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Mito

Anno di redazione: 
2002
Jean-Michel Maldamé

I. La ragione contro il mito - II. Ragione e immaginazione - III. Mito e scienza contemporanea - IV. Mito, religione e fede.

Col trascorrere del tempo, il progresso scientifico è riuscito a relegare in secondo piano ciò che comunemente chiamiamo «mito», termine che indica tutte le antiche “narrazioni” che stanno alla base della cultura ed anche un atteggiamento intellettuale che regola un rapporto originale con la realtà. Il razionalismo legato alla scienza classica ha stigmatizzato il mito come “infra-scientifico” e quindi incapace di rivelare una qualsivoglia verità, considerandolo addirittura una mistificazione. Al giorno d’oggi la percezione del valore del mito è cambiata, anche grazie allo sviluppo delle scienze della natura che hanno modificato alcune loro concezioni, introducendone di nuove. Le scienze umane hanno anch’esse modificato la concezione moderna del mito, facendo riscoprire l’importanza della cultura tradizionale. Anche la filosofia, che si occupa dell’esperienza spirituale universale, ha instaurato con il mito un rapporto di stima. Ciò porta ad apprezzare in modo nuovo il valore del mito, senza per questo abbassare la guardia nel difendere il valore della ragione di fronte alle cangianti manifestazioni dell’irrazionale.

  

I. La ragione contro il mito

La svalutazione del mito è stata debitamente esaltata dalla filosofia positivista, soprattutto nella forma espressa da Auguste Comte (1798-1857), forma che è stata – ed è tuttora – largamente condivisa in molti ambienti scientifici. Ricollegandosi alla storia del pensiero, Comte, suddivide l’avventura dello spirito umano in tre stadi, durante i quali l’intelligenza raggiunge quella maturità propria dell’età moderna. Lo stadio «mitologico» o «religioso» è quello in cui il pensiero è ancora prigioniero delle immagini e lascia spazio all’arbitrato divino; lo stadio «metafisico», che gli succede, vede l’emergere della ragione, ma poiché la totale fiducia che gli si accorda è in qualche modo cieca, si lascia lo spirito umano prigioniero di un certo antropocentrismo.

La maturità dell’intelligenza giungerebbe finalmente nell’età «scientifica», in cui la ragione diviene uno strumento adeguato di conoscenza, sebbene cosciente dei suoi limiti, ed è proprio questo ciò che le permette di avere una conoscenza obiettiva. Avendo tale impostazione filosofica dominato la maggior parte del pensiero europeo ed il comportamento delle sue società, l’attitudine militante della laicità l’ha interpretata alla lettera. Il progresso della scienza universitaria e la conquista del mondo trovavano la loro giustificazione nel trionfo della razionalità sulle rappresentazioni religiose e sui miti. Nel portare il progresso, i colonizzatori europei si rifacevano all’uso della ragione, tanto per la scolarizzazione quanto per lo sviluppo economico e amministrativo. Il sapere scientifico veniva assunto come modello di ogni sapere. Una tale classificazione viene ereditata in parte dalla filosofia critica. Quest’ultima, cosciente della complessità e del valore dello spirito umano, non cadeva però nella medesima interpretazione semplicistica: secondo Kant (1724-1804), infatti, la conoscenza umana risiede essenzialmente nel giudizio; questo si basa su posizioni o postulati che non si lasciano imprigionare dall’egemonia del razionalismo, né dalla sua pretesa di una perfetta obiettività.

L’atteggiamento razionalista del XIX secolo, che non si limitava al positivismo, né allo scientismo, si riallacciava in fondo a quanto si era già compiuto agli albori del pensiero occidentale. La scienza, in questa visione, viene edificata in opposizione alla visione religiosa del mondo. Una natura popolata da divinità o da forze misteriose, comprese secondo un certo antropomorfismo, diviene teatro del libero arbitrio di spiriti maligni e benigni. Questa visione del mondo lascia ampio spazio all’imprevedibilità e scoraggia ogni sforzo razionale di prevedere e codificare. Al contrario, immaginare una legge (nómos) inscritta nei fenomeni naturali, libera lo spirito e cede il posto alla ragione (lógos). È ciò che fecero i Greci all’alba del pensiero occidentale fondando l’ideale di Città e del sapere, basato sull’analisi dei fatti e sulla loro applicazione coerente alla teoria. In relazione a questa scelta, del tutto politica e scientifica, si costruiva un’idea metafisica, quella di «natura» (physis), in quanto capacità di azione autonoma di fronte al divino, poiché regolata ed equilibrata da un principio di ordine; e si costruiva anche l’idea di «essenza» (ousía) che, in quanto invariabile, poteva dare origine ad un sapere sicuro, capace di fondarsi su princìpi (archaí) universali e accedere alla conoscenza tramite un linguaggio anch’esso sottomesso a delle regole, quelle della logica.

I «miti» appaiono allora come grandi racconti in cui intervengono forze indipendenti dalle regole conosciute e condivise dagli uomini. Col tempo, essi sarebbero diventati non soltanto inutili, ma avrebbero anche acquisito lo status di un «ostacolo epistemologico», secondo l’espressione di Gaston Bachelard (1884-1962). Con Platone (428-348 a.C.) si ritiene che il mito non derivi dalla scienza, ma dall’opinione; si tenga anche conto che il mito si oppone all’interpretazione razionale dei fenomeni; ancor più, gli antichi miti vengono criticati a causa della loro immoralità. Per Platone la verità e l’errore non sono di ordine speculativo, ma hanno rapporti con la virtù. Egli oppone il mito (mythos) al discorso argomentato (lógos). Così, mentre il “racconto” (la parola del poeta) si accontenta di allineare avvenimenti contingenti, la “scienza” (la parola del filosofo e del sapiente) chiama in causa la ragione o la causa di tutto ciò che è.

La rottura socratica e platonica che eredita e corona quella operata dai primi “fisici” (physilógoi) viene acquisita da Aristotele (384-322 a.C.), nel cui pensiero ogni riferimento al mito è ormai inesistente. Lo dimostra l’importanza data, nella sua opera, alla nozione di «natura». Sin dall’inizio, il suo ideale di scienza è caratterizzato dalla diffidenza nei confronti del mito, giustificata con una particolare attenzione ai modi d’esprimersi. Il mito è per lui una forma di espressione che mantiene un valore pedagogico, per l’integrazione nella Città e la partecipazione (mímesis) alla sua vita, ma deve essere interpretato in modo allegorico. Questa tradizione verrà poi sviluppata dagli Stoici, che vedranno negli antichi racconti un modo distorto di riportare la realtà: questa si può “dire”, invece, solo all’interno di un sistema razionale.

La scienza ha costruito l’ideale di una conoscenza capace di predire, per mezzo del calcolo, il moto dei corpi celesti, le eclissi e le congiunzioni degli astri, relegando indovini e maghi ai margini del sapere. I fenomeni biologici sono spiegati per mezzo dell’elemento costitutivo dell’influsso vitale (il pneûma delle scuole mediche di Alessandria). Lavori come la costruzione di case, di palazzi o templi, l’equipaggiamento delle navi, la realizzazione di macchine belliche, sono tutti regolati da esigenze di proporzione e di equilibrio, frutto di calcoli rigorosi. Così il termine «scienza» riceveva il titolo che le conveniva per definire il dominio dell’uomo sulla natura per mezzo della ragione (gr. orthós logós; lat. recta ratio), sradicandolo dal terreno dei miti. Interpretati in chiave allegorica, questi ultimi non erano ignorati, ma ricevevano lo status di un’opera imperfetta, quasi l’abbozzo di quello che era ormai l’intelligenza scientifica. Il mito appariva dunque come frutto dell’immaginazione, riservato ai discorsi religiosi o all’istruzione dei fanciulli, col fine di aiutare a integrarsi nella vita sociale o a sostenere i valori della Città.

Per questo motivo, l’entrata del pensiero di Aristotele nel Medioevo, in una società molto religiosa, diede nuovamente origine ad una crisi, la cui posta in gioco era la vittoria della ragione sull’immaginazione o sul mondo delle emozioni. L’ideale della ragione era raggiunto nel rispetto delle regole di una logica che presupponeva l’uso di proposizioni, la distinzione tra princìpi e conclusione, nonché precise argomentazioni sul contenuto delle proposizioni. Questo ideale viene ripreso durante il Rinascimento e all’epoca dello sviluppo della scienza, classicamente intesa, non appena i procedimenti matematici sono perfezionati al punto da poter descrivere e svelare gli intimi segreti della natura. La scienza viene quindi apprezzata, in questo lungo percorso storico, come trionfo della ragione e vittoria sul mito. Nei racconti mitologici, in effetti, si menzionavano avvenimenti che sfuggivano alla presa dell’esperienza: animali che parlano, esseri che si trasformano, conseguenze fisiche necessarie che vengono eluse o modificate istantaneamente dal solo pensiero o dalle parole. Nei miti, il principio di non contraddizione non è sempre garantito; la narrazione non rispetta quei vincoli di spazio o di tempo propri di una vita umana fondata sulla comune esperienza della durata e del lavoro quotidiano. Per questi motivi, l’ideale della conoscenza scientifica è stato caratterizzato, subito dopo la sua nascita, da una netta sfiducia nei confronti del linguaggio mitologico: lo spirito scientifico non avrà problemi nell’affermare che i fatti narrati non sono veri, semplicemente perché impossibili.

L’indirizzo metafisico fondatore del metodo scientifico non ha cessato di essere confortato dal successo delle sue applicazioni, nonostante il pensiero degli studiosi non fosse sempre omogeneo e mantenesse ancora concezioni in certo modo sacrali. Così, Isaac Newton (1642-1727) costruì il primo grande sistema razionale del mondo come un tutto, portando a compimento ciò che era stato già inaugurato da Galileo e da Keplero. Ma la sua attenzione era attratta anche dall’alchimia e dai rapporti numerici che compaiono nel linguaggio dell’Apocalisse. Il rifiuto dei discepoli di Descartes (fedeli all’occorrenza ad Aristotele), era fondato sull’oscurità, diremmo sull’impertinenza, del concetto di azione a distanza, e raggiungeva l’esigenza fondante della scienza: un linguaggio del tutto privo di ogni riferimento al sacro e al mistero.

La nascita della chimica, con Lavoisier (1743-1794), ha poi confermato questa scelta: il linguaggio del mito non era appropriato per descrivere la vera causa delle trasformazioni e delle proprietà dei corpi. La classificazione delle sostanze deve attenersi alle analisi rigorose delle attività chimiche e non a semplici analogie riscontrate nel terreno della biologia. A sua volta, la biologia è nata come scienza esatta fondata sulla misurazione e la determinazione di rapporti quantitativi, come ad esempio la misurazione della temperatura e degli scambi con l’ambiente esterno. La medicina sperimentale si è tenuta a debita distanza dai racconti che spiegano la genesi delle forme viventi, concernenti l’intervento di agenti e di princìpi estranei alla natura e non rappresentabili in termini scientifici.

Il XIX secolo ha visto dunque il trionfo della scienza, incitando la filosofia della conoscenza a privilegiare l’uso della ragione, così come essa veniva impiegata nell’organon matematizzato dalle scienze esatte. Il pensiero non può essere veritiero se non passa attraverso la deduzione logica, le cui proposizioni sono oggetto di un opportuno formalismo. I fatti devono essere sottomessi a verifiche sperimentali, che li iscrivono nel distaccato rigore dell’oggettività. Il lavoro epistemologico ha confermato questa filosofia. L’ordine del sapere tende a trasformare il pensiero metafisico in un razionalismo generalizzato, in cui i concetti si intersecano logicamente ed esaminano il reale secondo le proprie esigenze interne. L’epistemologia è attenta alla crescita dell’intelligenza del reale. Per gli esperti di pedagogia che cercano di creare programmi scolastici che introducano gli studenti al sapere scientifico, lo sviluppo dell’intelligenza deve condurre al dominio del ragionamento, sviluppato secondo il modello logico-matematico, e la psicologia evolutiva conserva ancora oggi tale prospettiva. Il mito, considerato come un sapere infantile, strutturava non soltanto il pensiero dell’infanzia, ma anche le culture primitive non toccate dal progresso. Allo stesso tempo, la critica al mito veniva estesa a tutto il linguaggio religioso in genere e anche all’espressione della fede teologale. Il messaggio cristiano era accusato di essere rimasto prigioniero di un’emotività che proiettava sulla realtà le intime convinzioni del soggetto, senza preoccuparsi di verificarle, e mancando pertanto di obiettività; il mito è divenuto così oggetto di studio da parte dei sociologi e degli psicologi, porta di accesso all’indagine dell’arcaico e dell’inconscio.

La visione negativa del mito appena descritta, domina ancora la cultura occidentale, fedele al suo proposito di “secolarizzazione”. Diviene perciò importante rilevare oggi un certo cambiamento nell’apprezzamento e nella valutazione del mito.

  

II. Ragione e immaginazione

Il nuovo giudizio sul valore del mito si basa su tre tipi di ragioni: epistemologiche, culturali e metafisiche.

1. L’attenzione dell’epistemologia per il mito. Le critiche più feconde contro il disprezzo per tutto ciò che non provenga da una ragione ridotta a pura matematica, furono già formulate da Blaise Pascal (1623-1662). Egli riconosceva il grande valore della nuova scienza (di cui aveva fatto largo uso), ma puntualizzava allo stesso tempo che ogni ragionamento si basa su princìpi e ogni dimostrazione si basa su termini o concetti; questi, a loro volta, si basano su altri, e così via. Pascal invitava in sostanza a riconoscere che ogni sapere riposa su “scelte primarie”, spesso ammesse in modo implicito, senza essere poste in discussione dagli esperti di una determinata disciplina. In questa prospettiva, il pensiero critico considera simili scelte come delle credenze o delle intuizioni primarie, che non possono esprimersi adeguatamente per mezzo del linguaggio scientifico. Bisogna così rilevare un’incompletezza radicale della scienza, caratteristica della maturità della ragione: di una ragione, cioè, capace di considerare criticamente le proprie basi.

Nel corso del XX secolo tale argomento è stato rinnovato con l’intento di fondare le scienze matematiche sulla logica. È apparso subito chiaro che il progetto totalizzante era irrealizzabile, così come mostrato in forma logica rigorosa nel celebre teorema di Gödel. Il ragionamento scientifico non può “autofondarsi”: esso si basa su ciò che parzialmente sfugge alla ragione, su intuizioni o postulati. I contemporanei tentativi di giungere ad una “teoria del tutto” sono vani. Queste considerazioni ci permettono di affermare che un discorso totalizzante ed universale, come quello che si riscontra nel mito, non sia del tutto estraneo al sapere scientifico. Nonostante la differenza esistente tra discorso scientifico e discorso mitologico, non si può negare che il mito possa avere avuto un ruolo fondamentale anche nello sviluppo del pensiero scientifico, ed ecco, dunque, che esso viene riabilitato sul piano epistemologico. La creatività scientifica, ad esempio, non si riduce a pura razionalità, e se così fosse, essa ne verrebbe certamente impoverita. Certo, le esigenze di verifica e di collaudo si rivelano essenziali in ogni procedimento scientifico, ma esse ricoprono un ruolo di controllo e in qualche modo di secondo piano. La creatività dello spirito non si esaurisce nel rigoroso svolgimento espositivo di una dimostrazione.

2. Il mito come spinta ideale e culturale. In secondo luogo è apparso evidente, alla prova del tempo, che non era possibile realizzare alcun lavoro scientifico senza riconoscerne alla base alcuni “valori”. La sociologia della conoscenza ha dimostrato la dipendenza da paradigmi che hanno un valore culturale globalizzante. Il duro cammino della scienza è stato favorito dall’ideale di progresso, cui viene riconosciuto il valore di mito; la scienza moderna può dunque considerarsi figlia del mito del progresso.

Lo studio dei fondamenti dello sviluppo della scienza moderna mostra che questa è stata preceduta, all’alba dell’età classica, da quelle convinzioni che hanno orientato lo spirito europeo verso la conquista del resto del mondo, ovvero quei testi chiamati “utopie”, dal nome del primo libro di Tommaso Moro (1478-1535). Tommaso Moro, Francesco Bacone, François Rabelais, Tommaso Campanella hanno proiettato nel futuro un modello ideale di civilizzazione. Le loro opere sono basate sull’immaginario occidentale ed hanno aperto le prospettive di un ideale di ragione teorico e pratico: hanno dato forza e legittimità alle azioni dello spirito, all’arte medica, all’attività economica e politica, ma anche all’ideale di scienza, attuato teoricamente, nel sistema educativo, ed in modo pragmatico nell’organizzazione del lavoro e della produzione industriale. Nel disincanto della cultura attuale si nota bene il carattere del “mito fondatore” dei discorsi sulla ragione ripresi in seguito dall’Illuminismo o dai razionalisti, da J.A. Condorcet a J.E. Renan.

Il discorso che nega alla ragione il proprio regno è percepito come un pericolo. I frutti distruttori dell’irrazionalismo sono tali da provocare una reazione contro ogni nichilismo. Oggi la ragione scientifica sente il bisogno, con l’appello al progresso, di non perdere il dinamismo inscritto nelle sue origini e gli scienziati sono visti come una fonte di questo dinamismo. Per questa ragione, come reazione verso forme “selvagge” di un ritorno al sacro che distruggerebbe lo spirito umano, anche gli scienziati cercano di rinnovare l’alleanza con la teologia monoteista, che propone una dottrina che si espone alla verifica e al dialogo con le scienze, riconoscendo il valore della ragione. La teologia cattolica, a sua volta, ha ricoperto un ruolo significativo nella fondazione del pensiero scientifico, il cui sviluppo, come dimostrato da Pierre Duhem (1861-1916), è legato essenzialmente al monoteismo.

3. L’insufficienza metafisica della razionalità scientifica. Il terzo motivo di rivalutazione del mito è di ordine metafisico. L’ideale classico che ricusava il mito come frutto perverso dell’immaginazione, considerata come una potenza malvagia, è risultato troppo naïf. La conoscenza sempre più profonda della materia ha dimostrato che le idee filosofiche che in certe epoche erano state capaci di esplicitare i vari modi della razionalità sono divenute insufficienti: il determinismo non poteva descrivere le relazioni e le interazioni tra i componenti ultimi della natura, e la nozione di “idea chiara e distinta” andava tenuta a debita distanza. Secondo una celebre espressione, “la realtà è velata” e viene conosciuta poco a poco, ma più la si conosce, più si riconosce ancora avvolta nel mistero. Tale situazione induce a confessare il carattere precario di molte delle nostre conoscenze, ma invita anche a considerare che l’ideale di trasparenza del linguaggio scientifico, che permea la scienza classica, rimane sempre un’utopia, poiché la realtà è assai più ricca delle nostre rappresentazioni e le nuove conoscenze pongono questioni sempre più difficili.

Per queste tre ragioni evocate, il mito cessa di apparire come qualcosa di contraddittorio nei confronti del discorso razionale, ma stabilisce con esso legami più stretti e sottili, che non si potevano immaginare durante l’epoca del trionfo dello scientismo.

  

III. Mito e scienza contemporanea

Il nuovo modo in cui si fronteggiano mythos e logos si può riconoscere nei tre domini della scienza fondamentale: la cosmologia, la fisica e la biologia. Conviene esaminare questi tre ambiti, nei quali la relazione tra i due linguaggi, scientifico e mitico, non è esclusiva ma complementare.

1. La presenza del mito nelle rappresentazioni della cosmologia e della fisica quantistica. L’immagine del mondo fornita dalla scienza contemporanea appare sovente con una prospettiva totalizzante. A partire dal modello cosmologico standard (legato comunemente all’immagine del Big Bang), la cosmologia propone una storia completa dell’energia, della materia e della vita. Questa Weltanschauung si presenta come un grande racconto che, a partire da un certa singolarità iniziale, arriva a spiegare il presente e apre agli interrogativi sul futuro. Questa presentazione “storica” è fondata su osservazioni che dipendono, in potenza e diversificazione, da vari strumenti che lavorano non solo nella banda delle radiazioni ottiche, ma anche in altre zone dello spettro elettromagnetico. I risultati ottenuti si basano sulle conoscenze della fisica fondamentale applicata con successo sia all’intimo della materia che allo studio delle più alte energie. L’articolazione dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo compiuta oggi dall’astrofisica, getta le basi per una presentazione coerente del mondo, davvero considerato come universo, unificato da leggi espresse con modelli matematici. La presentazione dei risultati sposta l’attenzione sui limiti dell’osservabile e sulla soglia della validità delle teorie fisiche. I concetti scientifici sono spinti al di là di se stessi, con lo scopo di modellare tesi che anticipino i risultati delle osservazioni o delle stesse costruzioni teoriche. In tal modo la cosmologia finisce col riannodarsi con la cosmogonia antica e si vedono riapparire elementi di ciò che una volta era considerato un discorso mitologico.

Alcuni, come Edmund Whittaker, hanno tratto dal modello standard una sorta di concordismo con l’insegnamento religioso, volendo identificare la singolarità iniziale presente in questi modelli con le prime parole del Libro della Genesi («In principio Dio creò...»: Bereshit bara Elohim). È però importante accettare con riserva alcune presentazioni dei risultati scientifici poiché la “traduzione” di una teoria in un discorso universale nasconde spesso delle zone di ignoranza e ricostruisce un mito che non può non trasformarsi, ancora una volta, in un ostacolo epistemologico. Si tace così su ciò che è sconosciuto e si offre l’illusione di un sapere assoluto, giungendo a volte a scontrarsi con temi religiosi.

Anche il modo in cui sono presentati alcuni risultati della meccanica quantistica pare voler segnare il ritorno ad una visione sacra del mondo, una volta segnata la rottura con una visione determinista dei fenomeni naturali. L’essenza ultima della materia lascia spazio all’imprevedibile, poiché la meccanica quantistica presenta i risultati delle sue misurazioni per mezzo di un linguaggio matematico che ha a che fare con fenomeni aleatori. La rottura con il determinismo ha indotto alcuni a leggere nella sostanza della materia la legittimazione di una visione “spiritualista”. Termini come energia, azione, coscienza o libertà, vengono interpretati all’interno di una cosmogenesi intrisa di sacralità. L’ideale di scienza cessa di caratterizzarsi per il suo razionalismo, per divenire una sacralizzazione della natura. La Natura — bisogna scrivere questo termine con la maiuscola — è vista come una potenza materna, generatrice di novità. La natura naturans è una natura mater. Il discorso cosmologico viene così accompagnato da temi religiosi mutuati dalle tradizioni orientali (la “danza di Shiva”, l’idea di una “coscienza universale”, ecc.). A volte sono solo ornamenti al discorso, ma per qualcuno la legittimazione del lavoro scientifico mediante riferimenti al sacro è qualcosa di importante. I risultati scientifici inviterebbero alcuni ad un nuovo concordismo con gli antichi miti religiosi che esprimono un monismo panteista. La materia si vede investita di un dinamismo che giustifica la “messa in opera” del mondo secondo un ordine o una legge universale ai quali si attribuisce un valore assoluto. La riduzione a livello immanente di un principio che dovrebbe invece agire in maniera trascendente è considerata da alcuni come un modo di riannodarsi al grande tema della finalità.

2. L’evoluzione biologica come narrazione. In terzo luogo, questa volta in ambito biologico, la teoria dell’evoluzione propone anch’essa la storia continua e progressiva delle trasformazioni delle specie, secondo un inarrestabile progresso che supera le sfide originate da restrizioni, interne od esterne, di natura ecologica, geologica, climatica o geografica. La teoria dell’evoluzione offre una visione unificata dell’emergenza progressiva della complessità e dell’organizzazione sempre più efficace dei vari organismi. Anche questo risultato scientifico è non di rado presentato all’interno di contesti espressivi di carattere mitico.

Lo sguardo che l’uomo volge al suo lontano passato lo porta a ricollegarsi con quello stato spirituale arcaico che è tipico dell’origine del mito. La preistoria è infatti immaginata come un periodo in cui i cacciatori vivevano in una specie di Eden felice in cui la vita scorreva tranquilla — versione rimodernata dell’età dell’oro. Allo stesso modo, la rusticità delle prime realizzazioni di oggetti e strumenti ha fatto pensare ad uno stato naturale, di quasi innocenza — versione ritrovata del discorso medievale sul Paradiso. Le raffigurazioni contenenti riferimenti a comportamenti sessuali hanno portato a sognare un mondo in cui non ci fossero le restrizioni di una vita di coppia, né difficoltà per la sopravvivenza dei bambini — versione riattualizzata dei miti riguardanti l’innocenza sessuale di fronte ad una morale imposta da una società basata su regole precise. Allo stesso modo, le teorie catastrofiste che invitano oggi a ripensare il gradualismo, tipico delle teorie di sintesi, si riannodano a quelle visioni gnostiche che privilegiano le nozioni di caduta e di alienazione.

Tutti questi miti sono al tempo stesso frutto di una ricostruzione storica e manifestazione del desiderio inespresso di cercare una perfezione realizzata nella storia. Appare dunque evidente che la netta separazione tra scienza e mito, attuata al momento in cui il clima intellettuale era dominato dal razionalismo, è di fatto illusoria. Esiste una complementarità tra la scienza e le antiche narrazioni fondative. Occorre dunque fare un’opera di discernimento.

  

IV. Mito, religione e fede

Il ritorno della presenza del mito nella scienza ci invita a far memoria degli atti fondatori del pensiero scientifico. A partire dal XVII secolo, la scienza ha acquisito un gran potere di “spiegazione del mondo” grazie ad un linguaggio trasparente e preciso, come quello usato dalla matematica, in cui regnano idee chiare e distinte. Il successo dei risultati scientifici, tanto sul piano teorico quanto su quello funzionale, ha confermato non solo il valore della ragione pratica, ma soprattutto quello della metafisica dell’essere nella purezza del Logos. Tale successo non deve far dimenticare che, nel suo processo di sviluppo, la scienza classica, collegata emblematicamente a Cartesio e Newton, ha condotto una battaglia contemporaneamente su due fronti: sul primo, contro la tradizione accademica di stampo aristotelico; sul secondo, contro la tradizione ermetica riesumata durante il Rinascimento.

1. Superamento e persistenza del mito. La tradizione aristotelica, che aveva dominato l’insegnamento universitario medievale, dopo aver portato i suoi frutti, si era alquanto irrigidita e sembrava vincolata dalla preminenza del testo sull’osservazione e da quella della stima qualitativa sulla misura. È dunque contro l’autorità di una tradizione esacerbata che si era levata l’audacia degli innovatori. Rifacendosi all’autorità degli antichi, essi rivalutarono il ruolo dei numeri e della perfezione geometrica allo scopo di donare alle essenze un nuovo rigore, modificando il senso stesso della parola «concetto». Tale aspetto è ben noto. È importante comunque non dimenticare l’altro fronte della disputa scientifica, quello legato al successo del nuovo ideale di pensiero: il rifiuto dell’ermetismo.

Il termine, che definisce in realtà una certa attitudine dello spirito, si ricollega emblematicamente a Ermete Trismegisto, un personaggio quasi leggendario riscoperto dagli eruditi del Rinascimento, la cui influenza si è fatta sentire nella medicina e nell’alchimia. Nella pratica ermetica le argomentazioni si sviluppavano richiamando entità aventi un valore di portata globale. Il linguaggio era quello dell’analogia tra le forme e il gioco degli elementi. Si riteneva che gli elementi naturali godessero di una certa autonomia e si attribuiva ad essi un'intenzionalità e una volontà proprie degli esseri viventi e dell’uomo. La scienza classica ruppe con tale “spiritualizzazione della materia” per sostituirla con l’astrazione delle leggi matematiche. Dopo Keplero non è più necessario supporre l’esistenza di angeli o divinità per presiedere al movimento degli astri e dei pianeti, perché è sufficiente usare le forze descritte dalla meccanica razionale. Ma questa vittoria non ha cancellato il rapporto dell’uomo con la propria immaginazione, imponendoci di fare una distinzione tra i frutti dell’immaginario e quell’attività dell’immaginazione che deriva dall’immaginativo, e che esprime la creatività dello spirito.

Il rapporto della scienza col mito non si limita all’aspetto teorico del pensiero. Anche la scienza applicata, ovvero la tecnologia, ha legami col mito, sia per ciò che produce, sia per i suoi sviluppi. Il linguaggio della scienza applicata è creato dal progresso e le ricerche sono convalidate dalla preoccupazione per i risultati. Per guadagnare credito, i laboratori di ricerca danno preferenza a quelle tematiche che hanno un certo rilievo sociale e politico. Così i temi dominanti del discorso sociale e politico sono sempre ispirati al “mito del progresso”: la salute, lo sviluppo agricolo, l’abbondanza dei beni di consumo, il tenore di vita, la vittoria sulle limitazioni geografiche, la conservazione della purezza della natura. Gli oggetti tecnologici sono anch’essi investiti di un potere mitico: ne possiede il computer, ad esempio, nella presentazione dei suoi risultati. La vita quotidiana è continuamente testimone di questa dinamica. Anche il linguaggio della scienza è produttore di miti, e li produce sotto il suo stendardo di fonte di verità, anche quanto non dice la verità. Una verità che, per essere tale, non dovrebbe invece limitarsi ad una sola fonte di conoscenza, perché non potrebbe essere altro che sinfonica.

La scienza, intesa nel suo senso più ampio, produce inoltre delle opere che nascono dall’immaginario puro, opere che chiamiamo «fantascienza». I romanzi di fantascienza hanno un ruolo importante nella strutturazione dell’immaginario. Giulio Verne, ad esempio, è stato uno degli eroi emblematici della modernità; i suoi numerosi successori sanno oggi utilizzare i paradossi della nuova fisica per esaltarne il contrasto contro il senso comune e per condurre lo spirito al di là dell’immediato. In questi romanzi ritroviamo la struttura fondamentale dei miti. Vi troviamo la determinazione di un territorio di forma geometrica molto semplice (cerchio, quadrato o piramide) o complesso (labirinto) nel quale si svolge un dramma universale ove si affrontano potenze benigne e maligne. Segue poi un intreccio di avvenimenti in cui gli eroi passano attraverso prove iniziatiche che suppongono una certa dose di cognizioni per poter dominare lo spazio e il tempo.

In questo contesto, la sacralizzazione dei numeri indica un ritorno alla cabala e al riconoscimento dell’esoterico. Essi sono oggi presentati come una sorgente di verità, ma ciò è pura illusione in quanto la loro “sacralità” rimandava un tempo alla verità solo in modo indiretto, nella misura in cui quei rapporti numerici erano utili per esprimere la profondità dell’animo e gli arcani dell’inconscio. Diverso è invece l’utilizzo che ne fa il linguaggio biblico, ove il riferimento numerico esprime una relazione con Dio e mantiene il suo riferimento con la storia.

2. Il mito e il linguaggio biblico. A volte i testi biblici sono stati letti come se fossero il rendiconto storico dettagliato di avvenimenti che ebbero luogo all’inizio del mondo e della storia dell’umanità. Tale lettura è stata preferita da alcuni Padri della Chiesa, come Basilio il Grande e Agostino d’Ippona, senza per questo ignorare il valore figurativo degli avvenimenti riportati, mentre altri, come Origene, svilupparono una lettura di tipo allegorico. Le scoperte scientifiche hanno mostrato che una lettura del testo biblico in cui la storicità venisse intesa a quel modo diveniva fonte di errore e di confusione. Dalla nascita della scienza, tali letture “storicizzanti” della Genesi sono diventate un ostacolo epistemologico al progresso della ricerca scientifica. Il conflitto ha messo i credenti sulla difensiva o in imbarazzo, come accaduto nel caso del concordismo.

Di fronte allo sforzo protratto dal progresso scientifico, un primo atteggiamento di alcuni credenti, come Karl Barth (1886-1968), fu quello di proporre un programma interpretativo che fosse condivisibile dalla scienza e dalla fede. Il progetto di demitizzazione (entmythologisierung) dovuto a Rudolf Bultmann (1884-1976) ha operato una separazione fra il messaggio salvifico del testo biblico e le forme della sua espressione linguistica. Ma tale progetto si trovava all’interno di quella concezione scientista che considerava il mito come un’opera di finzione. L’apologetica rifiutava così l’uso del termine mito, quando riferito ai racconti biblici, perché ritenuto qualcosa che non rispondesse per nulla alla realtà. I cambiamenti evocati nel modo di comprendere cosa sia il mito ed il suo valore, rendono questa posizione inattuale. Possiamo riconoscere che la Bibbia utilizza un linguaggio mitico come mezzo linguistico per esprimere il contenuto della fede, specialmente nei primi undici capitoli della Genesi, e tale scelta è legittima e necessaria.

I primi capitoli della Genesi intendono confessare la fede in un Dio unico, creatore e provvidente. L’autore ispirato vuole dire che tutto quanto esiste è stato fatto da Dio, signore della storia. Le conoscenze scientifiche e letterarie che contestualizzano il testo nel suo ambito culturale mostrano che esso non è un resoconto redatto da un testimone, ma il risultato di una riflessione sapienziale ispirata, messo per iscritto a partire dalla propria esperienza. Per compiere questa impresa, l’autore sacro usa le conoscenze disponibili al suo tempo — che appaiono certamente limitate rispetto a quelle odierne — e le mette al servizio della sua confessione di fede. La distanza culturale che ci separa dal testo obbliga il teologo ad operare una distinzione tra «origine» ed «inizio». Occorre infatti distinguere questi due termini. Il termine «inizio» indica ciò che comincia in un processo temporale, e si iscrive quindi nella logica della durata. Il termine «origine», invece, indica una relazione causale che non si limita ad un momento del processo temporale, ma è ad esso coestensivo. L’inizio è omogeneo al processo, mentre l’origine lo trascende. Bisogna dire, dunque, che il testo biblico intende esprimere l’«origine» delle cose, e che è pertanto indipendente dalla descrizione dell’«inizio». La fede in un Dio creatore e provvidente si accorda quindi con descrizioni fra loro diverse, siano esse scientifiche o naïves. La Bibbia non canonizza pertanto alcuna cosmologia.

La difficoltà viene dal fatto che non si può esprimere l’origine senza l’ausilio del linguaggio umano, un linguaggio legato al tempo. Per indicare l’origine, l’autore è obbligato a costruire un racconto impostato sulla “durata” e del quale esprime l’inizio: è per questo motivo che non è sempre facile poter distinguere tra inizio e origine. Si può allora comprendere la difficoltà di molti credenti, quando non sanno distinguere tra l’atto creatore e una “descrizione dell’inizio” all’interno di un racconto trasmesso dall’una o dall’altra cultura. Il conflitto tra scienza e fede sorge spesso da tale difficoltà.

Infine, la preoccupazione di parlare della trascendenza di Dio e della sua completa signoria sullo spazio e sul tempo, su tutti gli esseri e sulla loro storia, porta l’autore biblico a usare delle espressioni che si distaccano dall’esperienza quotidiana: il linguaggio che cerca di “spiegare l’origine” si allontana in modo legittimo dalle descrizioni legate alle azioni umane. Questo “superamento” riguarda anche la distanza del linguaggio biblico rispetto a quello filosofico, che usa preferibilmente il concetto. Il superamento linguistico espresso dalle varie forme letterarie quali il mito, l’epopea, la poesia o il paradosso, è al servizio della trascendenza, in un gioco di metafore che invita lo spirito ad andare al di là dell’immediato. Tale gioco richiede però di essere controllato dalla ragione, dal senso di trascendenza dell’unico Dio e dalla perfetta semplicità del suo essere.

3. Osservazioni conclusive. Di fronte al ritorno di un riconoscimento del valore del mito — un mito che può svilupparsi anche insieme alla scienza — bisogna mantenere un atteggiamento previdentemente critico. L’atteggiamento che ha permesso la fondazione della scienza deve essere conservato. Innanzitutto non bisogna disprezzare la ragione (lógos) e bisogna continuare la sua promozione, specialmente per quanto riguarda l’educazione al dominio del linguaggio e del ragionamento. Inoltre, occorre mantenere una viva coscienza, nei singoli e nelle istituzioni, dei limiti della ragione scientifica. Si tratta di una vigilanza che, se porta a riconoscere la razionalità scientifica come fonte di vera conoscenza, fa sì che, nel contempo, non venga negata l’esistenza di altre fonti ugualmente capaci di accedere alla verità. Infine, occorre evitare regressioni verso confusi sacralismi o pigrizie concordiste. La viva coscienza della trascendenza di Dio, che impedisce di ridurne l’essere a un “essere del mondo”, permette di usare il linguaggio dei miti senza restare prigionieri del loro significato letterale. Si può valorizzare l’immaginazione senza cadere nelle trappole dell’immaginario, accordando uno statuto adeguato al linguaggio religioso al servizio della fede.

Gli sviluppi attuali mostrano che bisogna tenere conto della storia e constatare che è stata realmente la fede in un Dio unico, separato e trascendente, ciò che ha permesso da un lato di sfuggire alla sacralizzazione degli elementi, e dall’altro di favorire lo sviluppo della scienza. Le sintesi desiderate non saranno soltanto un’estensione del discorso scientifico. Vi è lo spazio per una concezione sinfonica della verità. E vi è la necessità di compiere un’opera sapienziale.

  

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