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L’importanza del Libro della natura per il lavoro dei teologi

Tommaso Campanella
1616

Apologia per Galileo

Nel contesto della questione copernicana e delle tensioni che essa generava fra teologia e scienze, Tommaso Campanella indica la ricerca scientifica come strumento necessario per giungere alla verità delle cose. Lungi dall’essere un ostacolo alla fede lo studio della natura e delle scienze vengono proposti come mezzi per comprendere e divulgare la sana dottrina. Per questo egli scrive: “Il vero non contraddice il vero, e neppure l’effetto la causa: dunque neanche la scienza umana contraddice quella divina, né l’opera di Dio, Dio”. In questo brano della Dimostrazione della prima asserzione, tratta dall’opera Apologia per Galileo, scritta nel 1616 e pubblicata nel 1622, vi proponiamo le tesi con cui Campanella suggerisce ai teologi l’uso del “Libro della Natura” per comprendere quanto Dio, al pari della Scrittura, ha voluto rivelare attraverso la creazione.

Dimostrazione della prima asserzione

Sebbene al cristiano sia sufficiente conoscere ciò che deve credere per conseguire la felicità eterna, come afferma San Tommaso (Summa Theologia, II-II, qq. 8 e 9) e con lui tutti i teologi, questo tuttavia non èsufficiente al teologo che ha il compito di «esortare gli altri alla sana dottrina e di convincere gli avversari del loro errore», come sostiene l'Apostolo [1], e con lui tutti i Padri. Poiché infatti il teologo deve esaminare tutte le cose secondo la causa prima, che è Dio, e non secondo cause soltanto inferiori, così come fanno gli altri maestri sapienti, è opportuno che egli conosca tutte le scienze, per conoscere lo stesso Dio, che è il suo principale oggetto, e tutte le sue opere, in modo tale che nel caso una data scienza, trattando di Dio e delle sue opere secondo parametri umani, affermasse cose contrarie alla scienza divina, egli possa combatterla ribattendone gli argomenti. E infatti il vero non contraddice il vero, e neppure l'effetto la causa: dunque neanche la scienza umana contraddice quella divina, né l'opera di Dio, Dio, come viene ammonito dal Concilio Lateranense sotto Leone X. Pertanto San Tommaso nell'opuscolo Contro coloro che avversano gli ordini religiosi, per il fatto che i frati si dedicavano alla scienza e all'arte profana, dimostra che essi sono ciechi e non vedono quanto le scienze siano necessarie al teologo e non solo utili. Perciò la teologia, sebbene non necessiti per sua natura di prove tratte dalla scienza umana, tuttavia di queste ne ha bisogno la nostra natura, affinché possiamo irrobustirci nella fede e intendere dalle cose sensibili e naturali quelle soprannaturali. E questo è dimostrato dalle testimonianze di Agostino, Girolamo, Dionisio e di altri Padri i quali insegnarono cosa si doveva fare, e lo fecero essi stessi. Dice Girolamo, nella Lettera a Magno [2] «perché tu non sappia ciò che devi ammirare prima in quelli: l'erudizione profana o la scienza biblica», e aggiunge che per queste ragioni l'apostolo Paolo aveva letto i poeti e i filosofi, che citava anche spesso. E San Gregorio nei Libri morali, spiegando il testo di Giobbe «che ha creato Arturo e Orione» [3] dice che esso è ricavato dalla dottrina degli astronomi profani [4]. La medesima dottrina dimostrano i Padri e San Tommaso (Summa theologiae, I, q. 1) dal detto di Salomone: «La sapienza» cioè la teologia «chiamò alla rocca le ancelle» cioè le scienze [5]. Anzi è chiaro che tutto il genere umano, non questo o quell'individuo, è tenuto a dedicarsi alle scienze. Infatti Dio creò l'uomo, affinché lo conoscesse, e conoscendolo lo amasse, e amandolo ne godesse; per questa ragione l'uomo è stato creatorazionale e dotato di sensi. Invece l'uomo, se è vero che la ragione è fatta per le scienze, e se egli non utilizzasse questo dono di Dio secondo il progetto divino, agirebbe contro l'ordine naturale di Dio — come suole notare Crisostomo — quasi non volesse usare i piedi per camminare. Perciò Aristotele dice: «Tutti gli uomini desiderano conoscere per natura» [6]. E Mosè nel cap. 2 del Genesi: «Dio collocò l'uomo nel paradiso, affinché lo coltivasse e lo custodisse» [7]. Ma non si trattava di un lavoro manuale, o di custodire gli animali, poiché egli allora viveva senza fatica di tutto quello che nasceva spontaneamente e tutti gli animali gli obbedivano: si trattava invece di un lavoro sull'indagine delle cose, e di un'osservazione sulle realtà celesti e naturali, lavoro che proviene dall'ammirazione, affinché da ogni cosa potesse risalire alla causa prima, poiché era vincolato ad adorare Dio (cosa che senza una previa conoscenza non può essere fatta «poiché» come testimonia l'Apostolo «i misteri invisibili di Dio si contemplano mediante le cose create» [8]. Ciononostante, sebbene tutte le scienze furono infuse in Adamo, tuttavia non aveva quella sperimentale. E questo precetto gli fu dato, non in quanto persona, ma perché padre del genere umano, e quindi anche nostro, dal quale discendiamo, come rendono testimonianza i Padri. Così dice Davide: «Cercate Dio e l'anima vostra vivrà» [9] ma non può essere cercato da noi se non nelle cose naturali create da Dio, cosi come si ricerca la causa nell'effetto. E altrove dice: «Mirabili sono le tue opere, perciò l'anima mia le ha scrutate» [10]. E Salomone dichiara, benché dotato di scienzainfusa, di aver diligentemente indagato su tutte le realtà che sono sotto il Sole [11]; e nel cap. 7 della Sapienza rivela di conoscere tutte le realtà naturali, matematiche, astronomiche e logiche, e nel III Libro dei Re si dice che egli disputò su tutte le realtà fisiche, e che scrisse, come vogliono alcuni, sulle erbe, gli uccelli, le pietre e i pesci. Per questo il mondo fu chiamato sin dall'inizio «Sapienza di Dio» (come è stato rivelato a Santa Brigida), e «libro», affinché tutti potessimo leggerlo. Perciò San Leone nel Sermone VII, Sul digiuno del decimo mese, dice: «Per questi stessi elementi del mondo, come se fossero pagine aperte, noi comprendiamo il significato della volontà divina» [12]. E nel Sermone VII [13] dimostra la medesima cosa dal fatto che «i cieli narrano la gloria di Dio» ecc., e «i misteri invisibili di Dio per mezzo delle cose create», ecc. E di certo, come dice Cirillo nel libro I Contro Giuliano: «la filosofia è un catechismo che induce alla fede» [14], colui che disprezza quella, avversa anche la fede. E perciò Bernardo nel sermone, Ascolterò ciò che il Signore parla in me, scrive che il mondo è il codice di Dio nel quale dobbiamo continuamente leggere [15]. Lo stesso disse Sant'Antonio — come testimonia Niceforo — e il Crisostomo commentando il versetto del Salmo 147: «Non fece così a nessuna nazione», affinché nessuno possa sentirsi giustificato dal fatto di non aver ricevuto la legge. Infatti: «il loro suono si diffuse su tutta la Terra» [16].

Corollario. - E poiché le cose che sono più mirabili ed eccellenti, rappresentano meglio Dio, loro creatore, esse, proprio per questo motivo debbono essere indagate con maggior studio; anche perché da questo studio si dimostra la divinità dell'anima umana. Tali sono il cielo, le stelle e i maggiori sistemi dell'universo. E per questo Anassagora disse che l'uomo era stato fatto, per contemplare il cielo. E Ovidio è ampiamente lodato da tutti i teologi, e in modo particolare da Lattanzio [17] per il seguente motto, che dice di Dio: «Mentre gli altri animali guardano proni la terra, diede all'uomo un volto eretto, e gli comandò di guardare il cielo, e di sollevare gli occhi per guardare le stelle».

Davide, invece, rendendone ragione nel Salmo 18, canta: «I cieli narrano la gloria di Dio, e le sue opere annunciano il firmamento. E nel Salmo 8: «Poiché vedrò i tuoi cieli, opere delle tue mani, la Luna e le stelle, che vi fondasti». Anche Platone nell'Epinomide e nell'Assioco (ammesso che questo non sia di Senofonte), dalla conoscenza delle realtà celesti, le stelle, gli equinozi, l'eclissi e simili, inferisce l'immortalità dell'anima, la dignità dell'uomo e la sua divinità; lo stesso abbiamo fatto noi nell'Antimachiavellismo. Ovidio poi lo conferma, dicendo agli astronomi: «Felici gli spiriti di coloro che si sforzano di conoscere queste cose, e di ascendere alle supreme sfere. Essi avvicinarono ai nostri occhi gli astri, e sottoposero lo spazio etereo al loro ingegno»[18].

[…]

Il fatto poi che non sia vana l'ulteriore indagine, è dimostrato dal desiderio sempre più intenso di imparare. Ancora San Bernardo, nei capp. 4 e 5 Sulla considerazione ad Eugenio, dice: «Sebbene sia impossibile sapere chi sia Dio, tuttavia lo si ricerca sempre con grandi frutti». Dunque lo studio intorno alle cose celesti ha come fine Dio, che è sempre il frutto della nostra indagine. Infatti, anche se non comprendiamo perfettamente quel Dio che, come dice Paolo agli Ateniesi, siamo obbligati a ricercare, tuttavia ne scopriamo sempre qualcosa in più, che piano piano ci fa innalzare verso di lui. Ed è meglio (dice Aristotele nel libro I del De Anima) avere delle cose grandi, poche conoscenze probabili, che molte conoscenze dimostrate ma di piccole cose. Per questo motivo gli Egiziani, dopo i Caldei, scoprirono molte cose riguardanti l'astronomia, e in seguito, molte ne scoprirono i Greci. Ora molte scoperte sono fatte dai Tedeschi e dagli Italiani. Perciò suscita stupore che Galileo scopra immense scene dell'universo, nelle quali Dio rappresenta la magnificenza del suo amore, della sua potenza e della sua sapienza. Ecco perché i santi Leone, Antonio, Bernardo, Cristostomo e altri, dicono che il mondo è il codice di Dio, che è necessario indagare con scrupolosità. Per questa ragione in un suo sermone Bernardo, insegna che coloro che non hanno avuto la grazia di indagare Dio nelle cose soprannaturali, lo debbano ricercare in quelle naturali: da queste, infatti, ci eleviamo a quelle. Il medesimo concetto ci attesta egregiamente Riccardo di San Vittore nei libri Beniamino (nel sermone sulla contemplazione). La ragione, infatti, conferma questi motivi. Se infatti Dio ha creato questo mondo per la sua gloria, come dice Salomone [19] vuole anche essere da noi ammirato e lodato; e vuole essere celebrato lui, suo creatore, così come un pittore e un poeta erudito vogliono che i loro dipinti e componimenti poetici vengano conosciuti e, riconosciuto il valore eccellente della loro arte, vengano poi celebrati i loro autori. Si aggiunga poi che nella ricerca astronomica la divinità dell'animo umano si evidenzia meglio e ne riceve guadagno, come si è già detto. Dunque non è fatua l'indagine astronomica. Pertanto sono invidiosi o di limitato ingegno e fede in Dio, quanti ritengono che ci si debba contentare di Aristotele e degli altri filosofi antichi, e che non si debba indagare ulteriormente, specialmente dopo la luce infusa dai Vangeli e dopo la scoperta del Nuovo Mondo e di nuove stelle, cose che mancarono agli antichi, come la luce della fede. Quest'ultima innalza la nostra natura al di sopra di quella dei pagani e non ci costringe sotto il loro giogo, essendo la loro filosofia «catechismo», mentre la nostra una dottrina perfetta, come attesta Cirillo. Perciò nel mondo, che è libro e sapienza di Dio, noi potremo leggere meglio, se non dimenticheremo la grazia, che è in noi: e questo dico a parità di altre condizioni. Non rendo uguale un rustico ingegno di un cristiano all'ingegno di Platone, ma è opportuno spiegare che gli ingegni, come quello di Platone e di altri, sono tali per natura, e che dopo la diffusione del Vangelo, questi stessi possono progredire più di Platone e degli altri. E questa opinione sostenne anche Platone nell'Ippia [20] dicendo che i moderni non sono inferiori agli antichi, se non per l'invidia dei vivi e per la venerazione dei morti. E che non si deve desistere dalla ricerca, è dimostrato anche dal fatto che Dio è buono verso chi lo cerca, come dice Geremia [20] e rivela sempre nuove cose, come si è visto sopra; e San Bernardo disse: «Finché persisti in questi principi scorretti, non ne riceverai degli altri». Dunque non si ricerca sempre inutilmente. E San Leone dice: «Riguardo alle cose divine, colui che reputa di aver scoperto quello che cercava, non trova ciò che ha cercato, e indaga invano».


[1] Tit 1, 9.

[2] Girolamo, Epist. LXXX: Ad Magnum, oratorem urbis Romae, n. 4 (PL 22, 667).

[3] Iob 9, 9.

[4] Gregorio Magno, Moralium libri, sive expositio in librum B. Job, l. IX, c. 11, n. 12 (PL 75, 865-866).

[5] Prv 9, 3.

[6] Aristotele, Metaphysica, IV, 3, 1005b.

[7] Gn 2, 15.

[8] Rm 1, 20.

[9] Ps. (G), 68, 33.

[10] Ps. (G), 118, 129: «Mirabilia testimonia tua ideo scrutata est ea anima mea».

[11] Ecl 1, 13.

[12] Leone Magno, Sermo VIII, De ieiunis decimi mensis VII, c. 3 (PL 54, 185).

[13] Leone Magno, Sermo VIII, De ieiunis decimi mensis VIII, c. 2 (PL 54, 186).

[14] Cirillo d’Alessandria, Contra Iulianum, libri X, (PG 76, 510-105).

[15] Bernardo, Sermones de diversis, IX: De verbis Apostoli ad Rom. 1, 20 “Invisibilia Dei a creatura mundi” etc. et de verbis psalmi 84, 9 “Audiam quid loquatur in me Dominus Deus”, etc. (PL 183, 565).

[16] Ps (G) 18, 5.

[17] Lattanzio, Divinae Institutiones, I, c. 5 (PL 6, 132-133).

[18] Ovidio, Fasti, I, 297-298, 305-306.

[19] Cfr. Sir 42, 17.

[20] Platone, Hippias maior, 282a.

[21] Ier 3, 12; 21, 54; 33, 11.

    

Tommaso Campanella, Apologia per Galileo, introduzione e traduzione di Paolo Ponzio, Bompiani, Milano 2001, pp. 71-77 e 85-87.