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Logos della croce e nuova sapienza

Paolo Zellini
2010

Numero e Logos

Logos non è solo il «discorso», né si può intendere come semplice «parola» il Verbo che, secondo Giovanni, è all'inizio di ogni cosa. È inevitabile, se vogliamo recuperare il senso perduto del logos, paragonarlo anche al numero, poiché i loro destini si sono intrecciati a tal punto che l'uno non sarebbe esistito senza l'altro. Valendosi di innumerevoli testimonianze, l'autore scopre una fitta trama di analogie e corrispondenze tra concetti scientifici e formule sapienziali. A suffragarne le tesi provvedono, in maniera sorprendente, la matematica e la logica. Pensare al logos non si riduce allora a una vana evocazione di ombre, miti e tradizioni sepolte, ma conduce piuttosto a recuperare nel termine antico una costellazione di metodi e di significati che appartengono anche alla scienza più avanzata, e senza i quali il nostro mondo non sarebbe neppure pensabile.

Il platonismo considerava il corpo come una prigione e per il cristiano la creazione del mondo era comunque una caduta, una caduta, una katabolé, come diceva Paolo (Ef 1,4), o il luogo della tribolazione, compressione o stringimento come preannunciava il Vangelo di Matteo (Mt 24,21). Tuttavia, mentre la filosofia medio e neoplatonica aveva elaborato una gerarchia di dèi primi e secondi e di ipostasi che rimarcavano e insieme graduavano la distanza tra Dio e il mondo, ora il Verbo, consustanziale al Padre, percorrendo d'un tratto quei gradi, si era fatto uomo. Mentre Plotino considerava un male l'incarnazione dell'anima, e il suo «balzar fuori dal Tutto nella parte» era una discesa e una diminutio dell'attività che le sarebbe spettata volgendosi al mondo intelligibile, l'incarnazione diventava ora un atto di amore divino. Il tema centrale del pensiero cristiano era il rovesciamento della tesi platonica della estraneità di Dio rispetto alla mortalità della carne; un rovesciamento che doveva produrre una nuova teodicea, una missione di reintegrazione a opera dell'uomo salvato da un Logos che ne aveva assunto le sembianze mortali.

In un celebre passo delle Confessioni (VII, 9) Agostino avrebbe rimarcato la differenza tra cristianesimo e neo­platonismo alludendo alla sua lettura di certi libri di scuola platonica tradotti dal greco in latino e procuratigli da un tale gonfio di folle superbia. Egli poteva ritrovarvi tutto ciò che dalle Scritture si può evincere sulla natura del Logos. Le stesse parole di Paolo e di Giovanni si adattavano alla concezione neoplatonica di un Noῦς - Figlio che è fin da principio ed è nella forma del Padre (in forma patris). Mancava solo, precisava Agostino, una cosa essenziale: che il Verbo si fece carne e abitò in mezzo a noi.

Diverso era, nel platonismo e nel cristianesimo, il significato della mediazione del logos. Mediazione era, per i Platonici, l’opera di un Demiurgo impegnato nella creazione di un mondo che reca l’impronta di modelli matematici; ma questi modelli erano divini, non contaminati dalla materia, e il Demiurgo era un dio inferiore volto a realizzare una discesa nella generazione. Di qui la competizione tra due significati del logos: quello teologico e quello cosmologico. Era dunque su questa distinzione che il cristianesimo finiva con l’opporsi al platonismo: «Il significato cosmologico del logos è la minaccia più grave per il mistero teologico della Filiazione e il contraccolpo più forte del pensiero neoplatonico (noi diremmo medioplatonico) sulla sua speculazione» [1]. Le personificazioni mitiche del logos puntavano sistematicamente, nel medioplatonismo, a una figura di intermediario, come poteva essere Ermes o Attis. Salustio (IV sec.), maestro e collaboratore dell’imperatore Giuliano che tentò la restaurazione della cultura ellenistica, spiegava come Attis fosse il demiurgo delle cose transeunti, dilaniato tra un mondo superiore e uno inferiore. Egli si invaghisce di una ninfa (le ninfe erano preposte alla generazione) e per cercarla abbandona la Madre degli dèi. Ma Attis si mozza poi i genitali e li rimette alla ninfa, ovvero rifiuta le potenze generatrici e si ricongiunge al mondo divino. [2]

Il Demiurgo di Numenio, un dio secondo e terzo, oscilla anch’egli tra un Principio supremo e il flusso del divenire; se si rivolge alla materia, se ne preoccupa e, mentre la tiene unita, ne viene scisso; se si ritira nel suo osservatorio tutto si spegne (Sal, 104, 29) e l’Intelletto prosegue felicemente in solitudine la sua esistenza. I rapporti o logoi con cui il Demiurgo platonico fabbricava il mondo erano strumenti con cui si poteva sia ottemperare ai bisogni più materiali sia risalire alle essenze intellegibili.

Come si risolve, nella teologia cristiana, l’imbarazzo di un intermediario tra Dio e l’uomo che una matematica capace di rappresentare quasi alla perfezione le virtù demiurgiche del Logos? Se si prescinde dal continuo riferimento ai Platonici, da un’ispirazione che non cessa di usare i termini della filosofia greca, si attua del resto una completa rivoluzione. Si salva però la matematica, che viene anzi accostata a un Logos che è consustanziale al Principio supremo e dal quale dipende la creazione del mondo. Si espungono invece le mitologie del mondo intermedio, il mondo ove si svolgeva il dramma di una creazione paragonata dagli Gnostici a una caduta che per i più, cioè per gli ilici e gli psichici, risultava senza remissione. Si sopprimono le leggende degli Gnostici, ma la gnosi di Clemente Alessandrino o di Origene continua a servirsi della matematica e Agostino giunge perfino a identificare numero e sapienza. Non che gli Gnostici non si rifacessero a conoscenze aritmetiche; anzi la loro dottrina era piena di riferimenti al simbolismo numerico e pitagorico, ma ora i numeri erano destinati a svelare più che nascondere, a spiegare più che a eludere o sottacere.

La matematica non si limita qui a conservare la dignità di disciplina dianoetica assegnatale da Platone, che doveva ancora spiegare come l'utilità dei calcoli non si limitasse alla sola pratica mercantile. La sua vicinanza al Logos e alla Sapienza la pone, inaspettatamente, ai massimi gradi della gerarchia, e le stesse idee di vicinanza, di continuità o di contatto, deputate a chiarire - per quel che era possibile - il mistero del rapporto tra due Persone della Trinità, richiamano concetti spaziali che la matematica sarebbe stata pronta, di lì a poco, a cercare di decifrare. Le metafore della teologia erano tolte da una disciplina che era già scienza positiva, pronta a rivendicare un proprio disegno che dalla teologia avrebbe finito col ricavare, col tempo, scarsi vantaggi. Ma lo spostamento del logos verso la sfera scientifica, matematica e cosmologica che avrebbe poi segnato l'epoca moderna, soprattutto dal XVII secolo, si sarebbe valso del più ampio credito concesso, ab initio, dalla teologia.

Già in base alla storiografia dell'ultimo secolo appare credibile la tesi che le categorie della scienza moderna siano una filiazione del pensiero teologico medioevale sia almeno difendibile. Ma questa circostanza non dipende solo da una diretta interazione reciproca tra scuole di pensiero teologico e scientifico, come poteva capitare per le origini della scienza sperimentale a Oxford o per l'aristotelismo padovano, rispettivamente nel XIII e nel XIV secolo. Bastava la matematica a dimostrare quanto legittimamente gli scienziati medioevali e moderni potessero rivendicare di essere pure teologi, in base alla sola formula sapienziale, ricordata anche da Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae, I, 5, 5), «omnia in numero, pondere, et mensura disposuisti». Fin dalle origini della patristica fu chiaro che il compito di mediazione tra Dio e il mondo spettava a un Logos che custodiva, in forma di princìpi o di archetipi, i numeri dell’aritmetica e le figure della geometria. Inoltre, e forse è questo il punto decisivo, la teologia si incaricava di trasmettere, attraverso un’idea di logos ereditata dai Greci, temi di ricerca e di riflessione che la scienza avrebbe fatto propri con nuovi strumenti – che erano pure, in qualche caso, il perfezionamento di strumenti noti fin dall’antichità più remota. Tra questi il problema dell’esistenza dell’infinito attuale, la possibilità di una restitutio universale, la natura del continuo, la definizione di numero e di rapporto.

La relazione tra pistis e scienza si basa sull’ambivalenza critica di un Logos che da una parte scruta i misteri di Dio e dall’altra racchiude il modello matematico del mondo, un modello che la sapienza umana può scandagliare con (o senza) la speranza di rinvenirvi le tracce mondane dello Spirito. Il Logos, per usare una formula neoplatonica, «è uno e molti» (Enneadi, VI, 4, 11), ma in altro senso si può affermare che la «ragione (logós) è una», perché «la proporzione (analoghía) contiene tutte le cose» (Enneadi, III, 3, 6): se il cielo esercita un’azione sulla terra, questo avviene per una sorta di proporzione o somiglianza di struttura che vale da un estremo all’altro dell’universo, sia materiale che spirituale. Cristianamente, argomenta Alexandre Kojève, se l’incarnazione implica che il Dio eterno può essere presente nel mondo materiale senza perdere la propria perfezione, allora vuol dire che anche questo mondo è, è stato o sarà a suo modo perfetto, almeno in una certa misura. Se un corpo terreno può essere anche il corpo di Dio, e quindi un corpo divino, «e se, come ritenevano i sapienti greci, i corpi divini (celesti) riflettono esattamente relazioni eterne che intercorrono fra entità matematiche, allora nulla impedisce di ricercare tali relazioni eterne in questo mondo piuttosto che in cielo. E fu precisamente a una tale ricerca che sempre più numerosi cristiani si dedicarono con passione dopo il XIV secolo»[3]. Fu questo il grande passaggio dalla scienza antica a quella moderna: cercare in terra quello che prima si cercava in cielo; scrutare le proprietà dei numeri e della materia i segni del mondo divino, non per risalire a quel mondo, ma per conoscere sulla terra l'intima e divina essenza delle cose e, successivamente, le sole leggi immanenti del loro comportamento. La vista acuta di Linceo, la sua capacità di guardare sino alle viscere della terra, da simbolo neoplatonico del voῦς, [Plotino, Enneadi, V, 8,4] divenne effettiva abilità di indagine, prima dei segreti della natura, poi delle leggi fisiche e matematiche chela governano.

Ma chi doveva essere, tra Dio e l'uomo, a decidere come pilotare la ricerca? La matematica, scrive Origene (Commentarii in Evangelium Johannis, I, 20), e accanto alla Sapienza, ed è quindi alla matematica che Dio affida il compito di trasmettere, dagli archetipi in essa racchiusi, forma, struttura e sostanza agli esseri e alla materia del divenire. La coesione e l'unità della compagine dell'universo, ove la permanenza dell'uno permette di risalire al Principio, è garantita da un Logos che agisce tramite la Sapienza e la forza ordinatrice del numero. Origene era discepolo di Clemente Alessandrino; e a chi ribatteva a Clemente che conoscere le leggi del numero e dell'universo, l'astronomia, la geometria e la dialettica non giova a nulla, e che la filosofia greca, frutto della sola intelligenza umana, «non è insegnata dalla verità», Clemente rispondeva con due argomenti. «Anzitutto» egli scriveva «essi sbagliano nelle cose più importanti che ci siano, vale a dire nella libertà di scelta intellettuale»; [Stromata, VI, 11, 93, 1 (ed. G. Pini, p. 723)] una libertà, pensava Clemente, che non è semplice arbitrio, ma sovranità di scelta e di ispirazione propiziata dalla gnosi, perché «Dio non ama se non colui che coabita con la Sapienza».[4] In secondo luogo, se era la sapienza artigiana che ha costruito la nave per navigare sui flutti, era la provvidenza del Padre a pilotarla. [5] I criteri di navigazione e quella parte di verità che Clemente definiva «gnostica» - complementare a una verità volta al fare - erano dettati da una Sapienza che navigava sulle acque valendosi della scienza del numero.

Tuttavia la sapienza umana, col tempo, non si ritenne affatto obbligata ad accompagnarsi a quella divina. Vita spirituale e ragione discorsiva cominciarono a vivere separate, in ambiti relativamente distinti, anche nei casi in cui l'opera scientifica si dichiarava ispirata alle verità della fede. La progressiva secolarizzazione, a cominciare dal XV secolo, non consisteva in un incipiente ateismo quanto piuttosto in una distinzione di ambiti, una separazione di attività e di interessi. E questo era solo il presupposto per un successivo spostamento di competenze. In diversi cari alle narrazioni simboliche e fantastiche della mistica subentrò gradualmente, ove era possibile, il linguaggio della scienza. Esperienze mistiche, o questioni elusive ed enigmatiche che erano state poste dalla religione divennero oggetto di indagine della ragione positiva, e la scienza si incaricò di rispondere in modo letterale, nei termini della meccanica, dell’algebra o della logica, a questioni che riguardavano la struttura del tempo, la possibilità di una restituzione universale, la natura della mente o la possibilità dell’infinito attuale. È precisamente il carattere positivo e letterale di questa interpretazione che potrebbe avere assunto, agli occhi della religione, le prerogative di una nuova caduta, di una fatale deviazione da ciò che Agostino, e – sul suo esempio – Bonaventura, avevano posto vicino a Dio e alla Sapienza: il numero come segreto del mistero della creazione e come elemento privilegiato di decifrazione del logos. Il logos cosmologico fondato sul numero, che aveva aiutato a sconfiggere l’idea gnostica di una creazione compromessa col male, divenne allora a sua volta l’antitesi di un logos divino, lo strumento di una ragione scientifica al servizio di un uomo che si sarebbe presto proclamato lui stesso, senza troppe esitazioni, di razza divina. 

      

NOTE

[1] J. Daniélou, Messaggio evangelico e cultura ellenistica, EDB, Bologna 201o, vol. II, p. 447.

[2] Cfr. Salustio, Sugli dèi e il mondo, Adelphi, Milano 2000, pp. 124-127.

[3] A. Kojève, L'origine cristiana della scienza moderna, in Il silenzio della tirannide, Adelphi, Milano 2004, pp. 125-138, qui p. 135.

[4] Cfr. Sap 7,28.

[5] Cfr. Sap 14,2-3 e Prv 16,9.

   

P. Zellini, Numero e logos, Adelphi, 2010 Milano, pp. 220-225.