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Fede e ragione nel Memoriale di Blaise Pascal

Romano Guardini
1935

Pascal

Contrariamente ad una storiografia tradizionale che vorrebbe il mistico Pascal come esponente di un fideismo che a partire dal suo celebre Memoriale (1654) gli avrebbe fatto rinnegare il suo passato scientifico, per inaugurare una nuova epoca della sua vita nella quale il “Dio degli scienziati” non avrebbe avuto più nulla da dire al “Dio della fede”, Romano Guardini propone una lettura della più famosa pagina pascaliana che recupera la dimensione metafisica e filosofica del suo autore. Dal contesto dell’intera opera del pensatore francese emerge infatti che l’eccedenza della conoscenza di Dio attraverso l’esperienza mistica supera la conoscenza di Dio come fondamento metafisico di tutte le cose, ma non la rinnega.

Dopo la morte di Pascal si fece una scoperta della quale ci informa la seguente relazione:

«Pochi giorni dopo la morte del signor Pascal un servo di casa notò per caso che nella fodera della giacca dell’illustre scomparso c’era a un punto come un’ingrossatura. Scucì in quel punto, per vedere cosa fosse e vi trovò una piccola pergamena, piegata e scritta di mano dal signor Pascal; e in questa pergamena un foglio scritto dalla stessa mano. Quest’ultimo era una fedele copia del primo. Pergamena e foglio furono consegnati subito alla signora Périer (la sorella). Essa li fece esaminare da alcuni amici intimi di Pascal. Tutti furono concordi nell’affermare che questa pergamena, scritta con tanta cura, e stesa in modo così singolare, rappresentava una specie di memoriale, che egli custodiva con molta cura allo scopo di tener viva la memoria per una cosa, che voleva saper presente, in ogni tempo, ai suoi occhi e al suo spirito; così si era dato per otto anni premura di cucirla e di toglierla tutte le volte che si faceva fare un vestito nuovo».

II foglio porta in alto una croce circondata di raggi. Sotto vi si legge quanto segue:

«L’ANNO DI GRAZIA 1654

Lunedì, 23 novembre, giorno di S. Clemente papa e martire, e d’altri del martirologio romano.

Vigilia di S. Crisogono martire, e d’altri.

Dalle dieci e mezza, circa, di sera, fino a mezzanotte e mezza circa.

FUOCO.

Dio d’Abramo, Dio d’Isacco, Dio di Giacobbe.

Non dei filosofi e dei dotti.

Certezza. Certezza. Sentimento. Gioia. Pace.

Dio di Gesù Cristo.

Deum meum et Deum vestrum.

«Il tuo Dio sarà il mio Dio».

Oblio del mondo e di tutto, tranne Dio.

Non lo si trova che per le vie insegnate dal Vangelo. Grandezza dell’anima umana.

«Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto».

Gioia, gioia, gioia, lacrime di gioia.

Io me ne sono separato;

Dereliquerunt me fontem aquae vivae.

Dio mio, mi abbandonerete?

Che io non ne sia separato in eterno.

«Questa è la vita eterna, ch’essi ti conoscano solo vero Dio, e Colui che tu hai mandato, Gesù Cristo».

Gesù Cristo.

Gesù Cristo.

Io me ne sono separato: l’ho fuggito, rinnegato, crocifisso. Ch’io non ne sia mai separato.

Non lo si conserva che per le vie insegnate dal Vangelo. Rinuncia totale e dolce.

Sottomissione totale a Gesù Cristo e al mio direttore. Eternamente in gioia per un giorno di prova sulla terra. Non obliviscar sermones tuos. Amen».

Il testo incomincia dunque con una datazione precisa: «1654, lunedì 23 novembre ...». Ma si tratta della storia di una esistenza cristiana; per questo la data che qui segue è sacra, si vorrebbe dire, è ieratica. «L‘anno di grazia 1654 ...». Il giorno viene segnato secondo l’ordine del calendario liturgico, del martirologio: «giorno di S. Clemente, papa e martire, e d’altri del martirologio romano. Vigilia di S. Crisogono martire, e d’altri».

E viene indicata anche l’ora, con l’accuratezza non solo dell’osservatore esatto, ma di uno che conosce la preziosità di una tale esperienza interiore ed ha l’angosciosa preoccupazione di conservarla: «Dalle dieci Mezza, circa, di sera a mezzanotte e mezza circa».

Poi una fila di parole messe giù in fretta, di brevi si, di brani tratti dalla Sacra Scrittura: tutto tremante per l’eccitazione di una esperienza prodigiosa. La prima riga è formata di una sola parola, collocata nel mezzo: «Feu», «Fuoco». Dopo due righe: «Certezza. Certezza. Sentimento. Gioia. Pace».

Ed ancora una volta alcune righe sotto: «Gioia, gioia, gioia, lagrime di gioia».

Qualcosa di prodigioso è accaduto. Pascal è stato nel fuoco. Non possiamo prender la parola in senso allegorico. Quando i chiamati dell’esperienza religiosa, parlano di «luce» interiore, di «ardore» interiore, non usano una metafora, ma intendono reale folgorare di luce, un fuoco reale. Certo questi hanno altra origine che il corpo o la psiche: si tratta di un’esperienza dello spirito, anzi più esattamente, dello Spirito di Dio, del Pneuma. In ciò si attua un’illuminazione in certezza, un cogliere la gloria luminosa, un chiarificarsi, oltre ogni contrasto e ambiguità, della vita il quale colloca l’uomo sopra un nuovo piano.

E ancora, noi vogliamo notare che nel Memoriale c'è la frase: «Grandeur de l’âme humaine»! Proprio nel cuore dell’esperienza cristiana, proprio nell’ambito dell’esperienza del sacro «fuoco», nella quale si fa chiara la grandezza di Dio e la realtà del peccato, resta fermo che l’umano ha il carattere della grandezza!

Abbiamo già appreso chi era colui che scrive così: un fisico, matematico, ingegnere, psicologo, filosofo della concreta umanità, della più alta levatura. Che cosa lo fa balbettare così?

«Certezza. Certezza. Sentimento. Gioia. Pace». Tutto questo dunque egli prima non l’ha avuto. Vi ha andato, ma non l’ha posseduto. Ha meditato su Dio con concetti, ma non è giunto a nessuna realtà. Si è sforzato, ma non aveva appoggio: ora egli sta dinanzi alla realtà di Dio.

Essa è luminosa, ardente. Dà completa certezza, pace che inonda e appaga, letizia che è indipendente dalle condizioni dell’esistenza.

Pascal, che richiede esperienza per ogni forma di conoscenza, quell’accertamento che diviene possibile solo quando si è davanti alla realtà, Pascal, che aveva colto la realtà della natura nell’esperimento e nel calcolo e la realtà dell’uomo nell’osservazione e nell’analisi, ora sta innanzi alla realtà del Dio vivente. Ora egli potrà parlare anche nelle cose religiose con quella credibilità oggettiva, con la quale aveva parlato come fisico e come psicologo. Non sempre, soprattutto non quando lo prende il demone della polemica, ma certo quando parla puramente sulla base di ciò che è.

Finalmente veniamo al punto più caratteristico, alle strane frasi:

«Dio d’Abramo, Dio d’Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti ... Dio di Gesù Cristo». Che cosa significa questo?

Si deve essere stati immersi con tutta l’anima in un lavoro filosofico, si deve essere stati infelici per non aver compreso un concetto filosofico, e felici quando invece si chiariva, per poter valutare che cosa significhino queste parole pronunciate da Pascal. Oggi è uso ormai comune sottolineare che Dio, il Dio della vita cristiana, è altro da quello della filosofia.

Dopo che Sören Kierkegaard l’ha detto con così straordinaria acutezza; dopoché quest’uomo, in seguito al crollo della teologia liberale e della filosofia della religione, è stato improvvisamente portato in primo piano, è diventato anzi moderno in un senso tutto particolare, molti lo ripetono a sua imitazione; ma non ci si crede. È detto troppo a buon mercato. Si deve essere autorizzati per dire simili cose. Chi vuol parlare così con diritto, deve essersi affaticato in un onesto lavoro filosofico. Deve essersi sforzato per giungere alla chiarezza e profondità di una autentica conoscenza intellettiva, all’acutezza e all’oggettività universale di un concetto, alla pura necessità di una conoscenza effettiva di leggi e di realtà dell’essere.

Dev’essersi dato pena per raggiungere quello che vuol indicare sant’Anselmo d’Aosta quando dice che conoscere significa vedere che una cosa non può essere diversamente da come viene capita. Deve aver esperimentato l’impazienza della passione del conoscere, la quale ammette come conoscenza soltanto quella dell’Assoluto e dell’Eterno. In questo modo di sentire e di pensare, oggi spesso con assai dubbia attendibilità respinto, è da ravvisare una grande tradizione del pensiero occidentale. Quell’uomo deve aver almeno compreso come si possa credere che la matematica, con la sua rigorosa necessità, sia essa sola propriamente reale conoscenza ... Qualcosa di tutto questo deve realizzarsi perché uno possa avvertire la misura della paradossalità implicita in questa concezione cristiana di un filosofo e matematico: non essere Iddio il «Dio dei filosofi e dei dotti», ma «il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe».

Che cosa mai significa questo?

Quale sarebbe dunque il «Dio dei filosofi»? Quello che s’intende con l’idea dell’Assoluto, quale si può raggiungere attraverso la speculazione sulla realtà esterna, o l’analisi dell’esperienza interiore, o la riflessione sul mondo della logica e dei valori, o in qual si voglia altro modo. Dunque «Causa prima», «Essere supremo», «Idea assoluta», «Legge eterna» o «Valore assoluto» ecc. La caratteristica di questo modo di definire Dio è che lo si cerca di concepire in assoluta incondizionatezza; libero da tutto ciò che può significare in un senso qualsiasi limitazione o finitizzazione, mondanizzamento, antropomorfizzamento. Questo Dio non si può mai pensare assoluto abbastanza.

E in che consiste dunque questa sconcertante scoperta di Pascal? Che cosa gli dà questa gioia balbettante? Pascal sa valutare che cosa significa il lottare per un’autentica comprensione del concetto di Dio. A lui è estranea la sensiblerie moderna, che sente minacciato il ‘religioso’, quando venga elaborato in concetti. Non è credente sul fondamento dell’esperienza vissuta, nel senso moderno dei termini. Ma è la sua esperienza che gli ha mostrato che Dio è «Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti», che Egli è il «Dio di Gesù Cristo». Ciò significa innanzitutto: Dio è Persona.

Cerchiamo di essere molto precisi. Anche questo potrebbe essere inteso di nuovo ‘in senso filosofico’. Ma non lo è. Non s’intende qui assolutamente che Dio è ‘la Persona assoluta’, ‘la Persona per eccellenza’, ma che Egli è precisamente ‘Questo’, che è così e in nessun altro modo. In questo avvertiamo il punto originale.

Quando un uomo, movendo dall’assolutezza del pensiero, dichiara: «Dio è Questo qui», l’affermazione assume un significato eccezionale. Quello che fino allora aveva custodito nei concetti più universali, sottratti ad ogni limitazione e derivati dalla sfera cosmologica o ontologica o ideale, egli osa allora, con tale affermazione, introdurlo nella sfera dei concetti che provengono dalla realtà finita dell’umano accadere, dalla differenziazione tra persone umane, dalla contrapposizione di io e di tu, dalla storia. Per l’innanzi Pascal si sarebbe rifiutato di fare ciò. Questo è appunto lo scandalo del ‘filosofo’ di fronte alla meditazione religiosa: che essa si svolge ‘antropomorficamente’. Per questo appunto egli rifiuta il modo di pensare proprio della religione, in nome dei concetti puri dell’assolutezza. Che cos’è accaduto perché Pascal senta con tale felicità inebriante questo frantumarsi del pensiero puramente filosofico di Dio? Perché abbia la coscienza di trovarsi davanti alla verità solo ora, che è entrato nella sfera dei concetti ‘antropomorfici’? C’è una sola risposta, quella che Pascal stesso accetterebbe, ed è: che Pascal ha incontrato il Dio vivo. Perché questo Dio è appunto tale che di Lui, se si vuol parlare con esattezza, si deve dire: Egli viene, agisce, parla ... Poiché Dio gli è venuto incontro come ‘Questo qui’ e si è verificato un incontro, del quale è possibile parlare soltanto con parole dell’ordine di quelle che si trovano in ogni pagina della Sacra Scrittura.

Dio è Questo qui. «Io sono Colui che sono», ha detto di se stesso in un’ora suprema (Es 3, 14). Egli è Colui che sovranamente è se stesso, il cui Essere vivente non può venir dedotto da nulla, nemmeno dal concetto dell’assolutezza. Tutti i concetti possono predicare qualcosa di Lui, non Lui stesso. Egli supera ogni concetto e giunge ad essere un dato quando Egli si dà. Può essere visto solo quando Egli stesso viene incontro. Di Lui si può parlare solo quando rivolge la parola e sulla base della parola che Egli dice di se stesso.

Questo venir incontro non si realizza in un’esperienza caratterizzabile in termini generali, o in una ascesa del pensiero che prenda le mosse da qualche sfera dell’umano, bensì attraverso una rivelazione storica: un Messia, una parola, un avvenimento. Egli è il «Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe»; degli uomini dunque che vissero a quel tempo, in quel paese, con quel preciso atteggiamento, in quell’ordito storico esattamente documentabile. Ma è proprio questo che costituisce «lo scandalo e la pazzia» per lo spirito rinchiuso nella mentalità filosofica: il dover accettare questo apparente arbitrio di un legame dell’Assoluto con la contingenza storica.

Dio è il «Dio di Gesù Cristo». Quando Filippo chiede: «Signore, mostraci il Padre», Gesù risponde: «Da tanto tempo sono con voi, e voi non mi avete ancora riconosciuto? Filippo, chi vede me, vede il Padre» (Gv 13, 9). Nuovo scandalo per lo spirito esclusivisticamente filosofico, l’idea che Dio non debba essere argomentato dagli indizi della natura, dalle necessità della logica, dalla struttura categoriale della coscienza, dai postulati della prassi, dagli specifici contenuti dell’esperienza del valore religioso, ma debba essere colto nell’essere, nel valore, nell’azione di una concreta figura storica, che visse allora e non prima o più tardi; in quella terra e non altrove; così configurata e non altrimenti. E lo scandalo della esigenza filosofica dell’assolutezza di fronte al mistero irriducibile del fatto storico che deve assumere una significazione normativa per la determinazione di Dio.

Il Dio cristiano è «il Dio di Gesù Cristo». Colui che Gesù intende quando dice: «Padre mio». Colui dal quale Gesù è mandato, del quale Egli vive e al quale è indirizzato. Dio è Colui che è «il Dio e il Padre di Gesù Cristo». Non è possibile scindere il ‘pensiero cristiano di Dio’, la ‘verità cristiana’ dal Cristo concreto. La dottrina cristiana rimane cristiana soltanto finché viene colta, per così dire, dalle labbra di Gesù Cristo; fintantoché viene intesa come vivente di Lui, del suo essere e agire. Non c’è una ‘essenza del cristianesimo’ che sia scindibile da Gesù Cristo – sottolineo e ripeto, che sia scindibile da Lui – e tale da potersi esprimere in un sistema concettuale autonomo La essenza del cristianesimo è Lui. È ciò che Egli è; ciò dal quale viene e al quale è diretto; ciò che vive in Lui e intorno a Lui, sentito dalla sua viva voce e letto dal suo volto. In tutto questo vien posta allo spirito un’affermazione e una richiesta filosofica contro la quale si spezza la filosofia pura: che la categoria ultima del cristianesimo – e categoria significa la condizione a priori per ogni predicazione di una determinata sfera – è il particolare e irripetibile fatto della personalità concreta di Gesù di Nazareth.

E ancora: la via a questo Dio non è la generica esperienza o volontà religiosa, uno sforzo etico o filosofico – fatti tutti che serbano del resto un loro significato – ma quello «che è indicato nell’Evangelo». «Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo vuol rivelare» (Mt 11, 27). «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno giunge al Padre se non attraverso me» (Gv 14,6) . È la via della fede. Fede è quell’atto del personale accostarsi, del legarsi in fedeltà definitiva, in virtù del quale Gesù Cristo diviene l’inizio da cui sorge qualche cosa di nuovo, una esistenza nuova nel più vero e pieno significato del termine. Il credente entra nella prospettiva propria di Cristo.

Nella rinascita e nell’imitazione diviene partecipe del modo di vedere di Cristo; fa suoi i criteri di giudizio, i fini, le valutazioni di Cristo. Questo è per ogni sentire puramente naturale, come un andare e camminare sulle onde. Ma proprio in questo comincia per il credente il ‘regno di Dio’.

Col titolo Sur la conversion du pécheur [Pensées et Opuscules, a cura di L. Brunschvicg, Paris 1912, pp. 196ss] ci è conservata una piccola annotazione, che risale probabilmente al 1655, la quale esprime con grande forza – nel senso del Fr. 793 – l’esperienza della novità di vita, del conquistato nuovo ordine esistenziale:

«La prima cosa che Dio inspira nell’anima che si degna di toccare veramente è una conoscenza e un modo di vedere del tutto straordinario, in forza del quale l’anima considera le cose e se stessa in maniera completamente nuova. Questa nuova luce le cagiona un timore, e le porta una inquietudine che ostacola il riposo ch’essa trovava nelle cose che formavano la sua delizia. Essa non può più tranquillamente gustare le cose che l’incantavano. Uno scrupolo continuo la combatte in questo godimento... Ma essa trova anche maggior amarezza negli esercizi di pietà che nella vanità del mondo. Da una parte, la presenza delle cose visibili la prende più della speranza delle invisibili, e, dall’altra, la solidità delle invisibili la prende più della vanità di quelli visibili. E così la presenza delle une e la solidità delle altre si disputano il suo affetto, e la vanità delle une e l’assenza delle altre provocano la sua avversione, di modo che nasce nell’anima disordine e confusione».

Quello che nell’esperienza vissuta del Memoriale si annuncia come inizio è qui già in pieno dispiegamento.

La nuova e la vecchia forma di coscienza e di giudizio si compenetrano a vicenda e lottano fra loro.

Ciò vale anche per la vita della conoscenza e del pensiero. C’è una nuova realtà, un nuovo piano e una nuova forza visiva. Ora incomincia un lavoro faticoso e mirabile. Le rappresentazioni universali di Dio, i concetti universali di Lui, che pretendevano di essere così ‘puri’, e in un certo senso anche lo erano, vengono immessi in questo apparente antropomorfizzamento. I due mondi d’esperienza e di pensiero, che si possono esprimere con le proposizioni: «Dio è l’Assoluto» e «Dio è Colui che parla attraverso Gesù Cristo» lottano tra di loro. Essi stanno tra loro in tensione, spesso, anzi, almeno apparentemente, in contraddizione, in una contraddizione che si manifesta non solo nel pensiero, bensì anche nel modo tutto con cui la persona concepisce se stessa e il mondo, nell’intero comportamento della sua vita. E si riferiscono alla medesima realtà: il Dio vivo. Il pensiero religioso si sforza di apprendere il modo di pensare che corrisponde alla realtà del Dio vivente, e tale modo è quello della Scrittura e dei Santi. L’intelletto però si oppone, si sente come smarrito, ma avverte al tempo stesso che su quella via si trovano nuovi problemi e nuove forme per dominarli. Il pensiero astratto getta i suoi concetti in questa concretezza. Ma non può disfarsene perché essi contengono una verità. Perciò deve riconquistarli, in modo che essi resistano di fronte a quella concretezza.

Tutto quello che l’onesto lavoro della speculazione come «conoscenza di Dio secondo il modo dei filosofi» ha portato alla luce, conserva il suo valore. E questo valore è grande nonostante gli spregiatori della filosofia di tutti i tempi, anche dell’attuale. Poiché la totalità unitaria dell’essere, così come i presupposti del pensiero e la forza dello spirito, donde questi concetti furono attinti, non hanno una provenienza qualsiasi, non vengono dal male, ma dal medesimo pio che ha parlato in Cristo. Ma la creazione è ordinata alla grazia e viene colta realmente solo quando sia vista in relazione a questa. La moda antifilosofica nel pensiero religioso del nostro tempo si volge contro il 'paganesimo’ della filosofia antica e porta tuttavia già in seno il suo particolare paganesimo... Nasce così una meditazione di una vitalità, di una tensione, di una ricchezza interiore, ma anche di uno sforzo, quali non sono né concessi né richiesti alla semplice meditazione filosofica. Da questo punto solamente si può comprendere che cosa sia quello per cui lottano le Pensées di Pascal.

E tutto il mondo entra in questa tensione. Il mondo non è più ‘il finito’ che viene inteso in riferimento a ‘un Assoluto’, come nella filosofia pura, ma e il mondo del Dio vivo; materia della sua Provvidenza, spazio nel quale Egli viene. Esso è campo delle infinite azioni e degli infiniti avvenimenti, sul quale Egli incontra l’uomo.

Come si deve dunque pensare il mondo? Se esso è tutto questo, e non si possono distruggere né la sua esattezza scientifica, né la sua realtà storica, né le categorie filosofiche, secondo le quali lo si deve pensare con limpidezza speculativa? Come si può, ad esempio, pensare cristianamente in modo esatto il concetto cristiano di Provvidenza, che significa la vivente continuata azione d’amore di Dio nella storia? Pensarlo in modo che esso non si riduca a un ordine razionalistico dell’universo o a un semplice benessere dell’umanità, ma venga a significare proprio quella realtà singolare, potente, del tutto nuova, che Cristo intende quando parla di Provvidenza, senza che vengano tuttavia compromesse la sobrietà e precisione con le quali la scienza e la storia ci hanno insegnato a intendere la realtà? La Provvidenza dunque del Padre, quale si attua non in un mondo fantastico o fanciullesco, o ristrettamente chiesastico, ma nel mondo reale?

Questi sono i compiti.

Quando Pascal visse l’esperienza della quale ci dà notizia nel Memoriale non cessò di essere matematico, fisico, ingegnere, psicologo e filosofo.

La realtà alla quale si indirizzano queste discipline egli l’ha veduta dopo come prima e di quelle discipline era deciso, dopo come prima, a soddisfare le legittime esigenze. Ma una nuova realtà, quella del Dio vivente, gli si era dischiusa oltre l’antica; realtà che non poteva lasciare e nemmeno isolare e chiudere in una speciale sfera, secondo, per esempio, il metodo idealistico della doppia verità. Essa esigeva infatti un ripensamento di tutto il reale, dalla prospettiva che veniva ponendo. Se a un fisico che aveva visto dapprima nel corpo umano soltanto la statica e la dinamica di determinate strutture e forze, un giorno si disvelasse finalmente che cos’è la vita, egli non potrebbe allora fare due scompartimenti, uno per la struttura fisica dell’uomo e l’altro per la sua vitalità. Egli si sentirebbe sollecitato piuttosto a porsi il problema della ‘fisica della vita’, e così i fenomeni fisici finirebbero necessariamente col ricevere, alla luce di quelli più alti della vitalità, una nuova sistemazione. Qualcosa di analogo ancora gli accadrebbe se si dischiudesse la realtà dello spirituale e del personale. Così accade qui su un piano di nuovo più alto - però non semplicemente più alto, ma propriamente e definitivamente alto - di fronte a quell’avvenimento che viene dal cielo, dall’alto: per Pascal il mondo resta il mondo; la filosofia resta la filosofia; ma tutto viene assorbito in un nuovo complesso e al pensiero viene richiesto un nuovo sforzo per la consapevolezza che quel Dio, che il filosofo intende come l’‘Assoluto’, è in realtà il Dio vivo che entra nella storia nella persona di Gesù Cristo; e il rapporto dell’uomo verso Dio, che la dottrina filosofica dell’esistenza concepisce come ‘rapporto con l’Assoluto’, è in realtà la vita del chiamato da Dio tesa verso il Dio vivo.

I potenti frammenti che la successiva attività creatrice di Pascal ci ha lasciati, le Pensées, testimoniano la lotta per venir a capo di questo compito. 

da Romano Guardini, Pascal, tr. it. di Mari Perotti Caracciolo, Morcelliana, Brescia 2002, pp. 40-55.