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La crisi della cultura

Jean Danielou
1972

La cultura tradita dagli intellettuali

Un tradimento della cultura per mano dei suoi protagonisti principali, gli intellettuali: da qui nasce la riflessione che Jean Daniélou affronta in questo libro del 1972. L'autore pone interrogativi seri ed ancora attuali sul ruolo degli intellettuali nella società contemporanea e nella ricerca del vero, esponendoli insieme a quelli che individua come "pericoli" in cui la cultura può incorrere. In particolare, nel brano che vi proponiamo, Daniélou affronta il "pericolo dello scientismo", che può generare una dissociazione tra il campo delle realtà obiettive, nel quale la scienza regna incontrastata, e il campo delle aspirazioni soggettive, proprio della filosofia. Se ll'entusiasmo causato dai risultati scientifici e dai metodi positivi tende a incrementare il desiderio di applicare questi metodi a tutti i campi, allora filosofia, letteratura e storia tenderanno a diventare sociologia, psicologia o filologia. Nell'ultimo paragrafo, intitolato "pigrizia dell'intelligenza", Daniélou riflette sul rigore del metodo applicato alle diverse discipline in rapporto alla conoscenza che da questo si può generare, ponendo quindi l'attenzione alla domanda su Dio. Sarebbe infatti problematico l'utilizzo dei metodi positivi per rispondere a domande che scientifiche non sono, individuando proprio nel rifiuto della metafisica, una "certa pigrizia dell'intelligenza".

Il pericolo dello scientismo 

Gli elementi positivi della cultura d'oggi si trovano nel campo della scienza. Le discipline scientifiche implicano una formazione mentale che, se considerata nella sua totalità, porta a una conoscenza profonda del reale. Gli uomini di scienza hanno il senso dell'obiettività. La scienza non è un campo nel quale si possa dire o fare qualunque cosa: vi è sempre un oggetto che ha la sua resistenza. Con questa non voglio dire che l'oggetto non opponga resistenza anche nel campo letterario: io credo infatti che una seria vocazione letteraria sia altrettanto rigorosa della scienza: in effetti, è orientata a esprimere certe forme del reale; ma in questo ordine il reale si difende con minor vigore, perché è meno fisico, apparentemente più plastico, più suscettibile di essere manipolato.

È significativo che oggi siano proprio alcuni spiriti scientifici a ritrovare, tramite e non nonostante la scienza, la strada che porta alla metafisica, cioè a qualcosa che supera la scienza. E dicendo questo so di essere in contrasto con un certo numero di miei confratelli i quali ritengono ribelli alla metafisica gli spiriti scientifici. A mio avviso, uno spirito scientifico, se assolutamente onesto, arriverà a riconoscere che la sua scienza lo porta a supporre un aldilà di questa scienza. La scienza manifesta con evidenza che il reale è intelligibile, cioè che la realtà che essa studia obbedisce a leggi che sono intelligenti. Sartre basa il suo ateismo sull'affermazione che «il mondo è assurdo». E ha ragione: se il mondo è assurdo, Dio non esiste. Ma tutta la dimostrazione poggia sul primo enunciato. Ebbene, nessun matematico, nessun fisico dirà mai che il mondo è assurdo. E allora bisogna rovesciare la formula di Sartre e dire: se il mondo non è assurdo, Dio esiste.

Il progresso scientifico quindi non si oppone affatto alla cultura filosofica. Ciò avverrebbe unicamente se gli scienziati pretendessero di spiegare tutto, pretesa che hanno soltanto scienziati di nessuna autorità. Oggi, al contrario, la scienza tocca i suoi limiti assoluti e li tocca al livello della spiegazione: essa raggiunge le leggi, non le cause; tocca i suoi limiti anche al livello della responsabilità: quale senso dare al progresso tecnologico (energia atomica, chimica, biologica ecc.)? Li tocca anche al livello della felicità: i giovani si ribellano alla tecnocrazia. Ma le domande che gli scienziati si pongono rimangono di solito senza  risposta a causa della mancanza di rigore dei filosofi, dei moralisti o dei mistici.

La scienza infatti obbliga i filosofi a meglio distinguere quanto costituisce il nocciolo delle loro affermazioni da quanto dipende dal fatto che il pensiero si è espresso in forme di cultura ormai desuete. La scienza con la sua critica implacabile li obbliga a giustificare in maniera valida le loro affermazioni. In un primo momento la scienza sembra distruggere la metafisica, ma in un secondo momento appare come fonte di purificazione e, quindi, di consolidamento. Esempi di questa sua azione si possono trovare in tutti i campi: la fisica ha liberato il pensiero da rappresentazioni cosmologiche che ne erano soltanto un mezzo di espressione; la psicanalisi obbliga a distinguere tra stato di colpevolezza morbosa e autentica coscienza morale.

Per gli scienziati il vero problema è riconoscere che la metafisica è una fonte di certezza altrettanto legittima quanto la scienza, mentre per i filosofi il problema è dare a questa certezza un fondamento che sia valido per gli scienziati

Il grande pericolo attuale è quello di una dissociazione tra il campo delle realtà obiettive, nel quale la scienza regnasse incontrastata, e il campo delle aspirazioni soggettive che sarebbe di competenza della filosofia. Questa dissociazione è un errore, perché le stesse realtà sono di competenza della scienza e della filosofia anche se a livelli diversi.

   

Crisi della cultura

Lo sviluppo della scienza pone però un certo numero di problemi. Anzitutto un’opposizione tra natura e cultura, che è legata ai progressi prodigiosi della scienza dei nostri tempi. La scienza ha sì un aspetto teorico, ma in campo scientifico la teoria finisce sempre nella pratica:

il sapere diventa potere, e oggi l'uomo per la prima volta  prende coscienza dell'estensione di questo potere: esso tocca il mondo della materia inanimata (e l'avventura planetaria ne è l’espressione), tocca la società e la possibilità di costruirla razionalmente; tocca il campo della psicologia, con lo sforzo di manipolare l'uomo.

Si capisce come tutto ciò crei l'impressione che l'uomo abbia possibilità illimitate e allora viene da domandarsi se quello che si chiamava natura non fosse soltanto, come diceva Pascal, consuetudine. L'uomo moderno si rende conto che non esistono fatalità cosmiche e fatalità storiche; la parola «natura » spesso esprimeva soltanto l'impotenza dell'uomo, mentre oggi l'uomo può agire sul cosmo, sulla vita, sulla società e vincerne le resistenze. Si trattava di situazioni di fatto indebitamente trasformate in situazioni di diritto. Oggi il mezzo artificiale, la tecnica e la cultura permettono all'uomo di non subire più coercizioni e di plasmarsi secondo la propria volontà.

Vediamo quanto di valido comporta questo atteggiamento mentale. Non vi è dubbio che un concetto sbagliato di natura è spesso servito soltanto a mascherare la pigrizia e la paura di scoprire il nuovo. Già nei tempi antichi si era criticato la civiltà in quanto corruttrice della natura: l'uomo ha agito contro la natura quando ha frugato le viscere della terra per strapparne l'oro e i diamanti che Dio intenzionalmente vi aveva nascosti, o quando ha tentato di volare nonostante fosse creato per camminare sulla terra. E certo altresì che l'ineguale distribuzione delle ricchezze, la subordinazione degli schiavi, la condizione inferiore della donna talvolta sono state considerate espressione della legge naturale. Tutto questo deve renderci prudenti.

È dunque perfettamente legittimo che l'uomo, facendo l'inventario delle ricchezze dell'universo fisico e umano, acquisti su di esso un potere. Ma questa potere è illimitato? La cultura sostituisce a poco a poco la natura? La libertà dell'uomo dispone di una sovranità totale? Oggi ci troviamo in presenza di uno strano capovolgimento di situazione: la pretesa dei metodi scientifici - di quelli cioè che individuando le leggi dei fenomeni possono agire su di essi ­ porta a una temibile crisi della cultura. I metodi scientifici, infatti, pretendendo di ridurre la realtà a quanto essi possono conoscere, finiscono per svuotarla  del suo contenuto: la realtà infatti viene a collocarsi su un piano in cui vi sono soltanto strutture e non vi è un contenuto. Si arriva così a contestare la realtà obiettiva dell'universo, perchè la scienza non la coglie nella sua realtà ontologica, e si finirà con il contestare la realtà dell'uomo, ridotto in ultima analisi a un aggregato di parole.

La crisi attuale della cultura consiste essenzialmente nel fatto che gli spiriti, affascinati dagli spettacolosi successi ottenuti dai metodi positivi nelle scienze fisiche e naturali, cercano di applicare questi metodi a tutti i campi. Filosofia, letteratura e storia tendono così a diventare sociologia, psicologia o filologia. Ma se già sul piano del mondo fisico la realtà che soggiace alle leggi sfugge tanto alla nostra presa, in maggior misura ciò avviene quando si tratta dell'uomo, del suo mistero personale, della sua interiorità inaccessibile, della sua dignità eminente.

Del resto, i vicoli ciechi in cui attualmente si dibatte la tecnica mettono in rilievo questa crisi. L'uomo, acquistata la padronanza sulle leggi dell'universo e della vita, si interroga su quello che deve fare: mentre prima doveva subire un certo numero di coercizioni, oggi deve forse cercare una so­ luzione unicamente dalla sua decisione? Ma questa decisione in base a che cosa deve prenderla? Siamo forse attualmente in balia di tutti gli arbitri? La cosa più chiara è che oggi rischiamo di ricadere sotto il peso di nuove fatalità. Infatti, se l'uomo non sarà capace di controllare la tecnica, prodotto del suo genio, essa potrà renderlo altrettanto schiavo di quanto in passato lo rendeva la natura. Qui si ripropone il problema di una realtà obiettiva che continua a imporsi all'uomo. La realtà è quella che noi chiamiamo natura. Non è qualcosa che ci è semplicemente dato, è un programma da realizzare. Ed è qui che la cultura acquista il suo significato.

Come si legge nella costituzione conciliare Gaudium et spes, «ogni qual volta si tratta dell'uomo, natura e cultura sono collegate quanto più strettamente è possibile».

Se indaghiamo più a fondo nel tentativo, da parte dell'uomo, di sottovalutare o negare la natura, ci accorgiamo che spesso è dovuto al fatto chela natura obbliga l'uomo a riconoscere un dato che gli si impone e del quale non può disporre. Questo dato è l'intelligibilità di un mondo razionale del quale deve riconoscere il valore. È evidente che questa intelligibilità non può essere che manifestazione di un'intelligenza, così come è evidente che riconoscere l'esistenza di una natura delle cose è riconoscere la trascendenza che le dà fondamento; ed è pure evidente che conformarsi alla natura è, in conclusione, come avevano intuito i vecchi stoici, conformarsi al disegno di Dio. Ecco perchè la volontà di autosufficienza a ciò ripugna. 

  

Qualcosa di irriducibile

D'altra parte il problema e sapere se l'approccio scientifico sia sufficiente a spiegare l'integralità del reale e se la realtà sia suscettibile di essere raggiunta nella sua totalità dalle tecniche e dai metodi della scienza. La questione si pone anzitutto al livello della conoscenza della persona umana. Nei suoi confronti la scienza si trova nell'impossibilità di arrivare a una riduzione totale: le scienze umane ci consentono di girare attorno a quello che è una persona, di determinarne i condizionamenti fisiologici (ed è quanto fanno la medicina e la fisiologia), i condizionamenti sociali, i condizionamenti psicologici (gli elementi che fanno il nostro psichismo, la psicanalisi) ecc. Ma, fatto tutto ciò, ci si trova in presenza di quello che il filosofo Jankélévitch chiama il «non so che», il «quasi nulla». Vi è qualcosa che resiste e questo qualcosa è quello che noi chiamiamo libertà. Ci riesce impossibile dare di una persona umana una spiegazione analoga a quella che si può dare di un fatto scientifico, che possa cioè ricondursi alla determinazione di tutte le sue coordinate. Rimane qualcosa di irriducibile ed è precisamente  quello che l'esistenzialismo ha sottolineato  con il suo rifiuto di una concezione rigorosamente determinista della società e della vita umana.

Questo ci pone un problema fondamentale: la trascendenza della persona e della libertà umana nei confronti di tutti i condizionamenti. Ciò naturalmente non significa che i condizionamenti non vi siano: tutti siamo condizionati da elementi molteplici, ma il problema che si pone a ciascuno di noi è rappresentato dalla distanza che vi è tra noi, condizionati, e quanto ci condiziona. Questa distanza è la libertà. In altri termini, considerata la nostra essenza, noi non possiamo fare qualsiasi cosa, ma ciò nonostante possiamo orientare i nostri condizionamenti in un senso o nell'altro.

A livello delle persone umane siamo quindi in presenza di qualcosa che non si può ridurre alla semplice analisi scientifica. Soltanto le persone hanno un segreto, un'interiorità. Quello invece che caratterizza le realtà della natura è il fatto che in esse vi è unicamente ciò che è esteriorizzato: in una rosa non vi sono che il suo profumo, le sue spine e il suo colore; in questi tre elementi è espressa la rosa in maniera totale. La persona umana invece non è totalmente espressa in quello che è accessibile a un'analisi scientifica; resta il segreto dell'interiorità, l'intimità dell'essere personale, e questo segreto è del tutto inaccessibile a qualsiasi analisi puramente scientifica. Quando si psicanalizza una persona, si analizzano i suoi condizionamenti, ma con ciò sullo psicanalizzato non si è detta l'ultima parola. Ed è appunto questo il grande pericolo dei metodi scientifici maldestramente applicati, per esempio, ai problemi di educazione o ai problemi di orientamento professionale: si corre il rischio di sbagliare proprio perché si tiene conto soltanto di quello che è empiricamente constatabile con i metodi scientifici.

Se in ogni persona vi è un'interiorità, il problema è come raggiungerla. È possibile conoscere l'altro? Vi è comunicazione fra gli esseri umani? Questo è un problema vitale che tocca addirittura l'esistenza. L'«altro» non può essere trattato come un semplice oggetto; dal punto di vista dell'azione non si ha il diritto di fare di una persona un mezzo: ogni persona umana si presenta come un fine. Non si ha il diritto di subordinare una persona umana né a un progresso scientifico né a una realizzazione sociale. Questa dignità della trascendenza umana nei confronti del mondo della natura è qualcosa che oggi tutti riconoscono, quale che sia il sistema metafisico che ognuno segue.

Se perciò non possiamo impossessarci della persona dell'altro, farne un oggetto, come potremo avervi  accesso? È evidente che, se la persona dell'altro ci sfugge totalmente, noi potremo avervi accesso soltanto nella misura in cui essa stessa verrà verso di noi. E con questo ci troviamo di fronte a uno dei problemi fondamentali del pensiero moderno, che la psicanalisi e l’ermeneutica hanno in parte rimesso in valore: il problema della parola. Noi possiamo conoscere l'altro soltanto nella misura in cui egli ci manifesta quello che e, parla di se, ci svela il suo segreto. E su questo possiamo contare soltanto nella misura in cui l'altro si darà volontariamente a noi. Il problema della parola è quindi stranamente legato al problema dell’amore, al problema della comunicazione tra le persone.

Questo pone un altro problema, quello della parola vera. Esistono ancora parole vere? Viviamo in un mondo in cui tutti i dadi sono truccati: siamo definitivamente nel mondo della menzogna e dell'impossibilità di comunicare? Questo è il dramma umano dell'uomo d'oggi. Oggi viviamo nell'universo della diffidenza, in un mondo nel quale abbiamo subito tanti inganni che non crediamo più nella parola vera, e un simile mondo è spaventoso. Per l'uomo moderno è messa in questione la possibilità stessa di avere fiducia: si può ancora avere fiducia? In chi si può avere fiducia? È possibile avere fiducia nella parola? La parola, nella misura in cui l'uomo vi si impegna,  cioè la testimonianza, e una strada fondamentale di accesso alla realtà. Un mondo in cui non vi siano che «falsi testimoni» è un mondo in cui è impossibile vivere umanamente; un mondo in cui si presume che tutti mentano non offre più alcuna possibilita di vita umana.

   

Pigrizia dell'intelligenza

In sostanza, che cos'è uno spirito scientifico nel senso integrale della parola? È uno spirito che a ogni oggetto applica il metodo adatto a quell'oggetto. Ma l'errore fondamentale di un certo positivismo moderno è quello di voler applicare il metodo della geometria, per dirla con Pascal, alle cose dell'uomo e alle cose di Dio. È evidente che la geometria porterà sempre e soltanto alla geometria.  Finché si analizzano soltanto strutture non si incontrerà mai una libertà. Cinquant'anni fa Le Dantec diceva: «Crederò nell'anima il giorno in cui l'avrò trovata sotto il mio bisturi». Ma è evidente che con i metodi della dissezione non si incontrerà mai una  persona umana.

Scientificamente è errore radicale pretendere che un metodo, sia esso di dissezione fisiologica, di analisi ermeneutica o psicanalitica, possa farci incontrare una libertà e una persona umana, e chiunque lo affermi non è scientificamente serio. Ma questo non significa che la persona o la libertà non siano accessibili a una conoscenza obiettiva; significa invece che la conoscenza obiettiva non si riduce, come pensa Monad, alla conoscenza che è data dalle scienze positive. Vi è lo «spirito di finezza» per le cose dell'anima e vi è lo «spirito di profezia» per le cose della storia, cioè per il segreto ultimo del destino umano collettivo...

Fin qui abbiamo trattato la questione sul piano della persona umana e su quello della comunione fra le persone; però la si può trattare anche su un terzo piano.

Ovviamente non ha senso negare l'esistenza di Dio perché non ci si è mai imbattuti in lui nel corso di analisi ermeneutiche o fisiche ecc., poiché, se Dio esiste, certamente non è un oggetto della natura. È assurdo pensare che Dio possa essere un oggetto del quale ci si può impadronire con gli stessi metodi che si usano per analizzare i corpi, se questi metodi non sono sufficienti neppure a farci raggiungere la persona degli altri. 

Dio è essenzialmente una soggettività trascendente, non suscettibile cioè di essere afferrato come un oggetto. Se Dio è Dio, cioè una personalità sovrana, può essere conosciuto soltanto nella misura in cui egli si manifesta. D'altra parte, le stesse persone umane non sono conosciute che nella misura in cui esse stesse si manifestano. E questa squalifica chiunque metta in questione Dio in nome della scienza, perché Dio si situa soltanto sul piano di quanto è inaccessibile ai metodi della scienza. Vi è sì un problema di Dio, ma deve essere impostato a un altro livello. In un certo positivismo di bassa lega, che praticamente ignora le realtà essenziali delle relazioni interumane e delle relazioni con Dio, vi è qualcosa di superficiale, nel senso che non scende a considerare le profondità.

Nel rifiuto assoluto della metafisica, nel rifiuto cioè di porre i problemi fondamentali, vi è una certa pigrizia dell'intelligenza. Noi riconosciamo la grandezza della scienza quando essa rimane nel suo ordine, ma la pretesa totalitaria di una scienza, che affermasse di dire l'ultima parola su tutto, ci appare come una minaccia terribile alla cultura contemporanea. Alle fine del  IX secolo, di fronte a uno scientismo in pieno sviluppo, contro le pretese della scienza e della tecnica di spiegare tutto si sono levate le voci dei grandi maestri della rivolta dell'uomo: c'è stata la rivolta di Dostoevskij, che parlava del muro dell'impossibile che la scienza vorrebbe opporre alla libertà creativa e inventiva di Dio; c'è  stata  la rivolta di  Kierkegaard, che ha protestato contra la prigione in cui il razionalismo costringeva l'uomo e che nella disperazione ha visto l'avvio alla scoperta del reale al di là di ogni  scienza; c'è stato Leon Bloy, c'è stato Peguy, e ci sono stati tutti coloro che si sono opposti alla presunzione di uno scientismo nel quale avvertivano il pericolo di un decadimento dell'umanità, e hanno sostenuto che vi sono altre vie di accesso al reale, vie assolutamente valide e che, anzi, raggiungono mete inaccessibili alla scienza. Ebbene, sono passati cinquant'anni e ci troviamo alle prese con lo stesso problema.

   

J. DANIELOU, La cultura tradita dagli intellettuali (1972), Lindau, Torino 2012, pp. 21-31