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Scienza e Religione

Werner Heisenberg
1927

da una conferenza pubblicata su Fisica e oltre. Incontri con i protagonisti del passato 1920-1965

In questo brano, Heisenberg racconta, con stile diretto e scorrevole, di un vivace colloquio svoltosi alla fine degli anni ‘20 tra lui, Pauli e Dirac sulla validità della religione e sull’atteggiamento che Einstein e Planck avevano verso di essa come scienziati. Le posizioni descritte nel brano sono ancora oggi presenti: secondo Planck religione e scienza si occupano di due ambiti diversi e separati del reale e dunque non possono essere in conflitto tra loro, mentre per Pauli e lo stesso Heisenberg tale divisione non può essere accolta perché la religione vuole coprire un ambito che coinvolge tutta la persona e la società e non solo una sua parte “soggettiva”, parere che sembrava essere in parte anche quello di Einstein. Dirac era invece fermamente convinto che la qualsiasi religione fosse “una congerie di asserzioni false, prive di fondamento reale”.

Durante il Congresso Solvay, alcuni dei partecipanti più giovani decisero di passare la serata insieme nel salone del nostro albergo. C’ero anch’io, e Wolfgang Pauli. Poco dopo ci si avvicinò Paul Dirac. “Einstein continua a parlare di Dio”, disse uno di noi, non ricordo chi. “Che senso ha? Chi l’avrebbe mai detto che uno scienziato come Einstein sia tanto abbarbicato ai miti della religione?” “Einstein non è niente in confronto a Planck”, ribatté qualcun altro. “Da come parla si direbbe che non veda contraddizione alcuna tra religione e scienza: a suo parere le due cose sono perfettamente compatibili.”

Mi chiesero se sapessi qualcosa di più preciso sulle idee di Planck circa il rapporto tra scienza e religione, e che cosa pensassi io stesso al proposito. Avevo parlato con Planck solo qualche volta, e perdipiù di argomenti strettamente tecnici; però conoscevo bene alcuni amici intimi di Planck, che mi avevano parlato molto dell’atteggiamento del grande studioso su queste cose. Penso di aver risposto più o meno così:

“Credo che Planck ritenga religione e scienza del tutto compa­tibili perché si occupano di due aspetti diversi del reale. La scienza, studiando il mondo oggettivo e materiale, esige una grande accuratezza nelle affermazioni che facciamo sulla realtà oggettiva e nell’individuazione dei rapporti che intercorrono tra le diverse manifestazioni di questa realtà. La religione invece si occupa del mondo dei valori: tratta del mondo come dovrebbe essere, e non del mondo come è. La scienza si applica a distinguere il vero dal falso; la religione distingue invece il bene dal male, l’azione buona da quella cattiva. La scienza è il fondamento della tecnologia, la religione è la base dell’etica. In poche parole, mi sembra che il conflitto tra scienza e religione, che scoppia essenzialmente nel Settecento, nasca da un equivoco: o, più esattamente, dal fatto che si è voluto attribuire alle immagini e alle parabole della religione il valore di enunciati scientifici. È evidente che si tratta di un’operazione priva di senso. Io ho imparato dai miei genitori a distinguere tra aspetti soggettivi e aspetti oggettivi del mondo: degli uni si occupa la religione, degli altri la scienza. La scienza è per così dire il modo in cui affrontiamo e discutiamo il lato oggettivo del reale. La fede religiosa è invece l’espressione delle decisioni soggettive con cui scegliamo i criteri mediante i quali ci proponiamo di agire e di vivere. È vero che normalmente prendiamo queste decisioni a seconda degli atteggiamenti del gruppo — famiglia, nazione o cultura — cui apparteniamo. I fattori ambientali hanno dunque un peso decisivo, ma si tratta pur sempre di decisioni soggettive e dunque non rette dal criterio di ‘verità’ o ‘falsità’. Planck, mi pare, ha fatto uso di questa libertà finendo per schierarsi a fianco della tradizione cristiana. Ciò significa che i suoi pensieri e le sue azioni, che soprattutto attengono alla sfera delle scelte personali, s’inquadrano perfettamente nell’alveo di questa tradizione: nessuno si sogna di criticarlo, per questo. Planck, insomma, ritiene che l’aspetto soggettivo del reale sia nettamente distinto da quello oggettivo. In quanto a me, devo confessare che questa distinzione così rigida mi lascia perplesso: non credo che una distinzione così netta tra fede e conoscenza si possa mantenere anche sul piano del pensiero collettivo”.

Anche Wolfgang era, come me, poco convinto. “Certamente una distinzione del genere non può durare a lungo. Le religioni nascono per inquadrare in una dimensione spirituale, basata in gran parte su valori e concetti di tipo religioso, tutte le conoscenze di una società. È necessario che questa dimensione spirituale sia alla portata anche degli individui più modesti: basta che le immagini e le allegorie della religione comunichino anche solo un’ombra vaghissima dei valori e delle idee su cui essa si fonda. Ma, per persuadere l’individuo a vivere secondo questi valori, occorre convincerlo che la dimensione spirituale comprende tutte le conoscenze dell’uomo. Ed ecco che ‘credere’ non equivale tanto ad ‘accettare acriticamente’ quanto ad ‘affidarsi alla direzione’ dei valori istituzionalizzati. Questo è il motivo per cui tutta la società è messa a rischio ogni volta che nuove conoscenze minacciano di sconvolgere l’antico ordine spirituale. La separazione completa tra conoscenza e fede può essere tuttalpiù una misura d’emergenza che apporta un sollievo solo momentaneo. Credo che nella nostra cultura occidentale si possa benissimo arrivare, in un futuro non troppo remoto, al punto in cui le immagini e le allegorie delle religioni avranno perso ogni forza di convinzione anche presso le persone più modeste; e quando ciò accadrà ho paura che gli antichi valori etici crolleranno come un castello di carte, e che gli uomini perpetreranno orrori inimmaginabili. In conclusione, non condivido la filosofia di Planck, anche se la ritengo valida da un punto di vista logico e rispetto l’etica che ne deriva.

“Sono, in questo, più vicino a Einstein, per cui Dio è in qualche modo presente nelle leggi immutabili della natura. Einstein ha una sensibilità particolare per il principio d’ordine che governa la natura, e che egli scopre nella semplicità delle leggi naturali: semplicità che egli ha percepito con grande immediatezza elaborando la teoria della relatività. Certo, c’è una bella distanza da qui alle religioni tradizionali; comunque, non credo che Einstein sia legato a una qualsivoglia tradizione religiosa, e ho l’impressione che il concetto di un Dio personale gli sia completamente estraneo. Secondo Ein­stein non esiste separazione tra scienza e religione: il principio d’ordine partecipa contemporaneamente della sfera soggettiva e di quella oggetti va: mi sembra, questo, un punto di partenza di gran lunga migliore.”

“Ma un punto di partenza per che cosa?” chiesi io. “Puoi dirti d’accordo con Einstein solo a patto di fare, della percezione di questo principio d’ordine, una faccenda strettamente personale: e ciò significa che da questa impostazione non si esce.”

“Forse non è così”, mi contraddisse Wolfgang. “Tieni presente che i progressi che la scienza ha compiuto da due secoli a questa parte hanno senza dubbio modificato il modo di pensare degli uomini: e ciò anche al di fuori dell’Occidente cristiano. Direi quindi che quanto ci dice la fisica ha un’importanza più che marginale. E lo scontro tra la scienza e la dimensione spirituale offerta dalle varie religioni è nato proprio dall’idea di un mondo oggettivo che funziona secondo meccanismi suoi nello spazio e nel tempo secondo rigorose leggi causali. Se la scienza andrà oltre questa angusta impostazione — come ha fatto con la teoria della relatività e, in misura forse maggiore, probabilmente farà con la teoria dei quanti — allora muterà ancora una volta il rapporto tra la scienza e quel che le religioni cercano di esprimere. Ho l’impressione che la scienza, rivelando nel corso degli ultimi trent’anni nuove e più profonde interrelazioni tra le cose, abbia conferito al pensiero umano un’acutezza nuova. Prendi ad esempio il concetto di complementarità, che secondo Bohr è fondamentale nell’interpretazione della teoria dei quanti: si tratta di un concetto non certo ignoto alla filosofia, per quanto espresso forse in modo meno incisivo. Ma la novità consiste proprio nel fatto che questo concetto è entrato nelle scienze esatte: l’idea che gli oggetti materiali siano completamente indipendenti dal modo in cui li osserviamo si è rivelata nient’altro che un’astrazione, un prodotto dell’intelletto che non trova corrispettivo in natura. Nelle filosofie e nelle religioni d’Oriente troviamo invece l’idea di un puro soggetto di conoscenza, di fronte al quale non vi è oggetto: anche qui siamo probabilmente di fronte a un’astrazione pura, non corrispondente ad alcuna realtà mentale o spirituale. Se applichiamo queste riflessioni a un più ampio contesto, direi che probabilmente saremo costretti a seguire, in futuro, una via di mezzo tra queste due posizioni estreme e, forse, la via che Bohr ci indica con il suo concetto di complementarità. E qualsiasi sistema di pensiero fondato su questa impostazione si mostrerà non solo più tollerante verso le religioni di ogni tipo, ma, godendo di una più ampia prospettiva potrà portare un suo contributo anche al mondo dei valori.”

Intervenne a questo punto Dirac che, appena venticinquenne, non apprezzava appieno la virtù della tolleranza. “Non capisco perché mai stiamo a parlare di religione”, disse. “Se siamo onesti — e in quanto scienziati l’onestà è un nostro preciso dovere — non si potrà fare a meno di ammettere che qualsiasi religione è una congerie di asserzioni false, prive di ogni fondamento reale. L’idea stessa di Dio è un prodotto dell’immaginazione dell’uomo. Capisco perfettamente che l’uomo primitivo, più esposto alle incontrollabili forze della natura, abbia personificato queste forze mosso dalla paura. Ma oggi ne sappiamo di più sull’universo, e non abbiamo più bisogno di questi espedienti. Vi assicuro che non riesco a capire in cosa può esserci utile postulare l’esistenza di una divinità onnipotente; capisco solo che un postulato del genere non porta ad altro che a sterili interrogativi: perché Dio permette l'esistenza del male e del dolore, o lo sfruttamento dei poveri da parte dei ricchi, o altri mali che Egli avrebbe potuto facilmente evitare? Se oggi esiste ancora un insegnamento religioso, sappiamo benissimo che ciò avviene non perché la religione ci convinca, ma per tenere tranquille le classi subalterne. È più facile governare dei sudditi disarmati e pacifici piuttosto che individui insoddisfatti che protestano; ed è più facile sfruttarli, anche. È già stato detto: la religione è come l’oppio: i popoli si cullano con sogni visionari dimenticando le ingiustizie e lo sfruttamento reali. Di qui l’alleanza tra le due grandi forze politiche dello Stato e della Chiesa. Entrambe trovano comoda l’illusione che un Dio buono ricompensi — se non in questo mondo, nell’altro — coloro che non si sono levati contro l’ingiustizia ma che si sono sottomessi docilmente e magari con gratitudine ai doveri che vengono loro imposti. E questo è il motivo per cui dire onestamente e francamente che Dio è solo una creazione dell’immaginazione degli uomini è considerato il più nero di tutti i peccati mortali.”

“Non si può giudicare la religione, come tu fai, solo in base alla strumentalizzazione politica che ne viene fatta”, obiettai. “Questo perché ogni cosa di questo mondo è suscettibile di strumentalizzazione: anche l’ideologia comunista di cui poco fa ti sei fatto portatore. Tieni presente che sempre esisteranno le società degli uomini, e che deve per forza esistere una lingua comune in cui parlare della vita e della morte, e della più ampia cornice in cui si svolge il nostro esistere. Questa ricerca di una lingua comune ha portato, nella storia, all’elaborazione di forme spirituali dotate necessariamente di grande forza di persuasione: come altrimenti avrebbero potuto tanti uomini vivere con esse e per esse durante tanti secoli? Non si può liquidare sommariamente la religione sulla base di considerazioni come le tue. Ma forse tu sei così critico perché senti il bisogno di un’altra e nuova religione in cui non si dia l’idea di un Dio personale”.

“Io non apprezzo nessun mito religioso — rispose Dirac — se non altro perché si contraddicono l’un l’altro. Sono nato in Europa e non in Asia solo per caso: non vedo perché ciò dovrebbe costituire un criterio di giudizio per stabilire che cosa è vero o in che cosa dovrei credere. Io posso credere solo in ciò che è vero. E in quanto al retto comportamento, posso giungere a stabilirlo per mezzo della ragione soltanto in base alla situazione in cui mi trovo: poiché vivo in società con altri, devo attribuire a questi gli stessi diritti che reclamo per me. Cerco di essere equo: non mi si può chiedere altro. E le chiacchiere sulla volontà di Dio, sul peccato e sul pentimento, su un mondo oltre questo verso il quale dobbiamo tendere, ad altro non servono che a nascondere questa nuda verità. Credere in Dio c’incoraggia a pensare che Dio vuole che noi ci sottomettiamo a una forza superiore: idea utilissima per mantenere certe strutture sociali che magari hanno avuto senso in passato, ma che certo non hanno più posto nel mondo moderno. Trovo inaccettabili tutti questi discorsi sulla cornice più ampia e compagnia bella. La vita, in fondo, è come la scienza: vivere significa incontrare difficoltà e cer­care di superarle. E le difficoltà si vincono solo una alla volta: la tua cornice più ampia non è che una sovrastruttura mentale aggiunta a posteriori.”

La discussione andò avanti su questo tono per un bel pezzo. Stranamente, Wolfgang non disse più una parola. Vedevo che ogni tanto cambiava espressione, o sorrideva con l’aria di chi la sa lunga, ma sempre senza intervenire. Alla fine fummo noi a dovergli chiedere il suo parere. Ciò lo sconcertò per un attimo, ma si riprese subito. “Beh, direi che anche il nostro amico Dirac ha una religione, e il primo comandamento di questa religione è ‘Dio non esiste e Paul Dirac è il suo profeta’.” Tutti scoppiammo a ridere, anche Dirac, e poco dopo la compagnia si sciolse.

Qualche tempo dopo, credo a Copenaghen, parlai di questo con Bohr. Egli prese immediatamente le difese di Dirac. “Trovo degno di lode — disse — che Paul si sia battuto senza compromessi per difendere tutto ciò che si può esprimere con linguaggio chiaro e logico. Egli è convinto che ciò che si può esprimere, si può espri­mere con chiarezza: o, per dirla con Wittgenstein, che ‘su ciò di cui non si può parlare si deve tacere’. Dovresti vedere i manoscritti che mi invia Dirac: la grafia è così chiara, l’assenza di correzioni così assoluta, che solo il guardarli è fonte di piacere estetico. Se suggerisco l’opportunità di cambiamenti anche minimi, Paul se la prende moltissimo e comunque non cambia nulla. Il suo lavoro è del resto estremamente brillante. Siamo andati di recente insieme a una mostra di pittura dove c’era una marina di Manet tutta giocata su stupende sfumature di grigio e di blu: si vedeva in primo piano una barca accanto alla quale stava, nell’acqua, una forma grigia non immediatamente riconoscibile. ‘Quella cosa lì è inammissibile’, ha commentato Paul. Riconosco che si tratta sì di un modo piuttosto strano di accostarsi all’arte, ma non per questo del tutto infondato. Nell’arte, come nella scienza, ogni particolare va descritto con la massima chiarezza e attenzione: non c’è posto per il caso.

“Tuttavia la religione è qualcosa di più complesso. Come per Dirac, l’idea di un Dio personale mi è estranea. Dobbiamo però tener presente che la religione impiega la lingua in modo diverso dalla scienza: la lingua della religione è, semmai, più vicina a quella della poesia. È vero che siamo portati a credere che la scienza si occupi di informazioni relative a fatti oggettivi, mentre la poesia tratta essenzialmente di fatti soggettivi: ne concludiamo quindi che se la religione vuole occuparsi di verità oggettive bisogna che adotti gli stessi criteri di verità della scienza. Ma per parte mia trovo la divisione del mondo in una sfera oggettiva e una soggettiva operazione troppo arbitraria. Da sempre le religioni hanno parlato per immagini, per parabole, per paradossi: ciò significa che non vi è altro modo per riferirsi a quel tipo di realtà cui la religione si applica. Ciò, naturalmente, non significa che si tratti di una realtà solo immaginaria. E questo modo di ripartire il reale in una sfera oggettiva e una soggettiva non credo ci possa portare molto lontano.

“Ecco perché sostengo che i progressi compiuti dalla fisica negli ultimi decenni hanno esercitato un influsso liberatorio sul pensiero: perché hanno dimostrato che i concetti di ‘soggettivo’ e di ‘oggettivo’ sono oltremodo problematici. Tutto comincia con la teoria della relatività. In passato, dire che due eventi sono simultanei era considerato un enunciato significativo e oggettivo, comunicabile con facilità e verificabile da qualsiasi osservatore. Oggi sappiamo che nel concetto di simultaneità è incluso un aspetto soggettivo: due eventi che appaiono simultanei a un osservatore in quiete non sono necessariamente simultanei per un osservatore in movimento. Tuttavia la teoria della relatività non relativizza integralmente il reale: è oggettiva in quanto ogni osservatore può dedurre, ricorrendo a calcoli, che cosa un altro osservatore ha percepito in passato o percepirà in futuro. Siamo comunque molto lontani dal concetto classico di descrizione oggettiva.

“Questa lontananza si fa ancora maggiore nella meccanica quantistica. Ancora possiamo impiegare il linguaggio ‘oggettivo’ della fisica classica per avanzare enunciati relativi ad alcuni fatti osservabili. Possiamo ad esempio dire che una pellicola fotografica è stata esposta, o che si sono formate goccioline d’acqua. Ma sugli atomi non possiamo dire nulla. E le previsioni che possiamo eventualmente avanzare sulla base di queste scoperte dipendono dal nostro modo di porci nella situazione: e in quest’ambito l’osservatore ha libertà di scelta. Naturalmente, non fa differenza se l’osservatore sia un uomo, un animale o una macchina: però non è più possibile avanzare previsioni senza tener conto dell’osservatore o delle modalità d’osservazione. In questo senso ogni processo fisico ha un aspetto soggettivo e uno oggettivo. Oggi sappiamo che il mondo oggettivo della scienza ottocentesca era in effetti solo una riduzione, una idealizzazione, che non rappresenta tutto il reale. È probabile che in futuro si dovrà ancora, nell’accostamento al reale, distinguere tra sfera soggettiva e sfera oggettiva, e tracciare una linea di separazione tra questi due ambiti. Ma dove esattamente corre questa linea di separazione dipende dal modo in cui si guarda alle cose: in una certa misura siamo liberi di stabilire questo confine. Ecco perché capisco benissimo l’impossibilità di parlare di questioni religiose impiegando un linguaggio oggettivo: e che religioni diverse si esprimano ricorrendo a differenti forme spirituali è un’obiezione priva di fondamento. Sono forme diverse ma forse complementari l’una all’altra, sebbene possano escludersi a vicenda, e tutte necessario per dare un’idea delle vastissime possibilità inerenti al rapporto dell’uomo con il principio d’ordine.”

“Ma se si fa una distinzione così recisa tra i linguaggi della religione, della scienza e dell’arte — chiesi — che significato si può attribuire a enunciati apodittici quali ‘esiste un Dio vivente’ o ‘esiste un’anima immortale’? Che cosa significa ‘esiste’ in un linguaggio di questo tipo? La scienza, come Dirac, non può accettare queste formulazioni. Forse posso meglio illustrare l’aspetto epistemologico del problema ricorrendo a un’analogia. In matematica, come tutti sanno, s’impiega un’unità immaginaria: la radice quadrata di –1, i. Sappiamo che i non figura tra i numeri naturali: nondimeno, alcune importanti branche della matematica, ad esempio la teoria delle funzioni analitiche, si fondano su questa unità immaginaria; si fondano, cioè, sul fatto che la radice quadrata di – 1 esista veramente. Tu saresti disposto ad accettare il fatto che l’enunciato ‘esiste la radice quadrata di – 1’ equivale a ‘esistono importanti relazioni matematiche che si possono utilmente rappresentare semplicemente introducendo il concetto di radice quadrata di – 1’? Tieni presente che tali relazioni matematiche esisterebbero comunque anche senza l’introduzione di questo concetto: e proprio questo è il motivo per cui questo tipo di matematica si rivela di grande utilità anche nella scienza e nella tecnologia. Nella teoria delle funzioni, ad esempio, ha importanza fondamentale l’esistenza di leggi matematiche che reggono il comportamento di due variabili continue. È possibile rendere più comprensibili queste relazioni introducendo il concetto astratto di radice quadrata di – 1: ciò sebbene tale concetto non sia di per sé indispensabile e non abbia un correlato reale tra i numeri naturali. Egualmente astratto è il concetto di infinito, che ha anch’esso un peso importantissimo nella matematica moderna. Anch’esso non ha un corrispettivo reale, e solleva perdipiù gravi problemi. In conclusione, la matematica introduce livelli sempre più elevati di astrazione che ci permettono di comprendere ambiti sempre più vasti. Comunque, tornando alla domanda che ti ho rivolto prima, è corretto considerare l’espressione ‘esiste’ impiegata dalle religioni solo come un altro, per quanto differente, tentativo di conseguire livelli di astrazione ancora più elevati? Un tentativo di facilitare la nostra comprensione di certe connessioni universali? Dopotutto le connessioni sono reali, a prescindere della forma spirituale in cui si cerca di ordinarle.”

“La tua analogia è accettabile solo da un punto di vista epistemologico — ribatté Bohr — ma da altri punti di vista è del tutto inadeguata. In matematica possiamo mantenere le distanze tra noi e il contenuto dei nostri enunciati: l’analisi matematica in definitiva è un gioco al quale possiamo decidere di giocare o meno. La religione, invece, ha come oggetto noi stessi, la vita e la morte: le premesse su cui si fonda sono intese a dirigere le nostre azioni e quindi, se non altro indirettamente, la nostra stessa esistenza. Non possiamo osservare la religione impassibili, dall’esterno. Inoltre, è impossibile separare il nostro atteggiamento di fronte alle questioni religiose dall’atteggiamento con cui ci poniamo di fronte alla società. Anche se la religione fosse solo la sovrastruttura spirituale di una determinata società umana, è da stabilire se non sia proprio la religione la forza che per tutta la storia ha plasmato la società, oppure se non sia la società che, una volta formatasi, sviluppa nuove strutture spirituali adattandole al livello delle proprie conoscenze. Oggi l’individuo è più libero che in passato di scegliere liberamente il quadro spirituale in cui far rientrare i suoi pensieri e le sue azioni; e questa libertà rispecchia il fatto che i confini tra le varie culture e le varie società si stanno facendo più fluidi e incerti. Ma anche se l’individuo cerca di conseguire la massima indipendenza sarà sempre condizionato — consapevolmente o meno — dalle strutture spirituali esistenti. Infatti bisogna che egli possa parlare della vita e della morte, o della condizione umana, con gli altri individui che compongono la società in cui egli vive; e poi deve educare i suoi figli secondo le norme tipiche di quella società. L’individuo non può certo raggiungere questi obiettivi se indulge a sofismi epistemologici. Anche qui, tra il pensiero che indaga criticamente il contenuto di una certa religione e l’azione fondata sulla deliberata accettazione di questo contenuto, esiste una complementarità. E un’accettazione di questo genere, se consapevole, conferisce all’individuo forza e fiducia nei suoi scopi, lo aiuta a vincere i dubbi e, nella sofferenza, lo conforta consolandolo con la sensazione di trovarsi al riparo sotto un tetto che tutto abbraccia. Così la religione contribuisce a rendere più armoniosa la vita sociale ricordandoci, con il linguaggio delle immagini e delle parabole, della più ampia cornice in cui la nostra vita è inserita.”

“Tu continui a parlare di libera scelta individuale — obiettai — paragonandola alla libertà di scelta che ha il fisico atomico nel progettare i suoi esperimenti in questo o quel modo. In fisica classica, però, questa libertà non esiste. Ciò significa che gli aspetti caratteristici della fisica moderna hanno una più diretta rilevanza con il problema del libero arbitrio? Come sai, spesso si ricorre all’impossibilità di determinare completamente i processi atomici per ricavarne l’effettiva esistenza del libero arbitrio o dell’intervento divino.”

“Ho l’impressione che questo modo di accostarsi al problema si fondi su un equivoco o, meglio, sul fatto che si confondono diverse questioni che, a parer mio, comportano differenti, per quanto complementari, modi di guardare alle cose. Parlando di libero arbitrio, ci riferiamo a una situazione in cui occorre prendere delle decisioni. Questa situazione ne esclude altre: quella in cui, ad esempio, analizziamo le motivazioni delle nostre azioni, o quella in cui studiarne i processi fisiologici, ad esempio i processi elettrochimici che hanno luogo nel cervello. O, se preferisci, si tratta di situazioni complementari: quindi, chiedersi se le leggi naturali determinano gli eventi in modo assoluto o solo statistico non è questione che abbia rilevanza diretta con il problema del libero arbitrio. È ovvio che i diversi modi di guardare alle cose devono, alla lunga, convergere in un quadro complessivo: il che equivale a dire che bisogna giungere a considerarle frazioni della stessa realtà non in contraddizione tra loro. Quando si parla di intervento divino, è evidente che non ci riferiamo alla determinazione di un evento in senso scientifico, ma all'esistenza di un collegamento significativo tra questo evento e altri, o tra questo evento e il pensiero umano. Ora, questo collegamento intellettuale rientra nella realtà a buon diritto quanto il principio scientifico della causalità: sarebbe rozzamente semplicistico ascriverlo esclusivamente alla sfera soggettiva del reale. Anche qui le scienze naturali ci offrono una situazione analoga da cui possiamo trarre utili insegnamenti. Esistono ben note relazioni biologiche che descriviamo riferendoci non a un principio di causalità, ma piuttosto di finalismo: tenendo cioè presenti non tanto le cause da cui derivano ma i fini cui tendono. Pensiamo ad esempio ai processi di rigenerazione che intervengono in un organismo vivente in seguito a ferite o a malattie. L’interpretazione finalistica è legata in modo caratteristico e complementare con l’interpretazione fondata sulle leggi fisico-chimiche o atomiche. Infatti, in un caso ci chiediamo se il processo di guarigione porta effettivamente al fine desiderato, cioè alla restaurazione nell’organismo delle condizioni normali; nell’altro, ci interroghiamo sulla catena di cause che determina i processi molecolari. Si tratta di due approcci che si escludono l’un l’altro, ma che non per questo sono contraddittori. Abbiamo ottime ragioni per ritenere che le leggi della meccanica quantistica si riveleranno valide non solo per la materia inorganica, ma anche per gli organismi viventi. In quanto a ciò, anche un approccio finalistico è altrettanto valido. Sono convinto che, se non altro, i progressi della fisica atomica ci hanno mostrato la necessità di imparare a pensare in modo più acuto e penetrante che non in passato.”

“Come vedi, torniamo sempre all’aspetto metodologico della religione”, gli feci notare. “Dirac però se la prendeva più che altro con l’aspetto etico. Egli condanna soprattutto la disonestà intellettuale e la voluta miopia che spesso troviamo accostati al pensiero religioso. Ma ho paura che la sua avversione l’abbia spinto a diventare un fanatico sostenitore del razionalismo; e ho l’impressione che il razionalismo non basti.”

“Ritengo che Dirac abbia fatto bene a condannare con tanto vigore i pericoli della disonestà intellettuale e delle contraddizioni interne”, concluse Bohr. “E Wolfgang ha fatto egualmente bene ad ammonire scherzosamente Dirac facendogli capire come sia difficile sfuggire completamente a questi rischi. Mi ricordo — continuò accingendosi a raccontare un aneddoto, come faceva di solito in queste occasioni — di un mio vicino, a Tisvilde, che una volta inchiodò un ferro da cavallo alla porta. ‘Ma è davvero superstizioso?’ gli chiese un amico comune. ‘Davvero è convinto che questo ferro da cavallo le porterà fortuna?’ Quello rispose: ‘No, naturalmente; però dicono che funziona anche se non ci si crede.’”

   

Werner Heisenberg, Fisica e oltre. Incontri con i protagonisti 1920-1965, Boringhieri, Torino 1984, pp. 92-103.