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La sintesi cui aspirano le scienze

Antonio Stoppani
1877

Discorso di inaugurazione del Regio Istituto di Studi Superiori di Firenze (dal 1923, Università degli Studi)

“Ma questa sintesi, cui aspira la scienza, è poi possibile di fatto? Arriveremo un giorno ad abbracciare, direbbesi, con un sguardo lo scibile?” In questo discorso, pronunciato nel 1877 all’inaugurazione delle attività del R. Istituto di Studi Superiori Pratici e di Perfezionamento di Firenze, trasformatosi poi nel 1923 in Università degli Studi di Firenze, il sacerdote e geologo Antonio Stoppani (1824-1891) esamina le ragioni della ricerca dell’unità del sapere alla luce dello sviluppo della scienza di allora, che sembrava già articolarsi in discipline sempre più specialistiche e comprensibili solo a pochi esperti. Sebbene il testo risenta del linguaggio ottocentesco, la proposta di Stoppani pare richiamare quanto esposto, con linguaggio più rigoroso, da Newman e da altri autori, circa la maggiore intelligibilità che ogni disciplina gaudagna dalla considerazione del contesto intenzionale delle altre. Lo scienziato – egli afferma – deve lavorare come adoratore del vero, avendo la consapevolezza che “non v’ha scienza la quale si regga da sé, che cominci e termini in se stessa”; infatti “una questione non si può né si deve trattare, se non facendo convergere su di essa tutti i raggi di luce che le possano derivare dalle diverse discipline”.

Discorso per l'inaugurazione degli Studi del R. Istituto di Studi Superiori Pratici e di Perfezionamento in Firenze, letto il 17 novembre 1877 dal Professore Antonio Stoppani.

Ultimo arrivato in questa eletta d'uomini sacri alla propagazione del vero, nuovo a questo pubblico, nuovo alla maggior parte de' miei stessi colleghi, senza aver avuto nemmeno il tempo, dirò così, di affiatarmi col novello ambiente; dovere io stesso far le parti di oratore in questa solenne inaugurazione dell'anno accademico... concedetemi, o Signori, che la mia situazione non è tale certamente da lasciarmi tutta la calma dello spirito, e pormi facilmente sulla via di dir cose che diano nel segno. Vi confesso che avrei volentieri declinato l'onore, se non mi fosse sembrato che il rifiutare fosse un rispondere con atto scortese ad una maniera gentilissima di benvenuto che, per mio mode di vedere, mi dava così, colla sua doppia rappresentanza di questa Città e di questo Ateneo, l'illustre nostro Sopraintendente.

Ma via; non avendo un passato che mi permetta di attingere all'esperienza le cose da dire in quest'aula, nè quell'autorità che si acquista col fare, perchè non ho fatto ancor nulla, mi volgo all'avvenire, quasi a cercarvi almeno un augurio, una speranza che armonizzi colla letizia che ogni anno si rinnova al riaprirsi di questa scientifica palestra. Io fisso perciò la mente sul suo titolo diIstituto di perfezionamento che, se non è propriamente il titolo intero, è quello però, sotto il quale è nota più comunemente in Italia questa Università fiorentina.

Come questo titolo la distingua praticamente dalle Università propriamente dette, è cosa che voi non ignorate, e che vi fu chiarita più volte. A me basta sentirvi espressa in astratto la tendenza a quell'ottimo relativo, a cui è portato, non per cieco istinto, ma per forza di libera volontà, un soggetto razionale, pienamente consapevole di se stesso e delle proprie forze, e che gli serve come di tipo su cui modellarsi, finché non l'abbia realizzato in se stesso. Che cosa è, domando poi a me stesso, quest'ottimo in concreto? Quale è la meta, a cui deve anelare un istituto scientifico che si intitola appunto Istituto di perfezionamento ? Non può essere altra da quella che si propone la scienza stessa, considerata nella sua unità e totalità, come personificazione di tutti gl'ingegni che dal principio del mondo lavorano alla conquista del vero. L'unità della scienza, la sintesi dello scibile, l'arrivare cioè a quella vetta delle ragioni supreme, da cui dipendono le ragioni d'ogni scienza per cavarne tutto l'utile possibile per la pratica; ecco lo scopo finale di tutte ugualmente le scienze, ed ecco, diciamo, lo scopo di un Istituto, il quale rappresenta un'accolta d'ingegni chiamati a professarle. Discorrerne, comunque mi sia concesso dalle mie deboli forze, mi pare argomento a proposito in questa festiva solennità.

Abbracciare lo scibile, quasi colla calma serena della mente divina.... salire ad un punto da cui si prospetti, anche in nube tutta la verità.... la sola idea di poter tanto potrebbe bastare a mettere tale un febbrile esaltamento nell'anima dell'uomo, da farlo ricadere nel fallo primo ; se l'esperienza di quanto sia la mente debole e fallace, non dovesse sempre tenerci umili e timorosi entro i confini che la natura ha segnati anche agl'ingegni più acuti ed alle più energiche volontà. No: per quanto si salga, l'umana natura dovrà esser contenta se giunge a trascinarsi fino al piede dell'infinito. La sintesi di tutto lo scibile non è perciò meno la meta, a cui drizza lo sguardo la scienza: o negarsi, prendendo per meta l'ignoto, o camminare irresistibilmente verso di essa.

Che volete? Questa è una tendenza naturale dell'uomo. Ditela una specie di sublime egoismo, per cui questo essere, che sente d'aver ragione di fine, tende a concentrare in se stesso tutte le bellezze dell'universo sensibile, tutti gli splendori della verità, tutte le dolcezze dell'amore; ma un egoismo affatto opposto a quello che è il carattere delle anime grette: egoismo generosissimo, quando non sia corrotto dall'altro; mentre non può non volere nell'universo l'ordine e l'economia, nella verità la legge, nell'amore la giustizia, beni di loro natura universali.

Intanto l'uomo e già per se stesso una sintesi di fatto di ciò che brama sapere, ed è già per questo avviato a conoscere l'universo al di fuori, avendone in se stesso il modello. Il mondo fisico, il mondo ideale e il mondo morale, in lui si accentrano, quasi in un piccolo assoluto, o diremo, col linguaggio stesso di chi l'ha creato, come in un'immagine dell'Assoluto. Chi può misurare anzi tutto la possibilità intellettiva, che presta a quest'essere pensante il suo squisito organismo, il quale lo fa, fin dal primo suo nascere, cittadino dell'universo? Anzi questo organismo ha gia tanto dell'universo in se stesso, che fu detto meritamente un piccolo cosmo. Quella forza misteriosa (chiamisi come si vuole, attrazione, moto, luce, calorico, elettrico), anima del mondo, che si trastulla cogli atomi e lancia nelle loro orbite le sfere, vi passa, coll'onda volubile delle sue incessanti trasformazioni. Per quel nesso misterioso che lega il principio senziente al termine sentito, tutto è azione e reazione nel piccolo cosmo, fatto teatro di tutte le meraviglie del mondo animato e inanimato, dalle vibrazioni delle molecole della materia bruta fino all'impeto multiforme degli istinti, che sulla scena della vita animale simulano così bene gli atteggiamenti dell'intelligenza. Ma questo organismo non è ancora che come una tela, sulla quale debbono disegnarsi le meraviglie del mondo. L'uomo che sente fondamentalmente se stesso, deve necessariamente sentire tutte le modificazioni di sè, prodotte dall'onda degli esseri in cui l'umano organismo è come tuffato. Eccolo pertanto lanciarsi, per la via dei sensi, fuori di se stesso fino agli ultimi confini dello spazio. La più lontana stella gl'invia il suo raggio, come il fiore il suo profumo dalla zolla ch'egli calpesta; e come ode il tuono che scoppia nelle regioni più elevate dell'atmosfera, ascolta il ronzio dell'insetto che gli bisbiglia all'orecchio. Spettatore del turbinio degli astri, come delle battaglie dei venti e delle procelle, sul teatro dei mutabili elementi, in mezzo alle rivoluzioni del cosmo, tra le apparenze del più sfrenato disordine, sorprende le leggi dell'ordine e già a quest'ora, ricco d'esperienze, potente di mezzi, predice ed aspetta, si prepara e si difende. Né pago di ciò che vede al di fuori, penetra l'interno del globo, e vede fremere i vulcani pronti a scatenarsi dagli abissi, e assiste all'ordito paziente di metalli e di gemme, di cui si tappezzano i misteriosi palagi, colmi d'ogni genere di tesori, di cui va mano mano atterrando le porte. Come poco gli fosse il presente, sforza i penetrali, creduti inaccessibili, del passato, e vede altre terre, altri mari, altri mondi che furono, e generazioni infinite di piante e d'animali che bevvero, milioni e milioni d'anni prima di lui quest'incorruttibil aere che ne circonda. Ormai questo Prometeo legato allo scoglio si fa ardito di chiedere i confini della sua sovranità fisica ed intellettuale sul mondo animato ed inanimato: all'astronomia i confini dello spazio; alla geologia quelli del tempo. Ma, per quanto abbia compreso ormai il dilatarsi, direbbesi, infinito di questi confini, sente in se stesso che la sfera del mondo sensibile sarà sempre angusta per lui; sente in se stesso la capacità di un mondo infinitamente più vasto, e si butta, con tutta la smania che tormenta il suo spirito, negli spazi incommensurabili del mondo ideale.

Per quel lume divino che splende fin dal primo istante della vita alla sua mente, e si svolge colla riflessione, cerca nella propria coscienza la soluzione dei grandi problemi dello spirito. Non pago delle risposte ch'egli ascolta in se stesso, ne ricerca al di fuori. Studia l'uomo; studia la società nel presente e nel passato, interrogando la storia e i monumenti; risuscita le lingue dei morti; tende l'orecchio agli oracoli della divinità; cento volte si rifà sulla via percorsa; spera e dispera, dubita e si convince: spettacolo talvolta miserando a se stesso, sempre sitibondo del vero, anche quando lo respinge. Frutto de' suoi studi lenti e penosi, de' suoi slanci arditi, de' suoi voli imprudenti sono i suoi libri di scienza, le sue letterature e i suoi poemi, destinati principalmente a raccogliere e tramandare il grido de' suoi dolori e delle sue gioie, delle sue sconfitte e delle sue vittorie. Ma che? mentre si affatica nei campi sconfinati del vero, questo, eterno e immutabile nella sua essenza, nell'atto stesso che col pensiero l'afferra, diventa legge al suo spirito ed ecco il mondo ideale trasformarglisi in un grande tessuto di diritti e di doveri, che tutto comprende quanto conosce e quanto va mano mano conoscendo o come mezzo o come fine; le cose e le persone, l'individuo e la famiglia, la patria e l'umanità, l'universo e Dio, di cui, anche ribelle, non può scuotere il giogo: ecco dischiuso al suo sguardo ed al suo incesso il mondo morale, dove l'uomo si affina e si sublima sopra tutto il creato, avvicinandosi a Dio talmente che, spaventato egli stesso della propria grandezza, ma pur compreso della verità di quei nomi, ode chiamarsi Dio e figlio di Dio .

Tutto questo, o Signori, era per dirvi, certamente in confuos, che la sintesi dello scibile che abbraccia tutto l'essere nelle sue tre forme, reale, ideale e morale, è una tendenza, è un bisogno della nostra spirituale natura, la quale trova in se stessa (lasciamo di decidere fino a qual punto) gli elementi per comporla e i mezzi per arrivarvi.

Quando dico un bisogno dello spirito, non intendo un bisogno qualunque. No: è bisogno di felicità; poiché io penso che la felicità consiste nel possedere e nell'abbracciare con amore le ragioni ultime delle cose: per cui felicità massima sarà quella che l'uomo ricaverà dall'amplesso amoroso di un vero, in cui tutti i veri convergano, come i raggi nel fuoco di una lente. Questa tendenza ad abbracciare tutte le cognizioni in una sintesi perfetta sarebbe però illusoria, quando le cognizioni stesse non fossero tali di loro natura, benché riferibili a diversi ordini di fatti, da prestarsi alla riunione in un solo concetto sintetico, che sarebbe come il soggetto di un quadro storico, in cui tutte si unificano, per quanto numerose, ed in atteggiamento diverso, le figure postevi dall'artista. Ma è appunto questa sostanziale unità del sapere che si fa avanti in tutta la sua evidenza, appena ci rifacciamo sul lavoro sempre invano tentato, di fissare i limiti delle diverse scienze, cercandovi quel riposo di cui ciascuna mente prova incessante bisogno, e che essa non può trovare se non quando arriva (se pure ci arriva giammai) all'ultimo perché.

È cosa già detta e ripetuta da tutti che non v'ha scienza, la quale si regga da se, che cominci e termini in se stessa. Il bisogno di uscire dalla propria sfera, per cercare le ragioni degli stessi fenomeni più volgari nell'ordine a cui riflette ogni scienza, in luogo di diminuire, si accresce sempre più, via via che progredisce ogni singola scienza, chiarendosi così sempre meglio il legame di mutua dipendenza che stringe fra loro fin dal nascere le scienze tutte, formandone un complesso indivisibile. Si può vedere una grande necessità, anche, se vuolsi, un progresso, nel dividersi ormai dello scibile umano sotto tanti nomi, quanti sono gli ordini dei fatti, sui quali può successivamente portarsi la nostra mente. Io non lascerò tuttavia di vedervi anche un difetto, o per lo meno un pericolo.

Presso gli antichi non era così. L'idea fondamentale del monoteismo, d'un Dio creatore di ogni cosa, benché affatto primitiva è così esplicita e così eminentemente sintetica, che non potrei indurmi giammai a considerarla come parto della sola umana ragione abbandonata a se stessa. Del resto, è certo che la scienza (se pur esisteva una scienza puramente razionale) era ristretta, comprensiva, teologica. L'antico savio aveva l'esclusiva proprietà della scienza e della legge: era, se facea d'uopo, ad un tempo scienziato, sacerdote, conduttore d'armata, legislatore e re. Quello che si direbbe il tipo storico della scienza, cioè della scienza puramente razionale e consapevole, basata sulla riflessione, l'osservazione e l'esperienza, non venne che più tardi, a quanto pare, quando la scienza ebbe bisogno d'inventare un nome nuovo per se, chiamandosi filosofia; e tutti sanno che essa non era scienza semplicemente, ma sapienza, abbracciando ad un tempo il mondo ideale ed il mondo morale, la teoria e la pratica. Quanto al mondo fisico, si disse che gli antichi gli rimanessero, in certo senso, come stranieri. Io credo che bisogna fare un'eccezione almeno a favore degli Orientali, e che il vuoto che noi troviamo nell'antichità in ordine alle scienze fisiche, debba attribuirsi piuttosto alla rapacità del tempo. Basterebbe a provarlo quello che il Libro III dei Redice di Salomone, il quale, quando la scienza greca non cercava più in là di quello che divinava Calcante, sollevava al più alto grado di splendore il suo regno, scriveva tremila parabole e cinquemila carmi, dissertava di tutte le piante dal cedro del Libano al più umile issopo, e di tutti gli animali, quadrupedi, uccelli, rettili e pesci.

Non intenderei del resto come abbiano potuto fiorire le antiche civiltà egizia, fenicia, ebraica, senza una cognizione relativamente assai profonda della scienza della natura. Ma quello che mi preme di notare, riguardo alla più remota antichità, è questo, che l'uso delle similitudini, dei simboli, delle parabole, delle metafore e quanto v'ha di più caratteristico nei monumenti, nella letteratura e nella poesia degli antichi popoli d'Oriente, dimostra che avevano compreso e sentivano, oso dire, assai meglio di noi il legame intimo che unisce il mondo fisico al mondo ideale e morale: legame così vero, così intuitivo, che è e fu sempre sentito immediatamente anche dagli uomini più rozzi, a cui sovente una similitudine tien luogo d'ogni prova; mentre quello stesso legame non so se sia stato finora da nessun filosofo ben compreso e definito. In Occidente vengono più tardi, come ben ha osservato l'Humbolt, le imprese d'Alessandro a destare lo spirito d'osservazione. Ma anche qui si può dire che alla cognizione riflessa dei fenomeni naturali, che diè vita, per esempio, alla Geografia di Strabone e ai Trattati di Aristotele e di Plinio, abbia preceduto, facendo lungo cammino da se, quella cognizione intuitiva, quello che si direbbe il sentimento della natura, il quale non stacca il mondo fisico dal mondo ideale e morale, anzi si fa scala di questo per salire a quello, trovando in esso la via più naturale e veramente spontanea. Se questo è un fatto, non si potrebbe addurre più efficace argomento, per dimostrare i rapporti che uniscono tutto quanto si può conoscere, sia immediatamente per la via dei sensi, come pel lavoro che esercita la mente sulle idee acquistate. Per dire una cosa più alla mano, io credo di non andar errato affermando che il mondo fisico fu tutt'altro che straniero alla dotta antichità, ma veniva considerato dagli antichi pensatori sempre in unione al mondo ideale e morale soprattutto come un'espressione, una manifestazione di un mondo invisibile.

San Paolo, a cui nessuno negherà acume di profonda filosofia, appoggia quest'idea, quando afferma che i gentili conobbero Dio, in quanto a loro erasi manifestato per mezzo del mondo visibile, e li rimprovera soltanto di non averlo come Dio glorificato. Né mi mancherebbero del resto citazioni, per dimostrare che quanto qui dice l'Apostolo è conforme al dettato degli antichi filosofi. Conchiudo adunque che la scienza degli antichi mantenne sempre il nesso ideale fra i diversi ordini di fatti, abbracciando ad un tempo il reale, l'ideale e il morale, il sensibile e il soprasensibile.

Gli antichi si trovavano adunque più presso alla sintesi di quello che ci troviam noi? Questo sarebbe vero quando si parlasse di quella sintesi quasi intuitiva che, raccogliendo i pochi elementi dello scibile di cui ciascuno e in possesso, può trasportarsi a balzi od anche di slancio alla causa suprema, salvo l'averne poi un concetto sbiadito od anche falso, come l'ebbero in generale gli antichi. La sintesi a cui aspira la scienza moderna è una sintesi riflessa, dirò consapevole che non vuole l'ignoto in nessuna parte, nulla d'inesplorato: vuol camminare a più giunti, coll'analisi, o colla critica,come si suol dire adesso, non lasciando alcun vuoto dietro, non conchiudendo nulla, se prima non vi sono tutti i termini di una conclusione rigorosa. Il processo scientifico, iniziato dai passati e da compirsi dai venturi si potrebbe rappresentare graficamente con una specie di figura fusiforme, che comincia da un apice colla sintesi intuitiva, s'ingrossa immensamente nel mezzo coll'analisi, e termina all'altro apice colla sintesi riflessa. Noi ci troveremmo ora verso il mezzo della figura, dove le linee generatrici che s'immaginano partire tutte da un punto che fissa il primo apice, per convergere tutte all'apice opposto, si trovano alla massima distanza che si possa immaginare tra loro. Ma è qui appunto che si verifica ciò che dissi, esservi cioè un progresso, e al tempo stesso un difetto e un pericolo.

Noi abbiamo moltiplicate le scienze all'infinito; quelle specialmente che trovano il proprio oggetto nella natura fisica. La scienza che era e dev'essere una, se la divisero fra loro i pensatori, come l'impero i successori di Alessandro. Sono ormai tante le scienze, quanti i fenomeni. Non ci basta d'aver diviso, per esempio, la storia naturale in zoologia, botanica, geologia, mineralogia e paleontologia. La sola zoologia si vuol ripartita in mammologia, ornitologia, erpetologia, ittiologia, entomologia, ecc. Ma suddividendo quest'ultima, avremo presto la coleotterologia, la lepidotterologia, la ditterologia, ec. ec. Se fosse vivo il vostro Giusti, chissà che non lo udiremmo motteggiare di una scienza in pillole, mentre si può benissimo paragonare lo scibile così smembrato ad una nazione frazionata in tanti regnicoli e ducatelli, con altrettanti tirannelli indipendenti, che hanno ciascuno un codice da dettare, gabelle da imporre, senza badare che il paese è uno di cuore, di lingua, di bisogni, di tradizioni. Di qui il perdersi facilmente di mira il vero scopo di ciascuna scienza, che è quello di portare un contributo alla scienza generale; il diminuirsi della generale coltura; il facile mascherarsi della più crassa ignoranza sotto un fantasma che non è nemmeno l'embrione del sapere: di qui la scienza che, isolata, diventa puerile, ciarlatanesca; di qui i diversi gruppi di scienziati che si considerano reciprocamente stranieri, ed anche si guardano in cagnesco. Si dirà che non c'è nulla di più opportuno della division del lavoro, per ottenere la perfezione dell'opera. Ma la division del lavoro non avrebbe nemmeno senso, quando non fosse predisposta e regolata sull'unità del concetto dell'opera stessa.

Ma via; questi traviamenti della scienza moderna non sono ancora riusciti a far dimenticare che tutte le scienze sono in intimo legame fra loro. Vige sempre tra le metafore abituali quella di chiamar rami di scienza piuttosto che scienze le speciali discipline. Così non c'è nessuno che si periti nel dire che la zoologia è un ramo delle scienze naturali, la psicologia un ramo delle scienze filosofiche, e la scienza del diritto un ramo delle scienze morali. C'è sempre un gran fondo di verità in queste abitudini del comune linguaggio; come c'è ancora quell'altra metafora del portare la pietruzza all'edificio, professione obbligata di modestia che ancora sarebbe bellissima, se non ne avessero fatto tanto consumo, perché esprime nettamente, non solo il sentimento comune riguardo al coordinamento delle scienze, ossia all'unità dello scibile, ma anche l'intento, o almeno il presentimento di una sintesi finale, che sarà appunto quel grande edificio, a cui le scienze avranno, ciascuna per la sua parte concorso. Le diverse scienze insomma non sono che i capitoli e i paragrafi del gran libro dello scibile.

Che se poi si volessero esempi dell'immediata dipendenza delle scienze fra loro, mi farei anzi tutto a domandare: fino a quando il naturalista, facendo divorzio dalla filosofia, vorrebbe ostinarsi a cercare la Psiche nelle fibre del cervello? Della filosofia stessa non parlo, perché sarebbe un ucciderla il semplice supposto di limitarla ad un qualunque ordine speciale di veri, mentre è sua natura l'aspirare alla totalità del vero, per comporne una grande unità. Bisognerebbe del resto prender più vaste concessioni dai tempo o dall'indulgenza dei benigni uditori, per moltiplicare gli esempi di questa fratellanza, che unifica le scienze nello scibile uno ed indivisibile. Per me vi so dire che nel campo, vasto sì, ma pur sempre limitatissimo, in cui verro anch'io qui tra voi esercitando il mio povero ingegno, la necessità che prova ogni speciale disciplina di cercare le sue ragioni nelle altre è così sentita, che, sotto questo rapporto, mi parve sempre essere la geologia come una vasta applicazione di tutte le scienze fisiche e naturali. Se parlo della terra come pianeta, bisogna ch'io ricorra all'astronomia, e ne aspetti ancora i responsi sulle nebulose, sulle comete sull'anello di Saturno, sperando di trovarvi qualche cosa di più soddisfacente di quello che si è fatto fin qui sulle origini e sulle prime evoluzioni del nostro globo. Se cerco le ragioni dell'interna temperatura, delle oscillazioni o rapide o lente, per cui tante volte si rimutarono i mari e le terre, non c'è fenomeno, non c'è legge della fisica o della meccanica che mi sembri permesso d'ignorare. Se studio il metamorfismo delle rocce e la generazione dei cristalli che ingemmano il seno della terra, mi lamento col chimico perché non abbia tormentato ancora abbastanza gli elementi terrestri. Senza zoologia, botanica, anatomia comparata, non saprei che sia un fossile. Ma non è soltanto colle scienze naturali che la zoologia è in tali rapporti da farne questione di vita o di morte, di essere o non essere. I dibattimenti circa la genesi e l'antichità dell'uomo, la formazione delle razze e la dispersione dei popoli, passati d'un tratto dai campi della storia, dell'archeologia, della linguistica, dell'etnografia, in quello della geologia, hanno rivelato per questa scienza un mondo di affinità inopinate. O voglia poi io stesso cercare le ragioni dell'ordine, dell'economia, dell'opportunità di quei fenomeni, di quelle rivoluzioni che si compirono tanti milioni d'anni prima che l'uomo fosse; o siano le stesse meraviglie d'ordine, d'economia, d'opportunità, che mi metton davanti, quasi di primo intuito, l'idea d'una intelligenza sovrana che tutto prevede e prestabilisce ad un intento speciale, con una previsione, con un amore che previene di milioni e di milioni d'anni l'oggetto delle sue parzialità; eccomi di necessità nel campo della filosofia, in faccia al puro ideale, ed anche più in su, cioè nel campo morale. Intanto il dire che la geologia ha bisogno di tutte le scienze, è un affermare che tutte le scienze hanno bisogno di lei: tanto che delle scienze si può ripetere ciò che si dice di una ben ordinata società: tutti per ciascuno e ciascuno per tutti. L'astronomo non può essere indifferente per una scienza che gli avrà date l'anatomia e la cronologia d'un astro; il fisico e il chimico non potranno di certo impunemente tenersi stranieri a questa specie di colossale officina, dove la natura ha impiantato a grande scala gabinetti e laboratorii, lungo tempo prima che esistessero macchine e storte; il zoologo e il botanico riconosceranno che la geologia ha moltiplicati gli oggetti dei loro studi e riempiti i vuoti delle loro collezioni. Né mi parve che i filosofi (non pretendo dire tutti i filosofi) e i moralisti se l'avessero a male, quando gl'invitai a toccar con mano le prove di quella previdenza amorosa, a cui, come il presente, rende omaggio il passato,

Infine non bisogna confondere lo scopo che può avere lo scienziato, forse speciale e limitatissimo, con quello che hanno le scienze, le quali concordano tutte in uno scopo universale che e il conoscere, scopo che non sarà mai raggiunto, finché non si arrivi alla sintesi di tutto lo scibile. Il progresso degli studi e delle esperienze non fa che rendere ogni giorno più puro e melodioso l'accordo tra il reale e l'ideale e il morale.

Volete un ultimo fatto che prova quanto abbiam detto, tanto per riguardo alla fratellanza di tutte le scienze, quanto in rapporto alla tendenza che ha lo spirito umano ad abbracciarle tutte, formandone in se stesso una sintesi? Vi dirò questo: che tutti i grandi pensatori furono enciclopedici. Il cercare questi grandi pensatori e il verificare se veramente furono enciclopedici, è fatica ch'io lascio a voi, come vi lascio quella di farne uscir fuori un altro. fatto, di cui possiamo esser fieri, che cioè la tendenza alla sintesi è uno dei caratteri più spiccati del genio italiano.

Ma questa sintesi, a cui aspira la scienza, è poi possibile di fatto? Arriveremo un giorno ad abbracciare, direbbesi, con uno sguardo lo scibile? Volete che siano un inganno questa così necessaria tendenza dello spirito umano, questa così visibile convergenza di tutte le scienze ad un punto, ciò che insomma è voluto dalla natura del soggetto e dell'oggetto? Non credo però che si possano fissare, come dicesi, o priori i limiti di questa possibilità, mentre perfetta la sintesi, come la cognizione di tutte le singole cose, non può esser che in Colui che è l'archetipo di tutto e da cui tutto dipende come da principio efficace universale. Abbiamo già detto che l'umana scienza ha un limite, e bisognerà accontentarsi di giungere fin dove si può. Sarà sempre una totalità relativa quella che può abbracciarsi da un essere finito. Intanto io credo che si possano mettere in saldo due cose. La prima che la sintesi è un lavoro progressivo; un lavoro che si completa parte per parte, risultato di tutti i resultati. È una specie, oserei dire, di mosaico, il cui concetto si vedrà intero quando ciascun sassolino avrà trovato il suo posto. La seconda cosa è che la sintesi esiste già, sebbene imperfetta e come in abbozzo. V'è già un buon numero di sassolini ben disposti in tutte le parti del quadro in alto e abbasso, a destra e a sinistra, per cui chi ha buon occhio e forza d'integrazione che basti, può già vedere, almeno in nube, come risulterà il disegno. Dirò di più: il bisogno della sintesi nello spirito umano è tale, che dall'uomo più idiota al pensatore più profondo credo che non ce ne sia uno, il quale non se l'abbia fatta, bene o male che sia, a suo modo, raggiungendo anche talvolta quello stato di quiete che ci promettiamo dalla perfetta cognizione del vero.

Quando vedo là sul monte quella vecchierella così allegra e ridente, penso dove mai, così povera di cose e d'idee, ha potato trovare il segreto della sua felicità. Le stagioni, il sole, le piogge, sono fatti perché nel suo orticello crescano i legumi di cui si pasca, e sul dorso delle sue pecore la lana per coprirla. Poche verità, lucide come il sole, trasmessele da' suoi vecchi, o frutto della sua esperienza, ne governano le azioni, insegnandole a vivere in pace con tutti. L'idea bevuta col latte di una gran colpa e di una grande riparazione, le spiega tutti i misteri del bene e del male, e le dà la certezza di una beatitudine eterna. Anche questa, non si può negarlo, è una sintesi: molto semplice davvero; ma più vi ripenso, e parmi che ci sia come l'embrione di una sintesi completa, perché abbraccia in sostanza tutto il mondo fisico, intellettuale e morale, il passato, il presente, il futuro. Poi rivolgendo nella mente quel poco che ho potuto anch'io vedere nell'opera dei grandi pensatori, mi pare di trovare delle sintesi estese e profonde, di uomini di lettere e di scienze, modellate esattamente su questa; le sintesi, per esempio, di Tommaso d'Aquino, di Dante e di Vico. Ciò mi fa almeno sospettare che non siamo poi così distanti dalla sintesi vera, desideratissima, come altri si tormenta a credere, e tanto meno poi che si sia camminato finora proprio al rovescio, tanto che bisognerà tornare indietro e cambiare strada: anzi mi pare gia d'intravvedere quale sarà codesta sintesi, parendomi possa essere ancora l'idea monoteistica primitiva quella di Dio creatore, razionalmente integrata con quanto l'umana ragione avrà potuto dedurre, mediante la riflessione, l'osservazione e l'esperienza. Certo quelle sintesi che ho detto, sono, almeno per certi lati, infinitamente mancanti; sono, direi, delle scale volanti, gettate tra il nulla e l'infinito, lasciando di dietro e di sotto, a destra e a sinistra, mille vuoti e mille abissi. Ma io m'ostinerò a credere che la via sia tracciata, tracciata dai grandi pensatori, e che a noi non resti che di avvisare ai mezzi per renderla piana, soda, sicura e cosi facile e dilettosa che tutta l'umanità, tutti quelli almeno che hanno sete di vero e di bene, possano da un capo all'altro percorrerla. Pigliatela come una mia idea, perché io non vorrò qui certo avventurare il piede nel ginepraio dei sistemi e delle scuole. Non vorrò nemmeno farmi ad indagare con quali mezzi possa il nostro Istituto contribuire per sua parte al grande scopo. Mi sento troppo incompetente in materia... Mi permetterò tuttavia di esprimere qualche desiderio, accennando, in via di massima, ad alcune tendenze difettose del secolo nostro, che potrebbero mettere inciampo per avventura allo svolgimento normale dello scibile umano, ed al possesso almeno di quella sintesi vera, per quanto imperfetta, di cui io credo capace la scienza anche al presente.

Prima cosa a desiderarsi, se non vogliam fare della scienza una Babele, e la concordia. Mi pare di sentirmi avvisare che qui si tratta veramente, come si suol dire, di un pio desiderio. Quando mai gli scienziati andarono d'accordo fra loro? - Via; non esageriamo. Non si deve contendere a nessuno la liberta individuale, entro i limiti della propria e della pubblica coscienza. Non si vuol impedire la discussione, spegnere gli ardimenti, togliere quell'iniziativa propria dei grandi ingegni, che trovano in se stessi la potenza di abbattere le barriere degli errori e dei pregiudizi più radicati. Tutt'altro: nella lotta l'ingegno si affina, e gran leva di progresso è la contradizione. Ma ditemi quel che volete; io sono d'avviso che il disaccordo non può più esistere che riguardo ai particolari, dovendosi credere ormai posti in sodo i principii fondamentali, frutto dell'esperienza dei secoli, acconsentiti da tutto il genere umano, ammessi fino ad oggi dai più grandi pensatori, senza i quali ci troveremmo ogni giorno a ricominciare da capo. Che fare di una scienza che piglia le mosse dal dubitare di tutto, anche di quei principii che fino ad oggi furono detti di prima evidenza? Per rinunciarvi, bisognerebbe aver dimostrato che sono falsi. Il negarli né li distrugge, né li inferma; poiché la negazione è nulla. L'accordo su questi principii fondamentali, ed anco diciamolo, sopra un gran numero di derivazioni e di conseguenze costituenti quello che si dice scienza acquisita, io credo che non possa mancare, quando tutti i cultori del vero si facciano almeno coscienza di arrivare a quel grado di coltura generale la quale loro acconsenta di conoscere, direi, la logica di tutte le scienze, e quindi di apprezzarne i risultati. È perciò che il secondo desiderio ch'io oso esprimere, volgendomi specialmente ai giovani, è quello della coltura generale, che non deve lasciare loro un momento di ozio, e li dissuada dall'ammettere facilmente un superfluo che nella scienza non esiste, ripugnando al concetta della sua unità nella totalità.

Io credo che, ai tempi nostri, noccia enormemente il darsi esclusivamente ad un sol genere di studi; altro dei pericoli a cui d espone la divisione troppo sistematica delle scienze, gia lamentata. Vi sono degli uomini che consumano la vita sopra un sol ramo di scienza, talora piccolissimo, chiusi sempre in un circolo angustissimo d'idee. Finché si accontentassero di studiare i fatti, e di cavarne conseguenze immediate, riuscirebbero ottimi operai della scienza e, se non vi garba il titolo modesto di operai, diteli pure, scopritori, genii in quel tal ramo di scienza. Ma avviene di loro sovente ciò che accade a chi non è mai uscito dal proprio paese: di credere cioè che il mondo finisca lì. Da ciò l'inganno, anche talora innocentissimo, di credersi abilitati, senza uscire dal loro campo, ad affrontare qualunque questione, a sciogliere qualunque problema. È strano, per esempio, quello che fa il geologo, quando fissa l'antichità dell'uomo, le epoche delle diverse civilizzazioni, la sovrapposizione delle razze, come non ci fosse né storia, né archeologia, né linguistica: ma è più strano ancora vedere, come dissi, un naturalista, che non vuol saperne di filosofia, fissare la sede dell'intelligenza, descriverne lo svolgimento, mentre in realtà non ha nè ebbe mai sott'occhio altro che muscoli e nervi. Una questione non si può né si deve trattare, se non facendo convergere su di essa tutti i raggi di luce che le possano derivare dalle diverse discipline. Direte che non si può essere enciclopedici. Lo si può essere, sì. Ripeto che i grandi pensatori lo furono tutti: e quanto a me, se non potrò esserlo quanto basta, rinuncerò a trattare quelle questioni che richiedono una mente e uno studio maggiori di quelli, di cui mi sento capace.

Un'altra tendenza caratteristica del secolo nostro e quella ch'io non saprei meglio indicare che col nome di radicalismo. Esso, col suo opposto il conservatorismo, esiste nella scienza come nella politica. Ma il secondo nuoce più allo scienziato che alla scienza. La scienza cammina e si ride di quelli che rimangono addietro a gridare, ferma! ferma! Potrei citare esempi di vere celebrità che si demolirono, ostinandosi a sostenere le loro tesi non vere. Forse più nociva però è la febbre d'innovazione, come quella che trascina seco facilmente le masse gia per loro istinto amiche della novità, e peggio questa smania tutta nuova d'abbattere il vecchio edificio della scienza, per edificarne un altro tutto giovine, su tutt'altre basi. È un fatto psicologico, anzi sociale codesto, di cui converrebbe trovar la radice: ed eccola, secondo il mio modo di vedere.

È a tutti nota l'esistenza di una serie di libri, scritti da diversi autori, in diverse lingue, in tempi diversi, ma unificati nell'unità del soggetto, degl'intenti, delle tradizioni, delle credenze. Una serie di libri, raccolti e conservati con gelosa cura da un popolo, il solo, oso dire, che abbia una storia, il cui filo non si perda nell'oscurità del passato, mentre non è tronco ancora dalla dispersione presente; da un popolo che fa a contatto ed ebbe i rapporti più intimi con tutti i popoli civili dell'antichità, Egizi, Fenici, Assiri, Medi, Persiani, Greci e Romani; un popolo dal cui seno uscirono il legislatore e i predicatori del codice, sul quale si governano tutte le nazioni civili nelle cinque parti del mondo. Quei libri meritarono, per l'eccellenza delle idee e per la loro comprensiva unità, d'esser detti il libro. Oltre il sistema completo della religione, contengono i più antichi, come i più preziosi elementi di cosmologia, geologia, geografia, fisica terrestre, etnografia, storia, archeologia, linguistica, diritto, economia politica, legislazione, ec. Furono il punto di partenza, la base delle scienze moderne, della filosofia, della storia, fin verso la metà del secolo XVIII. Ma intanto (non balbetterò nel dirlo) crebbe l'abuso di quanti vollero armare dell'immensa potenza di quei libri le proprie idee soggettive, i propri sogni, le proprie esorbitanze, i propri interessi. Quindi un periodo di lotta accanita poi.... abbandono ed obblìo. C'è come una tacita convenzione fra, gli scienziati (parlo dei più serii e moderati) di considerarli come non fossero. Si tratta, come vedete, di un vero ostracismo, di una vera proscrizione, incruenta, se si vuole, ma più terribile di quella di Silla e di Robespierre, come quella che ha inaugurato, direi così, in seno alla scienza il sistema della distruzione. L'ostracismo infatti dilatossi a tutte le produzioni scientifiche inspirate a quei libri, o che anche soltanto si accordano col loro dettato; dilatossi a quanto li richiama, alle persone che ci studiano, alla scienza che ne tien conto. Infine siccome da quasi 2000 anni non v'ha quasi né scienza, né legislazione, né tradizione, né costumanza pubblica o privata, né istituzione, né letteratura, né poesia, né opera d'arte, di musica, di architettura, di scultura, di che non sia direttamente o indirettamente inspirata a quei libri, o dove almeno, anche contro volontà, non s'affaccino: bando al passato! gridossi, e ormai i quattro venti ci portano quel grido.

È curiosa questa doppia corrente del secolo, la quale, mentre trae da una parte a raccogliere dai monumenti, dalle necropoli, dai papiri, dalle scritture cuneiformi, dagli strati, dalle caverne, dal fondo dei laghi, i brani del passato dispersi dalla bufera del tempo, nell'India, nella China, nell'interno dell'Asia e dell'Africa, fin tra le Pellirosse e i Mauri e gli Australiani smarriti da secoli nell'immensità dell'oceano, porta dall'altra a far getto di tanti tesori conservati sì gelosamente fin qui, anzi ad annichilare quanto del passato v'ha ancora di vivo, di palpitante, cioè le idee. Si minano i principii, per atterrare forse qualche nido di tiranni, che se ne è fatto sostegno, senza badare che sulle stesse fondamenta sorgono tanti splendidi edifici innalzati dalla scienza e dall'amore. Si distrugge l'organismo, per liberarlo da qualche mostruosa superfetazione. Oh! stiamo a vedere a che si approdi con questa specie d'islamismo scientifico.... Veramente, faceva riflettere al suo Renzo quel buon uomo di Manzoni, la distruzione dei frulloni e delle madie, la devastazione dei forni e lo scompiglio dei fornai, non sono i mezzi più spicci per far vivere il pane. Ma questa, aggiungeva, è una di quelle sottigliezze metafisiche che una moltitudine non ci arriva. Ma gli scienziati almeno ci dovrebbero arrivare. Via; cerchiamo il vero senza pregiudizi, senza partito preso, intesi a trovare l'equilibrio tra la coscienza libera di ciascuno e la legge del vero e dell'onesto che s'impone a tutti; tra la libertà delle opinioni, condizione necessaria del progresso, e quel ragionevole ossequio, a cui si piegarono le più alte intelligenze, frainteso p calunniato ugualmente sia da chi se ne adombra credendolo nemico della libertà, sia da chi, a furia d'esagerarne l'estensione, sembrerebbe talvolta voler confondere gli uomini cogli armenti.

Quanto è a desiderasi pertanto che la scienza sia sempre a mani d'uomini coscienziosi che abbiano il culto, l'adorazione del vero; professando come si professa la religione (perché infine scienza e religione hanno per obbiettivo la verità), sicché si sdegnassero alla sola idea di farne un'aureola a se stessi. Chi non ha avuto giorni tristi e notti insonni, per timore di dire o d'aver detto uno sproposito, non sa che sia la scienza o di certo non l'ama .

Non si arriverebbe facilmente alla fine quando si volessero accennare tutti gli ostacoli da togliersi e tutti i mezzi da adoperasi per raggiungere al più presto la sintesi bramata. Ma temo d'aver già oltrepassato i limiti della discrezione. Permettetemi soltanto che, dopo essermi rivolto agli scienziati ideali, non dicendo nulla che sia applicabile a questo Istituto, il cui programma è quanto si può dire di opposto allo specialismo, all'esclusivismo, all'ostracismo scientifico, rivolga una parola al pubblico reale, che rallegra di sua presenza questa festa accademica.

Noi abbiamo bisogno di voi. Abbiamo bisogno che l'aura della scienza non si ristringa al nostro gabinetto, ma formi la nostra atmosfera: perché infine la nostra scienza siete voi, con tutto quello che vi circonda o v'appartiene, od è nei vostri desideri e nelle vostre speranze. Il cielo che brilla sui vostri capi; la terra che si commove e palpita sotto i vostri piedi, si veste di piante e di fiori e si popola d'animali per voi; il mare che mugge e sfuma nel lontano orizzonte, portando le vostre navi e affratellandovi con tutti i popoli della terra. Noi studiamo voi stessi; la vostra storia, la vostra lingua e le lingue dei padri vostri, le vostre credenze, i vostri diritti, le vostre aspirazioni; il vostro essere insomma nel presente, nel passato e nel futuro. Lo scienziato non deve essere più l'ispido e selvaggio cultore di una misteriosa dottrina, un qualche cosa come il mago delle leggende popolari. Osservate come tutto in questi tempi tende ad accomunarsi. Non più autocrazia di governi, non più privilegi di caste; uguaglianza in faccia alla legge; uguali doveri, uguali diritti per tutti. Anche la scienza segue l'impulso del secolo. I libri popolari, l'apertura obbligatoria delle scuole, la pubblicità delle lezioni universitarie, l'istituzione di corsi scientifici pel pubblico, l'ammissione ai musei, ai gabinetti, alle biblioteche, hanno proclamato, per dirlo con frase moderna, forse troppo abusata il diritto alla scienza. Io credo che l'esercizio di questo diritto sia destinato ad avere una grande influenza sullo sviluppo del sapere e sullo svolgimento di questo Istituto. Ed in questo sono contento di trovarmi d'accordo con quanto diceva l'onor. mio collega, il Professore di storia nel suo Discorso inaugurale del 16 Novembre 1868; parendomi che intendesse di applicare a tutte le lezioni, fatte in modo opportuno, da persone capaci, benché di materie alte ed astruse, il giudizio espresso riguardo alle pubbliche conferenze di Guizot e Cousin, che cioè, lungi dall'essere inadatte ai pubblico, questo ne è anzi il giudice migliore. La verità non si stabilisce né per giudizio di commissione, né per voti di maggioranze; le idee nuove vengon fuori senza voto accademico, senza patente scolastica, e s'impongono da sè, per quel raggio d'evidenza che brilla sempre sulla fronte del vero, quando o passione o idee preconcette non facciano velo agli occhi. Ma quest'occhio lucido, bisogna confessarlo, più facilmente che nello scienziato, si trova nel pubblico, il quale, in tante materie almeno, non ha pregiudizi da distruggere, ne ritrattazioni da fare. Certo non è il Sinedrio quello che abbia fatto buon viso alla dottrina di Cristo, né l'Areopago a quella di Paolo; ne né andarono debitori del trionfo delle loro idee ai tribunali ed alle scuole d'allora Colombo e Galileo.

Io vorrei, dunque (e con questo voto porrò fine al mio dire) che Firenze avesse caro il suo Istituto, e gli accordasse tutto l'appoggio, di cui è e deve sentirsi capace. Esso non deve consistere unicamente o nello stanziamento dei fondi necessari, o nella sterile compiacenza di possedere un Istituto che gareggi coi primi d'Europa. Si tratta, come vedete, di una vera ed efficace cooperazione d'ordine intellettuale e morale, che gli crei d'attorno un ambiente propizio al suo svolgimento. Agli scolari inscritti che si numerano, si conoscono, si matricolano, vogliamo aggiungerne altri parecchi che non si numerano, non si conoscono, non s'iscrivono e vanno dove s'insegna e s'insegna bene, guidati semplicemente dall'amore d'istruirsi. II solo ottenere che il pubblico impari ad apprezzare la scienza per la scienza, è già un creare quell'ambiente pieno di vita, di cui hanno bisogno come dell'aria quelli che, presentandosi sulla cattedra, non hanno a darvi tutti i giorni il vapore, il telegrafo, il petrolio, il carbone, ma più spesso una semplice idea speculativa, un primo barlume di verità, frutto per avventura di molte veglie penose.

Firenze, patria di Dante e di Galileo, madre feconda, forse più d'ogni altra città sorella, di arguti ingegni e di pensatori profondi, regina delle arti belle, culla dell'italiana letteratura, sovrana della lingua, Firenze è il luogo che ciascuno additerebbe come il più adatto, perché vi cresca un grande Istituto di lettere e di scienze, come albero piantato proprio sul margine della corrente. Possa quest'albero, alle vostre cure affidato, crescere ritto, portar fiori e frutti, a mantenimento delle vostre luminose tradizioni, ad incremento delle vostre glorie.

Antonio Stoppani, L'unità dello scibile, in “Gli studi in Italia” I, pp. 597- 623. Il testo qui offerto non riporta le note redatte dall'Autore lungo il testo, essenzialmente brani di altri autori, in lingua italiana e francese, a sostegno delle tesi da lui esposte.