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Polanyi, Michael (1886 - 1964)

Anno di redazione: 
2002
Giuseppe Del Re

I. Cenni biografici e opere - II. Caratteristiche ed originalità della gnoseologia di Polanyi - III. La conoscenza come impegno: la ragione e la fede.

I. Cenni biografici e opere

L’ungherese Michael Polanyi, padre del premio Nobel John Polanyi (n. 1929), occupa un posto particolarissimo nell’epistemologia del ventesimo secolo, sia per l’originalità del suo pensiero, sia perché approdò alla filosofia dopo una lunga e notevole partecipazione alla ricerca scientifica nei campi di avanguardia. Forse proprio per quest’ultima ragione, egli si distinse per la posizione decisamente realista e per l’interpretazione della ricerca scientifica come impegno della persona verso la verità e la società.

Nato a Budapest nel 1891 da famiglia ebrea, studiò medicina ed ottenne il dottorato in chimica‑fisica in quella città. Giovanissimo, si fece un nome nella storia della scoperta delle basi chimiche della vita a Budapest e a Berlino. Nel 1933, preoccupato per la situazione politica tedesca, già allora caratterizzata da un forte antisemitismo, accettò la nomina a professore di chimica e fisica a Manchester. Divenne professore di scienze sociali nella stessa Università nel 1948. Dal 1955 svolse presso il Merton College a Oxford l’attività di Senior Research Fellow. Fu membro della Royal Society. Morì a Northampton in Inghilterra nel 1976. La moglie Magda era un’ebrea cattolica, ed egli stesso aveva ricevuto il battesimo; nella pratica religiosa, tuttavia, i due coniugi frequentarono piuttosto amici presbiteriani e metodisti.

Dal punto di vista culturale, Polanyi si era formato nel ramo ungherese di quella cultura austro-ungarica che ha dato al mondo scienziati come Ludwig Boltzmann, Erwin Schrödinger, Wolfgang Pauli, Ludwig von Bertalanffy, János von Neumann, e noti filosofi della scienza come Ludwig Wittgenstein, Karl Popper, nonché altri pensatori vicini al Circolo di Vienna. Ma egli fu forse unico sotto tre aspetti: in primo luogo era un chimico‑fisico con radici biologiche, e pertanto non era influenzato dalla forma mentis del riduzionismo fisicalista; inoltre non era attratto dal neopositivismo, forse in quanto esperto di una disciplina in cui la componente operativa è dominante già nella fase conoscitiva; infine, era profondamente convinto dell’unità della persona umana e, in relazione a questo, della necessità di chiarire le relazioni fra pensiero scientifico e fede religiosa.

Fu forse per questa particolare sensibilità che, giunto alla piena maturità, si dedicò alla riflessione sulla conoscenza e sui suoi meccanismi, mettendo l’accento sull’impegno affettivo ed esistenziale del soggetto conoscente. Ne risultarono decine di articoli e numerosi libri. Tra questi ricordiamo La conoscenza inespressa del 1966, la sua opera più nota, e La conoscenza personale del 1958, la prima e più completa presentazione della sua dottrina gnoseologica. I saggi e gli articoli più significativi sono stati raccolti in Conoscere e essere (1969), che presenta scritti di carattere prevalentemente epistemologico, e Scientific Thought and Social Reality (1974), che raccoglie anche scritti inerenti alla problematica sociologico-politica della scienza.

Il nucleo centrale della sua tesi è che nessuna conoscenza è o può essere interamente focale, o esplicita. C’è sempre un aspetto sussidiario o implicito di un problema. Il percorso conoscitivo si sviluppa attraverso l’interpretazione personale di una serie di indizi che orientano verso una consapevolezza che da implicita o tacita si fa esplicita. La teoria della conoscenza tacita viene elaborata in modo approfondito nell’opera La conoscenza inespressa, ove Polanyi specifica la funzione della conoscenza sussidiaria, che consiste nell’indirizzare alla visione coerente di ciò che ci circonda. La conoscenza tacita guida il soggetto dai particolari all’integrazione di un insieme coerente, ossia, come già insegna la psicologia della forma (Gestalt), il rapporto dei particolari in un modello globale produce il fenomeno del modello. I particolari sono sempre in rapporto con ciò che significano. Tali teorie per una epistemologia personalista Polanyi le andava già delineando in opere precedenti come Science, Faith and Society del 1946, The Logic of Liberty del 1951, The Study of Man del 1959, fino alla sistematizzazione completa in Meaning del 1975 (opera scritta con H. Prosch).

Come abbiamo osservato, Polanyi non aveva un’impostazione di studioso della filosofia; più che per il legame del suo pensiero con l’impegno religioso, fu per questa ragione che, come osserva ad esempio Karl Sveiby, egli non fu generalmente riconosciuto come un “vero” filosofo, anche se influì molto sullo sfondo della filosofia della scienza della sua epoca. Fra l’altro, le sue idee sulla scoperta scientifica furono riproposte da Popper senza che questi lo citasse, cosa di cui rimase molto amareggiato; anche Polanyi, d'altra parte, presentò alcune delle sue idee centrali senza citare quei filosofi che le avevano sviluppate prima di lui. Questa scarsa familiarità con la storia del pensiero filosofico spiega forse perché Polanyi non faccia riferimento neppure ad Aristotele, a Tommaso d’Aquino o a Pascal, di cui doveva almeno aver sentito parlare al liceo, e ai quali si può ricollegare idealmente la sua teoria della conoscenza; la sua indifferenza riguardo alla filosofia tedesca, in particolare a Karl Jaspers (1883-1969) e a Nicolai Hartmann (1882-1950), cui pure è molto vicino, si spiega invece con il fatto che Polanyi cominciò ad interessarsi di filosofia solo nell’Inghilterra del dopoguerra. Certi suoi giudizi affrettati sulla scolastica medioevale risentono anche del pensiero protestante, ancora vivissimo nell’ambiente inglese in cui si muoveva ed operava.

Al volume La conoscenza personale Polanyi diede il sottotitolo Verso una filosofia post-critica, perché gli sembrava che il movimento critico — quel modo cioè di ricercare la conoscenza iniziato da Galileo e rappresentato in filosofia soprattutto da Kant — fosse vicino al termine del suo corso. È legittimo ritenere, egli scriveva, che il movimento critico sia stato «lo sforzo più fecondo che la mente umana abbia sostenuto. Gli ultimi quattro o cinque secoli, che hanno gradualmente distrutto o gettato nell’ombra tutto il cosmo medioevale, ci hanno arricchiti mentalmente e moralmente fino a un punto cui non è giunto nessun periodo di pari durata. Ma la sua incandescenza si è alimentata con la combustione dell'eredità cristiana nell'ossigeno del razionalismo greco, e quando il suo combustibile si è esaurito l’impalcatura critica ha consumato se stessa» (La conoscenza personale, tr. it. Milano 1990, p. 428). Questa metafora chimica fa capire perché egli volesse tornare agli inizi. «L'uomo moderno non ha precedenti: adesso dobbiamo andare indietro fino a sant’Agostino per ristabilire l’equilibro dei nostri poteri cognitivi. Nel quarto secolo dopo Cristo sant'Agostino concluse la storia della filosofia greca dando inizio per la prima volta ad una filosofia post‑critica» (ibidem). Proseguiva poi sottolineando l’insegnamento di Agostino, secondo cui la conoscenza è un dono della grazia, sicché lo sforzo conoscitivo procede sotto la guida di una scelta preliminare di fede — nisi credideritis non intelligetis, se non crederete non capirete (cfr. Is 7,9). «La sua dottrina dominò le menti dei dotti cristiani per mille anni. Poi la fede declinò e la conoscenza dimostrabile si collocò al disopra di essa» (ibidem).

Il pensiero di Polanyi offre un importante contributo anche nei riguardi dell’ontologia, con un’intuizione originata probabilmente dalla sua esperienza nel mondo della chimica e della biologia: quella dei «livelli ascendenti di esistenza». Si tratta dei Seinsschichten (strati di essere) che il metafisico tedesco Nicolai Hartmann ha posto alla base della sua «analisi categoriale», ispirata dal concetto di materia seconda di Aristotele e dalla scienza contemporanea. Dal punto di vista ontologico si deve riconoscere nella realtà sensibile una gerarchia di sistemi complessi, risalendo la quale si fa sempre più netta la presenza di un’unità degli enti complessi che a un certo livello, quello dei viventi, diviene addirittura presenza di un “principio” o, in termini aristotelici, di una psyché. Ai diversi livelli del reale corrisponde anche una gerarchia di intelligibilità. La comprensione del livello inferiore diviene possibile solo alla luce del livello superiore, che non rappresenta solo un incremento di proprietà globali, ma anche di senso e di significato: «Gli esseri viventi comprendono un’intera sequenza di livelli […]. Le funzioni inferiori della vita sono quelle chiamate vegetative, che sostengono la vita al suo livello più basso, lasciano aperte – sia nelle piante che negli animali – le funzioni superiori della crescita e negli animali lasciano aperte le funzioni muscolari; quindi a loro volta, i princìpi che governano le azioni muscolari negli animali lasciano aperta l’integrazione di tali azioni in modelli innati di comportamento; e, di nuovo tali modelli sono aperti a loro volta a essere modellati dall’intelligenza, mentre l’attività della stessa intelligenza può essere messa nell’uomo in condizione di servire ai principi ancora più elevati della scelta responsabile» (La struttura irriducibile della vita, in “Conoscere e essere”, p. 274).

  

II. Caratteristiche ed originalità della gnoseologia di Polanyi

La teoria della conoscenza di Michael Polanyi si inserisce in un filone di pensiero che rivaluta l’idea di “ragionevolezza” (Vernünftigkeit), intesa come un pensare controllato dalla ragione ma non dominato da un cieco razionalismo, analogamente a quanto, negli stessi anni, fu espresso da Jaspers (cfr. Über Bedingungen und Möglichkeiten eines neuen Humanismus, 1951); si tratta di una concezione della ragione che, in tempi più recenti, si può ritrovare anche nell'enciclica Fides et ratio (1998). Le riflessioni gnoseologiche di Polanyi rivelano due caratteristiche ben presenti nelle scienze chimiche e biologiche. Queste scienze si occupano principalmente di estrarre, dai dati sperimentali, nuove conoscenze sulla struttura della materia, anziché di formulare delle teorie di carattere generale sull’universo; tendono perciò a dare maggior importanza al rapporto diretto dello scienziato con la realtà sensibile che studia, se non altro perché in presenza di dati numerosissimi e suscettibili di molteplici interpretazioni. Questo rapporto diretto, necessario quando ci si pongono domande sul “cos’è” di un sistema complesso (in senso aristotelico), privilegia il modo d'interrogare la realtà esterna, e rifiuta l’idea dell'uomo di scienza come osservatore freddo e distaccato che si limita a registrare solo dei fatti. Secondo K.E. Sveiby, Michael Polanyi chiamò il suo libro Conoscenza personale perché voleva sottolineare che anche nella scienza la ricerca della conoscenza richiede una partecipazione appassionata della persona che conosce, senza che per questo la conoscenza stessa divenga soggettiva (cfr. Managing Knowhow, London 1988).

La gnoseologia di Polanyi è sostanzialmente una “epistemologia della scoperta”. Egli vi mette a frutto la sua conoscenza dell'impresa scientifica vissuta dal suo interno; ma il suo obbiettivo è di ampio respiro, perché il processo che conduce alla scoperta rivela l’inscindibilità tra la persona e la natura della conoscenza a cui quella persona giunge, senza con ciò ridurne 1'oggettività. La sua originalità poi, sta nel fatto che, senza scadere in un razionalismo di stampo kantiano o in un anarchismo metodologico come quello dell’ultimo Feyerabend, anzi nel quadro di un solido realismo critico, egli fa rientrare nel suo discorso le scelte personali e le certezze preconscie dalle quali in qualche modo viene guidata ciò che spesso viene chiamato «formalizzazione» della conoscenza — e che Polanyi chiama piuttosto «articolazione» — cioè la formulazione esplicita in termini di un opportuno linguaggio, l’espressione che consente la comunicazione (può essere interessante, in proposito, un confronto con quanto Jaspers segnalava nel suo Il linguaggio. Sul tragico, tr. it. Napoli 1993). La conoscenza, come il linguaggio e la comunicazione, ha una struttura triadica. Con parole di Polanyi: «Una persona A può fare sì che la parola B significhi l’oggetto C […] Possiamo dire che la triade della conoscenza tacita consiste in cose sussidiarie (B) che si riferiscono ad un fuoco (C) in virtù dell’integrazione realizzata da una persona (A) […] È la nostra consapevolezza sussidiaria di una cosa che la dota di significato: di un significato che riguarda un oggetto di cui siamo consapevoli in modo focale. Una relazione significativa di un fatto sussidiario ad uno focale è formata dall’azione di una persona che integra l’uno con l’altro, e la relazione persiste per il fatto che la persona continua a fare questa integrazione» (Dare senso leggere senso in “Conoscere e essere”, pp. 220-221).

Ma vediamo rapidamente la natura del processo conoscitivo secondo la prospettiva di Polanyi. Pur senza rendersene conto, egli parte dal concetto aristotelico‑tomista di adaequatio intellectus ad rem, secondo la nota formulazione tommasiana che «l’ente e l’essenza sono ciò che per primo viene colto dall’intelletto» (ens et essentia sunt quae primo intellectu concipiuntur: Tommaso d’Aquino, De ente et de essentia, Prologo). Se traduciamo il verbo concipere con «cogliere» — giacché nell’italiano odierno il termine «concepire» ha un senso creativo che il latino concipere non ha — vediamo che così formulato l'atto iniziale del conoscere si configura come una presa di coscienza “integrata” delle caratteristiche di un ente. Polanyi la vede proprio a questo modo, tant’è che fa spesso riferimento al fatto che abbiamo la capacità di riconoscere la fisionomia di una persona senza per questo identificarne i particolari (il naso, la fronte, i capelli.... ). Entrano in gioco indizi marginali che non notiamo o addirittura indizi subliminali che non potremmo rivelare o sperimentare in se stessi. Alla base della logica dell’inferenza tacita, stanno per Polanyi i princìpi “gestaltici”: «Le mie capacità di percepire la coerenza mi fanno vedere insieme questi mille indizi variati e mutanti come un solo oggetto senza mutamenti […]. Un’integrazione di successo di un migliaio di particolari in mutamento in una singola visione costante mi fa riconoscere un oggetto reale di fronte a me» (La logica dell’inferenza tacita, in “Conoscere ed essere”, pp. 174-175).

Si vede qui l’avvio di un discorso sulla percezione molto vicino a quello sul «senso (o sensorio) comune» (gr. koiné aísthesis) che risale ad Aristotele e che la neurofisiologia contemporanea ha pienamente accettato; ma Polanyi non considera gli aspetti neurofisiologici, bensì guarda alla presa di coscienza come tale. Egli distingue fra due tipi di acquisizione conoscitiva, di «consapevolezza» (awareness): quello “focale” e quello “sussidiario”. Il primo è la vera e propria presa di coscienza che conduce al riconoscimento; il secondo riguarda gli elementi marginali che hanno una relazione funzionale con l’oggetto che conosciamo “focalmente”. Insieme, i due si combinano in modo tale che il nostro apprendere gli indizi si trasforma in un apprendere la realtà oggettiva che essi rivelano, analogamente a quanto avviene con le due immagini costitutive di una visione stereoscopica. Gli indizi vengono integrati alla visione dell’oggetto percepito, che è il loro significato. Anche se qui, come altrove nella sua opera, Polanyi si discosta da un uso strettamente filosofico di termini come “significato”, si vede che possiamo parlare in questo caso di un processo integrativo che appartiene non alla sola sensazione, ma costituisce la percezione in quanto primo stadio della conoscenza. Spiega Polanyi che siamo focalmente consapevoli dell’immagine stereoscopica, essendo consapevoli in modo sussidiario delle due immagini separate: «il tratto caratteristico della consapevolezza sussidiaria è avere una funzione, la funzione di riferirsi a qualcosa che è nel fuoco dell’attenzione; […] l’immagine focale, in cui le due immagini sussidiarie sono fuse, rivela il loro significato congiunto, […] questa fusione produce una qualità non presente nell’apparenza degli elementi sussidiari […]. Ci imbattiamo qui nella struttura della conoscenza tacita con i suoi caratteristici aspetti funzionale, semantico e fenomenico» (La struttura della coscienza, in “Conoscere e essere”, p. 252).

Per comprendere la relazione fra la conoscenza sussidiaria e quella focale occorre tener presente la funzione dell’“attenzione”. Quest’ultima caratterizza la conoscenza focale, mentre la conoscenza sussidiaria interviene come conoscenza “tacita”, cioè come strumento subliminare della prima. Due esemplificazioni al riguardo potrebbero essere la lettura di un testo, in cui le parole e le regole linguistiche fungono da conoscenza sussidiaria tacita, e l’esecuzione di un pezzo al pianoforte, in cui il pianista non può spostare l’attenzione dal tutto alle singole battute senza effetti disastrosi. L’esempio della lettura mostra che nella conoscenza sussidiaria entra in gioco anche il nostro sapere previo, in particolare quello dei significati delle parole. Così, analogamente, nella ricerca scientifica: «una scoperta scientifica riduce la nostra consapevolezza focale delle osservazioni in una consapevolezza sussidiaria di esse, spostando l’attenzione da esse alla loro coerenza teorica. Quest’atto di integrazione, che possiamo identificare sia con la percezione visiva degli oggetti sia con la scoperta di teorie scientifiche è il potere tacito che andavamo cercando. Lo chiamerò conoscenza tacita» (La logica dell’inferenza tacita, in “Conoscere e essere”, p. 176).

Polanyi passa poi alla tappa successiva del conoscere, l’«articolazione», cui abbiamo già accennato. Anche lui, come Jaspers, ritiene che la sistemazione delle informazioni acquisite avvenga quando queste vengono espresse con un linguaggio destinato a comunicare (magari a se stessi, come direbbe Jaspers), sia esso la lingua parlata o il disegno. È questa tappa che dalla percezione del reale porta alla conoscenza scientifica, anche nella sua dimensione sociale. Nota ancora Sveiby: «Distanziando l’attore dalla conoscenza ed articolandolo in una lingua o dei simboli, diviene possibile distribuire, criticare e perciò accrescere la conoscenza».

Abbiamo dunque un'analisi del processo conoscitivo quale si realizza al livello dell’intelletto secondo la “logica della conoscenza integrata”. Vediamo ora come secondo Polanyi interviene la partecipazione personale del soggetto nella conoscenza. Questo è un punto importantissimo soprattutto perché sottolinea la necessità di ribadire continuamente il rifiuto di concezioni della scienza che prescindono non solo dalla sua necessaria dimensione personale ed esistenziale, ma anche dagli obblighi etici che l’attività dello scienziato porta con sé. Più in generale, la visione di Polanyi mette a fuoco l’ingenuità di un dualismo che veda nel soggetto conoscente la capacità di porsi di fronte al reale come una sorta di “ragione pura”, al di fuori di ogni istanza esistenziale, etica o religiosa. Polanyi scrive in proposito che «mentre le categorie di Kant, per cui è possibile l’esperienza del mondo esterno, riappaiono con me nel soggetto conoscente attivo che partecipa a tutta la conoscenza del vivente, in questo caso tale soggetto conoscente, che responsabilmente legifera per se stesso con intenzione universale, è più simile alla persona morale della Seconda Critica e della Metafisica della Morale» (ibidem, p. 193).

Anzitutto, la scienza, per essere scienza, opera comunque su una realtà oggettiva, che lo scienziato ungherese chiama a volte «trascendente», ma solo per intendere con questo che non si tratta di una nostra creazione. Come chiarisce Thomas Torrance, commentandone il pensiero, «la scienza per essere scienza opera con qualcosa di irriducibilmente dato, su cui non abbiamo controllo, “una realtà trascendente” come la chiama Polanyi, che si estende al di là di noi in un campo indeterminato di intelligibilità, ma che ci spinge a un'indagine senza sosta perché suggerisce continuamente dimensioni nascoste di significato e di ordine. Abbiamo qui la radice della profonda fede di Polanyi nell’intelligibilità oggettiva dell’universo, alla cui conoscenza siamo impegnati senza potercene sottrarre in quanto esseri razionali» (Torrance, 1992, pp. 194-195). L’impegno è dunque il primo elemento personale della conoscenza: questa non è data, ma è cercata. Questa ricerca è guidata da princìpi e certezze ultime che vengono date per scontate. Esse possono essere comuni a tutti gli uomini, una specie di inconscio collettivo alla Jung, come ad esempio il principio di non contraddizione, ma possono anche essere convinzioni personali che inducono ad una scelta particolare, a delle associazioni e correlazioni che portano sia a mettere a fuoco certi aspetti dell'oggetto del conoscere, sia a formulare una spiegazione scientifica di un certo tipo anziché di un altro. In ogni atto di conoscenza entra, per Polanyi, un contributo “appassionato” della persona, e questo non è un’imperfezione ma una parte vitale della conoscenza. Polanyi vuole evitare alla sua posizione critiche e fraintendimenti: «La partecipazione personale — egli scrive — non è un atto arbitrario né un’esperienza passiva, ma un atto responsabile che aspira alla validità universale» (La conoscenza personale, p. 70).

Questo vale in generale per qualunque tipo di conoscenza consapevole. Nel caso poi della ricerca scientifica, la persona interviene essenzialmente al fatto della scoperta e della sua formalizzazione. Torrance fa osservare che l’analisi di Polanyi si può anzi mettere in relazione «con ciò che Einstein chiamò le “libere creazioni del pensiero che non si possono ricavare induttivamente dall’esperienza dei sensi”, ma sorgono nelle nostre menti sotto l’impatto dell’intelligibilità intrinseca (Verständlichkeit) dell’universo, e con quel pensiero senza parole che si forma sia quando lo scienziato è colto dal senso del mistero, sia in quegli indefinibili attimi di apprendimento intuitivo su cui poggiano le sue strutture creative» (Torrance, 1992, pp. 193-194).

Per Polanyi vi sono essenzialmente due aspetti personali del processo conoscitivo, che noi qui chiameremo “artistico” ed “operativo”. Nel primo prevale la caratteristica di libera creazione: la realtà è sempre così ricca di particolari che non possiamo apprenderla se non semplificando e classificando, e facciamo questo con lo stesso procedimento con cui un pittore sceglie quei particolari di un paesaggio che gli sembrano più importanti e significativi. Un esempio caratteristico è la diagnosi che ogni buon medico dovrebbe cercare di fare raccogliendo i possibili sintomi e collegandoli in relazioni complesse. Nell’aspetto operativo si ha l’“andare a vedere”. Ad esempio, il chimico progetta e sintetizza molecole sempre nuove, acquisendo così nuove conoscenze dei segreti della natura; in questo, a parte un aspetto estetico, intervengono le sue scelte di controllo e verifica delle teorie. In queste considerazioni Polanyi ha anche anticipato l’elemento più costruttivo del cosiddetto «cognitivismo evolutivo», che ha introdotto nel processo della conoscenza la categoria di «autopoiesi». Per Polanyi la scoperta è fatta di due fasi quello della creazione e immaginazione, e quello della verifica di controllo sui fatti : «L’immaginazione non è spodestata dall’intuizione, ma è imbevuta di essa. Quando si riconosce un problema si cerca di risolverlo, la nostra immaginazione è guidata dalla nostra intuizione»; al tempo stesso, però, «l’immaginazione deve ancorarsi a degli indizi di realizzabilità forniti dalla stessa intuizione che essa sta stimolando; gli slanci dell’immaginazione che non hanno una guida del genere sono sforzi inutili» (L’immaginazione creativa, in Vinti 1999, pp. 140-141).

  

III. La conoscenza come impegno: la ragione e la fede

In questo quadro, e con riferimenti alla storia della scienza, nella sua opera La conoscenza personale Polanyi giunge alla conclusione che «essere convinti di conoscere qualcosa» è sempre un impegno a implicazioni indeterminate, perché la conoscenza umana non è che un indizio della realtà, e noi non possiamo mai dire in quali nuovi modi la realtà potrà manifestarsi successivamente. Essa è esterna a noi; è oggettiva; e perciò le sue future manifestazioni non potranno mai esser completamente sotto il nostro controllo intellettuale. L’espressione in lingua inglese to hold a knowledge, che alla lettera significa «mantenere una conoscenza», è resa nelle traduzioni in italiano con «esser convinti di conoscere» perché in inglese to hold non si dice di una conoscenza genericamente intesa, ma di un'opinione di cui si è ben convinti. Vi è qui un punto fondamentale del pensiero di Polanyi. Egli osserva giustamente che, come all’inizio di un processo di scoperta entrano in gioco schemi mentali personali che vengono usati come una conoscenza “tacita” subliminare, così alla fine di quel cammino vi è un atto di fiducia nelle conclusioni raggiunte: occorre dire a se stessi «ci credo: è veramente così». Per Polanyi, secondo la logica dell’impegno «la verità è qualcosa che può essere pensata solo credendovi» (La conoscenza personale, p. 481). Nell’impegno il soggetto conoscente si assume la responsabilità di esprimersi sull’universalità, di dire qualcosa su una realtà che pretende di essere indipendente da lui. L’impegno richiama quindi direttamente la responsabilità del soggetto conoscente, concetto chiave dell’epistemologia di Polanyi. L’impegno è un “atto fiducioso”, un “atto d’amore” che i nostri strumenti conoscitivi esprimono nei confronti della verità della realtà.

Si tratta di un atto di fede del tutto analogo a quelli che facciamo continuamente nei confronti di certe notizie o quando ascoltiamo le dichiarazioni degli esperti, e riguarda nel contempo qualcosa che abbiamo esperito, sottoposto ad un'analisi critica e verificato. È un atto di fede in base al quale facciamo le nostre scelte, come quando l’astronauta affida la propria vita al calcolo della traiettoria di una navicella spaziale, secondo le leggi della meccanica. A questa considerazione Polanyi fa riferimento per affrontare il tema del rapporto fra scienza e fede. «La divisione tradizionale fra fede e ragione — egli scrive — riflette l’ipotesi che la ragione e la scienza procedono con regole esplicite di deduzione logica o generalizzazione induttiva. Ma [...] queste operazioni sono impotenti di per sé, e potrei aggiungere che non si possono neppure definire strettamente in se stesse. Conoscere è capire, e i processi logici espliciti sono efficaci solo come strumenti della ricerca della soluzione di un problema, impegno con il quale noi ampliamo la nostra conoscenza e continuiamo a mantenere il risultato. Essi non hanno alcun significato se non entro questo contesto dinamico informale. Una volta che ciò sia riconosciuto, il contrasto tra fede e ragione si dissolve, ed al suo posto emerge la stretta similitudine di questa struttura» (Faith and reason, 1961, p. 244).

Credere, nel senso di concedere fiducia a certe affermazioni anche a rischio della propria vita, è la fase finale di ogni processo che sbocchi su una scelta fra vero e falso, fra reale e fittizio. L’applicazione alla posizione religiosa può essere così formulata: «Va senz’altro ammesso che la conversione religiosa impegna la nostra intera persona e cambia il nostro intero essere in un modo, che non trova riscontro nell’ampliamento della conoscenza della natura. Ma una volta che la dinamica del processo conoscitivo sia riconosciuta come principio dominante della conoscenza, la differenza appare come solo una differenza di principio. Perché, come abbiamo visto, tutta l’estensione della comprensione implica una espansione di noi stessi in una nuova dimora, di cui assimiliamo la struttura affidandoci ad essa come ci affidiamo al nostro proprio corpo. Anzi, l’intero essere intellettuale dell’uomo viene in esistenza proprio in questo modo, assorbendo il linguaggio e il patrimonio culturale in cui è allevato» (ibidem).

Un'ermeneutica di questa e di altre simili riflessioni, alla luce dell'analisi critica di Torrance e di alcune osservazioni di Sveiby, suggerisce uno schema molto vicino alla concezione agostiniana dell’iter della conversione (ne riprendiamo la tematica in G. Del Re, The Cosmic dance, Philadelphia-London 2000, cap. 13). Si tratta di un parallelo tra il discorso scientifico e quello religioso che nasce dal famoso passo delle Confessioni: «Che io ti cerchi, Signore, invocandoti, e t’invochi credendoti» (Quaeram te, Domine, invocans te, et invocem te credens in te, I, 1,1), che comprende anche lo spirito autentico della “scommessa” proposta da Pascal e del “coinvolgimento” che essa implicava (cfr. Pascal, Pensieri, n. 233). La conoscenza scientifica coglie ed esamina le ipotesi di lavoro candidate a divenire leggi o schemi esplicativi — per esempio l’affermazione «esiste un’entità invisibile e intangibile che chiamiamo atomo» — allo scopo di stabilire se siano “veri”. Per fare ciò le scienze utilizzano come strumenti sia princìpi già accettati, sia schemi mentali o informazioni sussidiarie (nel senso della conoscenza tacita), secondo tre stadi progressivi: a) per analizzare e classificare i dati di esperienza; b) per darne una spiegazione in termini dell'ipotesi di lavoro posta inizialmente; c) per istituire procedure di controllo, primo fra tutti il confronto fra previsione e realtà in una serie di esperimenti. Fatto questo, si dichiara vera (o falsa) un’ipotesi di lavoro iniziale, sia pure con un margine di dubbio metodico; e confida in essa al punto da rischiare la vita propria o quella di altri.

Nelle scelte religiose, secondo il criterio agostiniano si può seguire lo stesso protocollo. Pensiamo come ipotesi di lavoro al principio massimo «Dio esiste» (o all'altro: «nei primi decenni dell'era cristiana visse in Palestina un profeta che era Figlio di Dio», ma ci fermiamo sul primo). I dati di esperienza sono sostanzialmente l'ordine del mondo, la condizione umana e la nostra personale esperienza interiore. Essi devono essere analizzati e messi in relazione in modo da far emergere il problema di fondo: la necessità di conciliarli in una visione unitaria. La “spiegazione” consiste nell’indicare come il principio-Dio introduca un importante fattore di coerenza nei dati di esperienza. La verifica, infine, sta nel vivere la fede e nel riconoscere che essa rimuove i conflitti interiori, rendendo la vita degna di essere vissuta, pur se ciò richiede impegno e rinunce. Dove sta dunque la differenza tra discorso scientifico e discorso religioso? Essa, come aveva intuito Polanyi, sta insieme a monte e a valle del discorso. A monte, perché il semplice prendere in esame un'ipotesi è già, in certo modo, un accettarne le implicazioni; non per nulla Agostino dice invocem te, ti invocherò, usando un verbo carico di impegno affettivo. A valle, perché l’unico modo di verificare un'ipotesi come l’esistenza di Dio è vivere davvero la fede, il che se non altro implica il riconoscere di avere degli obblighi verso Dio e verso gli altri.

  

Bibliografia: 

  

Opere principali di M. Polanyi: The Contempt of Freedom, C.A. Watts, London 1940; Science, Faith and Society, Oxford Univ. Press, Oxford 1946; The Logic of Liberty, Routledge and Kegan Paul, London 1951; La conoscenza personale. Verso una filosofia post-critica, Rusconi, Milano 1990 [or. Personal Knowledge, London 1958]; Studio dell’uomo, Morcelliana, Brescia 1973 [or. The Study of Man, London 1959]; La conoscenza inespressa, Armando, Roma 1979 [or. The Tacit Dimension, New York 1966]; Meaning, (con H. Prosch), The Univ. of Chicago Press, Chicago 1975. Fra gli articoli di soggetto interdisciplinare: Science and Faith, “Question” 5 (Winter 1952), pp. 15-36; Faith and Reason, “The Journal of Religion” 41 (1961), pp. 237-247; Science and Religion: Separate Dimensions or Common Ground?, “Philosophy Today” 7 (1963), pp. 4-14; Science and Man’s Place in the Universe, in “Science as a Cultural Force”, a cura di H. Wolf, John Hopkins Press, Baltimora 1964, pp. 54-76. Raccolte di saggi in lingua italiana: Conoscere ed essere. Saggi, Armando, Roma 1988 [or. Knowing and Being, Chicago 1969]; contiene, fra gli altri: Le due culture (1959), Conoscere e essere (1961), L’elemento inesplicabile della scienza (1962), Conoscenza tacita: la sua rilevanza per alcuni problemi della filosofia (1962), La struttura della coscienza (1965), La crescita della scienza nella società (1967), Dare senso e leggere il senso (1967), La struttura irriducibile della vita (1968). Raccolte di saggi in lingua inglese: Scientific Thought and Social Reality, International Univ. Press, New York 1974: The Autonomy of Science (1945); Science and Modern Crisis (1945); The Social Message of Pure Science (1946); The Nature of Scientific Convinctions (1949); Scientific Beliefs (1950); On the Introduction of Science into Moral Subiects (1954); From Copernicus to Einstein (1955); Faith and Reason (1961); On the Modern Mind (1965). Per la biografia completa delle opere di M. Polanyi: H. Prosch, Michael Polanyi: a critical exposition, State Univ. of New York Press, Albany 1986, pp. 319-346; cfr. anche La conoscenza personale, Rusconi, Milano 1990, pp. 39-67 e C. Vinti, Michael Polanyi. Conoscenza scientifica e immaginazione creativa, Studium, Roma 1999, pp. 175-210. Cfr. anche, su internet, il sito della Società Michael Polanyi: http://www.mwsc.edu/~polanyi.

Alcuni lavori sul pensiero di M. Polanyi: J.H. Gill, The Tacit Structure of Religious Knowing, “International Philosophical Quarterly” 9 (1969), pp. 533-559; W.T. Scott, A Bridge from Science to Religion Based on Polanyi’s Theory of Knowledge, “Zygon” 5 (1970), pp. 41-62; P. Grant, Polanyi: The Augustinian Component, “The New Scholasticism” 48 (1974), pp. 435-463; B.V. Manno, Polanyi on the Problem of Science and Religion, “Zygon” 9 (1974), pp. 44-56; P. Grant, The Triadic Structure of Religious Consciousness in Polanyi, “The Thomist” 40 (1976), pp. 393-415; J.V. Apczynski, Doers of the Word: Toward Foundational Theology Based on the Thought of Polanyi, Scholars Press, Missoula (Montana) 1977; T. Kennedy, The Morality of Knowledge. Trascendence and Intellectual Life on the Thought of Polanyi, PUL, Roma 1979; T.F. Torrance (a cura di), Belief in Science and in Christian Life: the Relevance of Michael Polanyi Thought for Christian Faith and Life, The Handsel Press, Edinburgh 1980; Science and Religion in Thought of Polanyi, “Zygon” 17 (1982), pp. 1-88 (contributi di: P. Mullins, R.L. Hall, B. Haddox, R. Gelwick, H. Prosch, J.V. Apczynski, D. Foster, W.T.Scott); T.F. Torrance, Il recupero del realismo nella moderna epistemologia e il pensiero di Michael Polanyi (1984), in Idem, “Senso del divino e scienza moderna”, LEV, Città del Vaticano 1992, pp. 193-281; H. Prosch, Michael Polanyi. A critical exposition, State Univ. of New York Press, Albany (NY) 1986; A.F. Sanders, Michael Polanyi's post-critical epistemology, Rodopi, Amsterdam 1988; F. Sanguinetti, Fede scientifica in M.Polanyi, W.A. Rottschaefer, J.Monod, in “Fede filosofica e filosofia della religione”, Benucci, Perugia 1989, vol. II, pp. 147-170; T. Kennedy, Science, Society and the Open Universe in the Thought of Michael Polanyi, in “Teologia e scienze nel mondo contemporaneo”, Massimo, Milano 1989, pp. 211-225; J. Crewdson, Christian Doctrine in the Light of Polanyi’s Personal Knowledge. A Personalist Theology, Edwin Mellen Press, Leinston (NY) 1991; A. Rossi, L’antiriduzionismo scientifico di Polanyi: dalla conoscenza tacita all’analisi del significato, in “Il nucleo filosofico delle scienze”, Congedo Editore, Galatina 1991, pp. 423-433; R.T. Allen, Trascendence and Immanence in the Philosophy of Polanyi and the Christian Theology, Edwin Mellen Press, Lewinston (NY) 1992; A. Rossi, Scienza e valori nell’epistemologia personalista di Polanyi, in “Logica e filosofia della scienza”, ETS, Pisa 1994, pp. 215-225; P. Manganaro, Polanyi e la conoscenza inespressa, in Idem, “Il realismo filosofico. Nuove prospettive nel pensiero anglo-americano”, Aracne, Roma 1996, pp. 109-136; C. Vinti, Struttura della soggettività e nozione di persona nell’epistemologia contemporanea, in “Soggetto e persona”, Anicia, Roma 1998, pp. 147-170; C. Vinti, Michael Polanyi: conoscenza scientifica e immaginazione creativa, Studium, Roma 1999.