potere di Dio. Ma c'è ancora un'altra ragione dell'eccellenza della sua opera: la sapienza con la quale la costruì. La sua macchina dura da più tempo che nessun'altra, e funziona anche bene. Consideriamo un operaio buono se costruisce bene tutti i pezzi della sua macchina, ma lo consideriamo ancora meglio se li aggiusta bene perché tutto funzioni alia perfezione. È necessario, pertanto, che l'artificio di Dio sia infinitamente migliore di quello dell'operaio. La semplice produzione di tutto da parte di Dio mette in evidenza il suo potere, ma non ancora sufficientemente la sua sapienza. Fino a questo punto sono d'accordo anche i materialisti e Spinoza, i quali riconoscono il potere ma non la saggezza di Dio. Non si tratta, quindi, del fatto che il mondo corporeo funzioni senza l'interposizione di Dio, visto che le creature hanno bisogno della sua influenza continua. Ma ciò che qui si vuole considerare è che siamo come di fronte a un orologio che funzionerà senza alcuna necessita di correzioni. La sapienza di Dio ha previsto tutto e ha rimediato tutto in anticipo, secondo una meravigliosa armonia prestabilita. Non si esclude così la provvidenza di Dio, il quale ha la sua sapienza per prevedere e il suo potere per provvedere.

La sapienza di Dio esige che si faccia tutto secondo ragione, con una ragion sufficiente. Dio opera sempre con ragione; non vuole mai nulla senza che ci sia una ragion sufficiente. Essendo Egli l'autore di tutte le cose e operando sempre secondo ragione, non esiste nulla nell'universo che non abbia una ragion sufficiente della propria esistenza: non sarebbe stata creata da colui che tutto compie con sapienza. È la perfezione stessa di Dio che richiede che tutto si compia con sapienza, affinché nessuno mai gli possa rimproverare di aver agito senza ragione, o di aver preferito una ragione più debole ad una più forte. Da ciò deriva, per esempio, che gli indiscernibili, sebbene non assolutamente impossibili, siano contrari alla sapienza di Dio, quindi non possono esistere. Lo stesso accade quando si consideri un tempo particolare, al limite delle cose esistenti, nel quale Dio avrebbe prodotto il mondo; non si possono trovare buone ragioni per la scelta di questo tempo particolare, quindi è una finzione impossibile. Dio non prende mai risoluzioni astratte e imperfette; non prende mai una decisione circa i fini senza farlo contemporaneamente anche circa i mezzi e le circostanze. Si veda la Teodicea, dove si dimostra che c'è un solo decreto per tutto l'universo, in base al quale si decide ad ammetterlo dalla possibilità all'esistenza. Una volontà senza motivi e comparabile alla casualità di Epicuro.

In realtà, in Epicuro il caso fortuito non era una necessità cieca, bensì qualcosa di indifferente che si introduceva espressamente per evitare la necessità. II caso è cieco, ma non meno lo è una volontà senza motivo. La deviazione senza soggetto degli atomi di Epicuro si confuta semplicemente con il principio di ragion sufficiente, come accade oggi per l'attrazione senza alcun mezzo sostenuta da alcuni. Quando li si compari, appare evidente che ciò che alcuni chiamano principi matematici della filosofia sono identici ai principi dei materialisti, ad eccezione di materialisti come Democrito, Epicuro e Hobbes, che accettano solamente i corpi, limitandosi ai principi matematici, mentre i matematici cristiani accettano anche sostanze immateriali. Ai principi materialisti bisogna opporre non i principi matematici, bensì quelli metafisici.

Ma torniamo immediatamente, per terminate, alla sapienza e al potere di Dio. Dio non è mai determinato dalle cose esterne, essendolo sempre per ciò che in Lui stesso c'è, cioè, dalle sue conoscenze (prima, naturalmente, che ci fosse qualcosa fuori di Lui). Dio ha in sé le idee di tutte le cose esterne ed è determinato, in questo modo, dà ragioni interne a sé, in altre parole, dalla sua sapienza.

Nella grande macchina che Dio ha costruito nell'universo, non ha nessun senso considerare che la si debba ricaricare, come se fosse un orologio. Ciò sarebbe prova del fatto che Dio non è stato capace di creare un movimento perpetuo, del fatto che la macchina gli è riuscita tanto imperfetta da doverla pulire ogni tanto e ricaricarla, oltre ad aggiustarla di nuovo di tanto in tanto, come se il suo autore fosse un orologiaio qualsiasi, tutto questa, inoltre, mediante un aiuto straordinario. Dio sarebbe un maestro tanto peggiore quanto più dovesse armeggiare sulla sua macchina. Non può essere così, la stessa forza ed energia sussistono sempre nell'universo, passando soltanto da materia a materia. Secondo quanto è determinato dalle leggi della natura e dall'armonia prestabilita.

Quando si vuole lodare una macchina, si osservano più gli effetti delle cause: non si osserva tanto il potere del macchinista quanto il suo artificio, come abbiamo precedentemente detto. Il grande macchinario dell'universo deve essere come un orologio che funziona senza necessità di correzioni; altrimenti dovrebbe derivare che Dio cambia opinione, quando, in realtà, Dio ha previsto tutto e ha rimediato tutto in anticipo, secondo la sua meravigliosa armonia prestabilita. Questi ragionamenti non escludono la provvidenza di Dio, anzi al contrario, la rendono perfetta: una vera provvidenza richiede una perfetta previsione, ma non solo una previsione, bensì anche una provvisione dei rimedi preordinati. In altro modo mancherebbe a Dio sapienza per prevedere o potere per provvedere.

Se Dio dovesse correggere la sua macchina, sarebbe necessario che lo facesse in modo sopranna turale, e allora si introdurrebbe il miracolo per spiegare le cose naturali, o naturalmente, e allora non si riterrebbe Dio un'intelligenza sopramondana, come è, ma resterebbe limitato insieme alle cose della natura: sarebbe l’anima del mondo.

Se seguendo le leggi della natura si perdesse forza attiva nel mondo, rendendosi necessari nuovi incrementi di forza da parte di Dio per ripristinare il livello primitivo, ci sarebbe un disordine manifesto.

Dio avrebbe potuto prevenirlo e, di conseguenza, avrebbe potuto prendere le decisioni pertinenti per evitarlo. Quindi, Dio lo ha fatto effettivamente, e di conseguenza non c'è perdita di forza attiva nell'universo. Inoltre, Dio ha impedito questi disordini da prima che accadessero: non lascia, in primo luogo, che questi disordini avvengano e, in secondo luogo, non apporta i rimedi pertinenti, bensì trova in anticipo un rimedio per impedirli. Ciò che Dio fa , tuttavia, e conservare il mondo che crea; Io fa mediante la preservazione e la continuazione attuale degli esseri che creò.


Il testo qui proposto non  riporta i riferimenti indiretti alle opere di Lebniz presentati dall'autore nel testo originale.

Fonte bibliografica: A. Perez de Laborda, Leibniz e Newton, Jaca Book, Milano 1981, pp. 395-400