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Il significato della rivoluzione scientifica e tecnologica

Hans Jonas
1971

Dalla fede antica all'uomo tecnologico. Saggi filosofici

Una prima versione del saggio da cui è tratto questo estratto è stata pubblicata in “Philosophy Today”, 15 (estate 1971), con il titolo The Scientific and Tecnological Revolutions.

Riproponiamo qui la parte iniziale di un lungo saggio, storico-filosofico, che Hans Jonas dedica al significato della rivoluzione scientifica e tecnologica. In questo estratto, colpisce la semplicità con cui l’autore dipinge il profondo cambio di mentalità – e di prospettive metafisiche e epistemologiche – che rese possibile la nascita della modernità, e di due suoi notevoli frutti, la scienza (moderna) e la tecnologia.

Da alcuni secoli noi occidentali viviamo in una condizione rivoluzionaria. Quando la chiamiamo rivoluzione scientifico-tecnologica ne delineiamo l'impulso centrale. Iniziata come evento «locale», limitato all'Europa, essa è ora divenuta globale. Via via che procede, dà nuova forma alle condizioni esterne del nostro essere - cioè, al mondo in cui viviamo; dà quindi nuova forma ai nostri modi di vivere; infine - o forse in prima luogo - da nuova forma ai nostri modi di pensare. In breve, ciò che viene rivoluzionato è l'ambiente, il comportamento e il pensiero dell'uomo. Questa è durato per molto tempo. Possiamo concepire una «rivoluzione» che duri a lungo? Noi parliamo di rivoluzione quando il mutamento in questione - un mutamento globale degli affari umani - ha un carattere radicale, è di ampia portata e si compie in breve tempo: una caratteristica, quest'ultima, che distingue la rivoluzione dall'evoluzione. Un mutamento è radicale quando coinvolge i fondamenti stessi di ciò che muta, e non semplicemente la superficie; è di ampia portata quando incide su molteplici aspetti della vita, e non semplicemente su un fenomeno isolato. Il terzo criterio riguarda i tempi e i modi, piuttosto che la sostanza: quel carattere teatrale che il mutamento assume solo concentrandosi nel tempo. Mentre l'evoluzione si compie in archi di tempo molto lunghi e procede per gradi impercettibili, il termine «rivoluzione» fa pensare a un inizio improvviso e a un corso violento. Questo è più di un tratto morfologico: il suo aspetto soggettivo consiste nel fatto che gli uomini coinvolti nel mutamento lo esperiscono come una rottura con il passato, come ciò che rovescia l’ordine stabilito delle cose, che addirittura sostituisce qualsiasi ordine stabilito con la condizione del mutamento stesso, e quindi come qualcosa che sconvolge la loro vita. È così che viene percepita l'essenza della rivoluzione. Questa «violenza» del mutamento (diversa dalla violenza fisica che accompagna in particolare le rivoluzioni politiche) è dunque in massima parte una funzione della mera velocità del cambiamento: anche il mutamento più profondo e di più ampia portata, in grado di incidere su tutti gli aspetti citati, non è considerato una rivoluzione se solo è più lento.

Ma che cos'è velocità, che cos'è lentezza? Quale intervallo di tempo è lungo, e quale è breve? Qual è il criterio con cui lo misuriamo? Forse la differenza tra lento e veloce, e quindi tra evoluzione e rivoluzione, non è del tutto relativa, e perciò arbitraria? Relativa lo è, ma non arbitraria. Infatti, essa è relativa a qualcosa che è in sé assoluto, a una naturale unità di misura: l'arco della vita umana individuale, la durata di una generazione. E questa è un buon test, che ognuno può fare quando giunge la sua ora: se un uomo al culmine dei suoi giorni, alla fine della sua vita, può trasmettere la saggezza dell'esperienza accumulata a chi viene dopo di lui; se ciò che ha imparato in gioventù, arricchito ma non abbandonato nella maturità, ancora gli serve in tarda età ed è ancora un insegnamento valido per chi è giovane in quel momento - questo significa che la sua non era un'età di rivoluzioni, se si escludono naturalmente quelle fallite. Il mondo in cui i suoi figli entrano è ancora il suo mondo, non perché egli non sia affatto cambiato, ma perché i cambiamenti occorsi sono stati per lui abbastanza graduali e limitati da poter essere assimilati e via via accettati. Tuttavia, se un uomo in età avanzata deve rivolgersi ai propri figli, o nipoti, per sapere da loro che cosa sta accadendo; se la sua conoscenza e comprensione non gli sono più d'aiuto; se alla fine dei suoi giorni egli si scopre antiquato invece che saggio - allora possiamo definire la velocità e l'ampiezza del mutamento che lo ha colto così di sorpresa come «rivoluzionario». Se si adotta questo criterio - l'unico naturale per esseri finiti e mortali quali noi siamo - è sensato e del tutto legittimo parlare di una rivoluzione che si protrae per generazioni e addirittura per secoli: ciò è esattamente quello che facciamo quando individuiamo l'inizio della condizione rivoluzionaria in cui viviamo, di volta in volta, nella Prima Guerra Mondiale, nella Rivoluzione Industriale, nella Rivoluzione Francese e infine nella nascita della nuova scienza e della cosmologia nei secoli sedicesimo e diciassettesimo, con cui tutto ebbe inizio - davvero una rivoluzione su scala secolare. A dire il vero, il susseguirsi degli eventi durante quei secoli non era sempre così frenetico come lo è ora, e la straordinaria accelerazione esponenziale del movimento complessivo è un fatto abbastanza recente. Ma questa movimento era rivoluzionario dall'inizio, per sua intrinseca natura, e produceva periodicamente nuove, improvvise svolte: quel genere di movimenti più brevi e intensi che chiamiamo abitualmente «rivoluzioni». Ad un esame retrospettivo, riconosciamo queste ultime come parti, come fasi critiche di quel continuo movimento in avanti che è una rivoluzione nella sua interezza.

Riprendiamo la definizione iniziale del significato di una rivoluzione. Abbiamo detto che si tratta di un mutamento globale degli affari umani, radicale, di ampia portata e rapido; abbiamo anche detto che esso riguarda l'ambiente, il comportamento e il pensiero dell'uomo. Occorre però una precisazione. Per essere definito una rivoluzione, il mutamento dev'essere opera dell'uomo, deve avere insomma origine in noi stessi. Non onoreremmo col nome di «rivoluzione» un mutamento nelle faccende umane determinato da qualche evento cosmico, un'improvvisa variazione nel clima, o qualcosa del genere. Dobbiamo essere soggetti, agenti del mutamento, per quanto alta sia anche la possibilità di costituirne gli oggetti. Naturalmente, diventiamo inevitabilmente tali se il mutamento soggettivo è efficace, se cioè produce effetti pratici, influendo di conseguenza sulle condizioni di vita. Le opere dell'uomo ricadono su di lui, ed è nella natura delle cose umane che, in termini globali, colui che agisce divenga la creatura, forse la vittima, della propria azione.

Affermare che la rivoluzione ha origine nell'uomo significa affermare che essa ha origine nel pensiero. Da principio, può anche essere solo ed esclusivamente una rivoluzione del pensiero, una trasformazione nel modo di vedere le cose, molto prima di diventare anche una rivoluzione dell’azione, del modo di trattare le cose. In effetti, questa è la sequenza della rivoluzione scientifica e tecnologica, a cui sono dedicate queste riflessioni. La rivoluzione scientifica ha cambiato i modi di pensare dell'uomo per mezzo del pensiero, prima di cambiare materialmente, o anche di condizionare, i suoi modi di vivere. Ha costituito un mutamento nella teoria, nella visione del mondo, della prospettiva metafisica, nella concezione e nel metodo della conoscenza. All'inizio - e per molto tempo - essa non si è occu­pata della sfera della pratica, anche se alcuni dei più eloquenti profeti-filosofi le hanno assegnato questa ruolo abbastanza presto; questa stessa attribuzione è avvenuta nella sfera del pensiero. Che la scienza moderna in quanto tale non si ponesse all’inizio obiettivi tecnologici si può dedurre dal fatto che essa iniziò principalmente con la riforma della cosmologia da parte degli astronomi, e il cosmo, l'universo stellare, non si presta alla manipolazione. La tecnologia, storicamente parlando costituisce l'effetto ritardato della rivoluzione scientifica e metafisica con cui ha inizio l'età moderna. Soltanto il mutamento teoretico merita a pieno titolo il nome di rivoluzione, anche senza questo successivo, rivoluzionario effetto.

Tale effetto, in ogni caso, fu tutt'altro che accidentale o estraneo rispetto alla causa. In un modo o nell'altro, la svolta tecnologica impressa successivamente alla rivoluzione speculativa era nell'ordine delle cose fin dall'inizio, e quei primi profeti­filosofi l'avevano percepito più chiaramente degli stessi pionieri della scienza. La stessa concezione della realtà implicita nella scienza moderna è favorita dal suo sviluppo, cioè il nuovo concetto di natura, si prestava ad essere manipolata nel suo nucleo teoretico e nella forma di esperimento, comportava una vera e propria manipolazione nel processo investigativo. Non che Galileo e gli altri si dedicassero ai loro esperimenti con intento pratico: il loro scopo era acquisire conoscenza; ma il metodo della conoscenza stessa, fondato sul rapporto attivo con l'oggetto, ne anticipava l'utilizzazione per fini pratici (e non può che sorprenderci, guardando indietro, la quantità di tempo occorsa perché quest'ultima si diffondesse). La tecnologia fu così introdotta come possibilità nella metafisica della scienza moderna, ed esercitata come pratica nei suoi procedimenti. La sua comparsa finale nella sfera extra-teoretica della volgare utilità, come strumento di potere su vastissima scala, cioè nella sfera pubblica, non fu che la conseguenza delle premesse intellettuali stabilite dalla rivoluzione scientifica. Stando così le cose, la stessa odierna tecnologia globale dell'uomo presenta essa stessa un aspetto metafisico in aggiunta al più evidente aspetto pratico. Pertanto, il significato della rivoluzione tecnologica è parte del significato metafisico della rivoluzione scientifica, anzi, lo completa. La metafisica della scienza e venuta allo scoperto.

[…] è necessaria un'altra osservazione sulla sequenza nel suo insieme. Se la rivoluzione è iniziata nel pensiero, allora è iniziata nella libertà e come esercizio della libertà umana. I suoi pionieri, uomini come Copernico, Galileo, Descartes, si distinsero per la capacità di pervenire alla loro nuova concezione con autonomia e determinazione. Toccò a loro farla finita con i vecchi modi di pensare e capovolgere punti di vista rimasti a lungo ben saldi. Questi primi innovatori, perciò, non solo provocarono una rivoluzione con ciò che fecero - essi furono rivoluzionari per ciò che erano. Ma più il loro punto di vista si diffondeva, più diventava difficile sfuggire al movimento cui essi avevano data inizio, e i suoi successivi esponenti, coinvolti in esso per un accidente storico, non vi parteciparono più per libera scelta. Inoltre, quando entrò in gioco il fattore tecnologico, si sviluppo, mutando le condizioni esterne della vita, una necessità che si alimentava da sé e che dal di fuori, per così dire, si impadronì via via del processo; grazie a questo «motore» ulteriore, il movimento acquista continuamente nuovo slancio, portando con sé coloro che lo perpetuano come suoi strumenti peculiari. Pertanto se la rivoluzione fu avviata dai rivoluzionari, ora, benché sia ancora una rivoluzione, essa viene continuata dagli ortodossi. Ciò che ha avuto inizio con atti di suprema e audace libertà ha determinato la propria necessità e segue il suo corso come una seconda natura - non meno deterministica per il fatto che è opera dell'uomo.

La mia tesi, una volta di più, è che l'evento davvero importante sia costituito dagli inizi teoretici di ciò che possiamo chiamare il passo in avanti ontologico compiuto all'inizio dell'età moderna, le fondamenta su cui è stato costruito l'edificio della scienza moderna. Per comprendere questo evento storicamente, occorre tornare ai secoli sedicesimo e diciassettesimo. Fu un'epoca non solo ricca, ma anche consapevole di sé e assetata di cambiamenti, e caratterizzata da quello spirito polemico che rifiuta il vecchio in nome del nuovo e applaude la rottura con il passato. Un segno di questa dilagante stato d'animo è il ricorrere alla parola «nuovo», che dal sedicesimo secolo in poi abbiamo incontrato in tutta Europa (e molto prima in Italia) come attributo elogiativo. Che l'«esser nuovo» sia una qualità positiva non è affatto la regola nella storia delle culture; in realtà fu questo stesso fatto a costituire un segnale e una novità assoluta. Nel mondo greco-romano, per esempio, che di tutte le epoche passate e per molti aspetti la più simile a quella moderna, la qualità più preziosa di un punto di vista, di una massima o di una verità era la sua supposta antichità. Gli antichi poeti e profeti, i saggi d’Egitto e Babilonia, i miti del proprio passato o del passato ancora più remoto dell’Oriente, erano chiamati a testimoniare la verità dell'insegnamento dell’epoca. Ciò non condizionava affatto lo stile del rinnovamento intellettuale poiché il metodo allegorico permetteva di ricavare quasi ogni significato voluto dalla velata testimonianza del passato. Ma l’esser nuovo non era una qualità positiva, era piuttosto il contrario e la sua comparsa fu generalmente ignorata. Certamente, non fu quasi mai una qualità riconosciuta apertamente. Questo fatto, e il corrispondente ricorso all’antichità, si ritrovano in molte epoche. Anche le civiltà avanzate, il cui alto livello era il risultato delle audaci innovazioni che si erano susseguite a partire dai loro lontani inizi, tendevano a occultare questo aspetto della loro origine. L'antichità serviva a legittimare la validità e la verità delle credenze sulla natura delle cose. L'origine della verità si deve agli antichi, più vicini agli dei e più in armonia con la limpida voce del mondo. La loro verità ha retto alla prova del tempo; occorre riappropriarsene, poiché essi parlavano per enigmi; ma si tratta di una verità antica e salda. Raramente, prima dell'inizio dell'epoca moderna, un’iniziativa audace o un'intuizione sono state accolte con favore per il fatto di essere nuove.

Tutto questo muto profondamente verso la fine del Medioevo. La grande svolta è segnata dall'uso sempre più frequente dell'attributo elogiativo «nuovo» per una varietà sempre più ampia di iniziative umane – nell’arte, nell’azione e nel pensiero. Questa moda linguistica, seria o frivola a seconda dei casi, ci dice molte cose. L'elevazione del termine ad attributo elogiativo tradisce una certa stanchezza, persino insofferenza, nei confronti dei modi di pensare e di vivere a lungo dominanti. Al rispetto per la saggezza del passato si sostituisce il sospetto di un errore inveterato e la diffidenza nei confronti di un'autorità inerte. A ciò si accompagna una nuova fiducia in noi stessi, la salda convinzione che noi moderni siamo meglio attrezzati degli antichi – certamente meglio dei nostri immediati predecessori - per scoprire la verità e migliorare molte cose.

La fiducia che il nuovo rappresenti un miglioramento rispetto all'antico si accompagna ad una nuova valutazione delle epoche dell'uomo. Fino ad allora, era naturale credere che uno sguardo retrospettivo al passato equivalesse a guardare a un'epoca più grande e matura. Noi ultimi arrivati siamo gli eredi di epoche più luminose, i destinatari di una saggezza molto più «antica» di noi stessi. In questa credenza agiva un'illusione prospettica, singolarmente persuasiva: ciò che giunge fino a noi dal remoto passato ha acquistato la superiorità di una grande epoca per il fatto di essere stato trasmesso cosi a lungo, e l'epoca della cosa trasmessa è trasferita, in un modo o nell'altro, alla causa che l'ha prodotta. Fu una scoperta ovvia, ma curiosamente sorprendente, quella che fecero i moderni del sedicesimo e diciassettesimo secolo, cioè che noi moderni siamo i più vecchi; che l'umanità, nelle epoche passate, era più giovane, e quindi più incline agli errori dell'infanzia; che da parte nostra c'è una maggiore maturità, e che noi, edotti e disincantati dagli errori del passato, siamo meglio attrezzati per affrontare i problemi connessi alla natura e all'uomo.

Nasce così la nuova valutazione positiva della modernità.

                   

H. JONAS, Dalla fede antica all’uomo tenologico. Saggi filosofici. Il Mulino, 1991, pp. 95-101