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La persistenza di riferimenti cristiani nella società secolarizzata

Romano Guardini
1950

La fine dell’epoca moderna

Le pagine finali del saggio di Romano Guardini offrono un’analisi sempre attuale di cosa accade ad una società ove si continuano ad utilizzare concetti e categorie di origine cristiana – e dunque la cui realizzazione compiuta resterebbe possibile solo nell’orizzonte della fede – ma nella quale è stata persa la linfa che li teneva in vita. «L’idea che questi valori e questi atteggiamenti appartengano semplicemente alla evoluzione della natura umana, mostra di misconoscere il vero stato di cose; anzi, bisogna avere il coraggio di dirlo apertamente, conduce ad una slealtà che all’osservatore attento appare caratteristica dell’immagine dell’epoca moderna».

Partendo da quanto abbiamo esposto ci si apre anche la possibilità di dire qualche cosa sulla religiosità dei tempi futuri con tutte le riserve che la situazione impone ad un tale tentativo.

Guardiamo ancora una volta indietro. Nel Medio Evo la vita era penetrata di religione in tutti i suoi strati e in tutte le sue manifestazioni. La fede cristiana costituiva la verità universalmente accettata. La legislazione, l’ordine sociali, la morale privata pubblica, il pensiero filosofico, la creazione artistica, le idee operanti nella storia, tutto era in qualche modo caratterizzato dal cristianesimo e dalla Chiesa. Con ciò non diciamo nulla sul valore umano e culturale della singola personalità o della singola realizzazione; ma anche il modo in cui si commetteva una ingiustizia era sottomesso alla norma cristiana. La Chiesa era cresciuta in intima connessione con lo Stato; ed anche là dove imperatore e papa, principe e vescovo stavano colle armi alla mano, e si accusavano e si maledicevano reciprocamente, la Chiesa, come tale, non veniva posta in discussione.

Bisogna aggiungere un secondo elemento. La fede cristiana rappresenta un legame personale con Dio che si rivela e l’altezza delle sue conquiste è misurata dalla purezza e dalla fedeltà di tale legame. Ma una questione diversa è di sapere fino a che punto il singolo uomo è capace di fare esperienza di una realtà religiosa, in quale misura egli sente vitale il suo rapporto col divino, e con quale immediatezza esso opera nella sua vita. Profondi erano questi rapporti nel Medio Evo. L’esperienza religiosa era intensa; sviluppata in profondità ed in finezza. Tutte le cose e tutti i rapporti della vita erano saturati da valori religiosi. Poesia e arte, forme statali, sociali, economiche, usi, leggende e vite di santi, anche prescindendo dai loro singoli contenuti, mostrano che l’esistenza tutta aveva un carattere religioso. Qui il Medio Evo si riallacciava intimamente all’antichità e ne era il proseguimento, anzi, si riallacciava ai tempi primitivi della storia ed in esso si manifestava l’afflusso di vita portato dai giovani popoli del Nord, al tempo delle grandi migrazioni. Questo dono di religiosità rappresenta un elemento diverso dalla pietà cristiana; e ciò che essa consente di cogliere nelle cose e negli avvenimenti è diverso dal contenuto della Rivelazione. Ma un rapporto esiste fra questi due campi di esperienza. La religiosità naturale è purificata dalla Rivelazione e introdotta nel suo contesto ideale. Dal canto suo porta alla fede cristiana delle forze elementari, elementi del mondo e della vita, attraverso i quali i contenuti della Rivelazione sono ricondotti alla realtà terrena.

Nel corso dei tempi moderni tutta questa situazione si trasforma profondamente.

La verità della Rivelazione cristiana viene messa in dubbio sempre più profondamente; la sua validità per la formazione e la condotta della vita viene posta in discussione in forma sempre più perentoria. In particolare la mentalità dell’uomo colto si contrappone alla Chiesa in modo sempre più deciso. Sempre più ovvia e naturale appare la nuova pretesa che i diversi campi dalla vita, politica, economia, ordine sociale, filosofia, educazione, ecc. debbano svilupparsi muovendo unicamente dalle proprie norme immanenti. Si costituisce così una forma di vita non-cristiana, anzi per molti aspetti anti-cristiana, che si impone in modo così conseguente da apparire assolutamente normale; e sembra un abuso l’esigenza della Chiesa che vuole che la vita sia determinata dalla Rivelazione. Lo stesso credente accetta in buona parte questa situazione, quando pensa che le cose della religione costituiscano un settore a sé ed altrettanto le cose del mondo; ogni settore deve adottare la forma che conviene alla sua natura e deve lasciare che il singolo viva in un campo e nell’altro nella proporzione che preferisce.

La conseguenza è che da un lato si afferma una esistenza profana, autonoma, staccata da influenze cristiane dirette, e dall’altro nasce un cristianesimo che imita in uno strano modo questa «autonomia». Come si sviluppa una scienza puramente scientifica, una economia puramente economica, una politica puramente politica, così si sviluppa anche una religiosità puramente religiosa. Questa perde sempre più i suoi rapporti diretti con la vita concreta, diviene sempre più povera di contenuto profano, si limita in modo sempre più esclusivo ad una dottrina e ad una prassi «puramente religiose» e non ha più, per molti, altro significato se non quello di dare una consacrazione religiosa ad alcuni momenti culminanti dell’esistenza: nascita, nozze, morte.

In genere è a questo stato di cose che si pensa, quando si parla della moderna situazione religiosa. Ma possiamo ancora aggiungere quel declino della immediata ricettività religiosa, di cui abbiamo già parlato.

La natura viene studiata in modo sempre più sperimentale e razionale; la politica viene sempre più concepita come un puro gioco di forze e di interessi; la tecnica viene adoperata come un grande meccanismo che può essere utilizzato per qualsiasi fine; l’arte viene considerata come una creazione di forme ispirata a criteri estetici e la pedagogia come educazione di un individuo capace di sorreggere questo stato e questa cultura. Nella proporzione in cui ciò avviene, declina la recettività religiosa. Recettività che non intendiamo, lo ripetiamo ancora una volta, come fede nella Rivelazione cristiana e come condotta ispirata a quella Rivelazione, ma come contatto diretto con il contenuto religioso delle cose; quel lasciarsi afferrare dal flusso di mistero che promana dal mondo e che si ritrova presso tutti i popoli ed in tutti i tempi.

Ma ciò significa che l’uomo moderno non solo smarrisce in gran parte la fede nella Rivelazione cristiana, ma subisce anche un indebolimento delle sue disposizioni religiose naturali, e viene sempre più portato a considerare il mondo come una realtà profana. E le conseguenze di una tale situazione sono di vasta portata.

Così ad esempio l’insieme degli avvenimenti di cui consta la vita non appare più come la Provvidenza di cui Cristo ha parlato, e neppure come quel mistero del destino, quale lo sentivano gli antichi, ma come una semplice catena di cause e di effetti empirici, che possono essere compresi e guidati. Ciò si esprime in forme molteplici; esemplare è per tutte l’odierno sistema delle assicurazioni. Se lo si considera negli sviluppi estremi che ha già avuto in molti paesi, esso appare come l’eliminazione di ogni sfondo religioso. Tutte le eventualità della vita vengono «previste», calcolate secondo la frequenza e l’importanza e rese inoffensive.

Gli eventi capitali della vita umana: concepimento, nascita, malattia, morte, perdono il loro carattere di mistero. Divengono fenomeni biologici e sociali di cui si preoccupa una scienza ed una tecnica medica sempre più sicura di sé. E quando rappresentano dei fatti che non possono essere domati, allora si «anestetizzano», si sopprime la loro importanza; e qui, ai margini, e non soltanto ai margini, della cultura, appare una tecnica complementare a quella che mira a trionfare razionalmente della malattia e della morte, cioè l’eliminazione di quella vita che non appare più degna di essere vissuta neppure allo stesso vivente, o non appare più corrispondente ai fini che lo Stato si propone.

Scompare quell’accento religioso che un tempo era messo sullo Stato; quel carattere di grandezza fondato su di una consacrazione considerata in qualche modo divina. Lo Stato moderno deriva tutto il suo potere dal popolo. Per un certo tempo si cerca di attribuire al popolo stesso un certo carattere di grandezza (si pensi alle concezioni del romanticismo, del nazionalismo, della prima democrazia). Ma presto l’idea si svuota del suo contenuto e non significa più nulla, se non che il «popolo», diremo meglio i molti cittadini che appartengono allo Stato, esprimendo in una qualunque forma la propria volontà costituisce l’ultima istanza nella serie delle misure prese dallo Stato; quando non si tratti in realtà di una frazione capace di agire, che assuma la direzione del governo.

E molto ci sarebbe ancora da dire: dappertutto si costituiscono forme di vita che derivano solo da fattori empirici.

Ma qui sorge la questione se una vita così costruita possa avere possibilità di durare. Ha essa il senso necessario ad una vita che vuol rimanere vita di uomini? È capace di raggiungere le mète che di volta in volta devono essere raggiunte?

Le strutture non perdono la loro forza, quando non sono considerate che nel loro contenuto empirico? Lo Stato, ad esempio, ha bisogno del giuramento. È la forma che lega di più l’uomo, quando egli fa una dichiarazione o si impegna ad una azione. E ciò avviene in quanto chi presta il giuramento riferisce espressamente e solennemente la sua dichiarazione a Dio. Che avviene quando - e tale è la attuale tendenza - il giuramento non include più questo rapporto con Dio? In tale caso esso significa semplicemente che chi presta il giuramento sa chiaramente che sarà punito con la galera, se non dice la verità: una formula che ha ormai ben poco senso e certo non ha efficacia.

Ogni essere è più che se stesso; ogni avvenimento significa più che non il suo stretto compiersi. Tutto si riferisce a qualche cosa che sta al di sopra o al di là. E solo a partire di là riceve la sua pienezza. Se esso scompare le cose e le situazioni si svuotano di senso. Perdono la forza del proprio significato, non convincono più. La legge dello Stato è più che il semplice complesso delle norme che regolano una condotta pubblicamente approvata; al di là della legge si trova un che d’intangibile che s’impone alla coscienza, quando la legge sia stata violata. L’ordine sociale è più che non la semplice garanzia di una vita in comune senza attriti; al di là sta alcunché che in qualche senso trasforma la trasgressione in delitto. Questo elemento religioso fa sì che le diverse attitudini necessarie per l’esistenza umana si determinino «da sé», anche senza pressione esteriore, che i differenti elementi rimangano in rapporto gli uni con gli altri e costituiscano una unità. Non esiste un mondo puramente profano, e quando una volontà ostinata riesce a creare un qualche cosa che gli assomigli, esso non funziona. È un artificio senza forza interiore. La ragione che guida la vita e che sta al di sotto della ragione razionalistica, non si lascia convincere da quest’ultima. Il cuore non ha più il sentimento che un tale genere di mondo «valga la pena» di essere vissuto.

Senza elemento religioso la vita diviene come un motore che non ha più olio. Si riscalda, ad ogni momento qualche cosa si brucia, e dappertutto si smuovono pezzi di ingranaggi. Il centro ed i raccordi si spezzano. L’esistenza si disorganizza e si produce quel corto circuito a cui assistiamo da trent’anni ed in proporzioni sempre crescenti: si usa la violenza e si cerca così una via di uscita alla perplessità impotente. Dal momento che gli uomini non si sentono più uniti dal di dentro, vengono organizzati dal di fuori. Ma a lungo andare si può esistere sotto la costrizione?

Abbiamo visto che dall’inizio del tempo moderno si viene elaborando una cultura non-cristiana. Per lungo tempo la negazione si è diretta solo contro il contenuto stesso della Rivelazione; non contro i valori etici, individuali o sociali, che si sono sviluppati sotto il suo influsso. Anzi, la cultura moderna ha preteso di riposare precisamente su quei valori. Secondo questo punto di vista, largamente adottato dagli studi storici, valori come ad esempio quelli della personalità e dignità individuale, del rispetto reciproco, dell’aiuto scambievole, sono possibilità innate nell’uomo, che i tempi moderni hanno scoperto e sviluppato. Certamente la cultura umana dei primi tempi del cristianesimo ha favorito la loro germinazione, mentre nel Medio Evo sono state ulteriormente sviluppate dalla preoccupazione religiosa per la vita interiore e la carità attiva; ma poi questa autonomia della persona ha preso coscienza di sé ed è divenuta una conquista naturale, indipendente dal cristianesimo. Questo modo di vedere si esprime in molteplici forme ed in modo particolarmente rappresentativo nei diritti dell’uomo al tempo della Rivoluzione Francese.

In verità questi valori e queste attitudini sono legati alla Rivelazione, la quale si trova in un particolare rapporto riguardo a ciò che è immediatamente-umano. Discende dalla libertà della grazia divina, ma attrae l’uomo nella sua economia e ne nasce la struttura cristiana della vita. Così si liberano nell’uomo delle forze che sono per sé «naturali», ma non si svilupperebbero al di fuori di quell’economia. L’uomo diviene consapevole di valori che per sé sono evidenti, ma divengono visibili solo in quell’atmosfera. L’idea che questi valori e questi atteggiamenti appartengano semplicemente alla evoluzione della natura umana, mostra di misconoscere il vero stato di cose; anzi, bisogna avere il coraggio di dirlo apertamente, conduce ad una slealtà che all’osservatore attento appare caratteristica dell’immagine dell’epoca moderna.

Il carattere di persona è essenziale all’uomo, ma esso diviene visibile allo sguardo ed accettabile alla volontà, quando, in grazia della adozione a figli di Dio e della Provvidenza, la Rivelazione schiude il rapporto col Dio vivo e personale. Se ciò non avviene si può avere coscienza dell’individuo ben dotato, elevato, creatore, ma non della autentica persona, che è determinazione assoluta di ogni uomo, al di là di tutte le qualità psicologiche o culturali. La conoscenza della persona è perciò legata alla fede cristiana. La persona può essere affermata e coltivata per qualche tempo anche quando tale fede si è spenta, ma poi gradatamente queste cose vanno perdute.

Lo stesso accade per i valori in cui la consapevolezza della persona si sviluppa. Così accade, ad esempio, di quel rispetto che non va ad un dono particolare o ad una situazione sociale, ma al fatto in sé della persona, alla sua qualità di essere unico, insostituibile, inalienabile, in ogni uomo, comunque egli sia disposto e proporzionato... O di quella libertà, che non significa la possibilità di espandersi e vivere in piena misura, ed è per ciò riservata all’uomo privilegiato in sé o socialmente, ma è la capacità che ogni uomo ha di decidersi e di essere così padrone del suo atto e in tale modo padrone di se stesso... Ovvero di quell’amore verso l’altro uomo che non significa la simpatia, l’aiuto reciproco, il dovere sociale, ma la capacità di dar l’assenso al «tu» nell’altro e di essere in tal modo «io». Tutto ciò resta vivo fino a quando resta vitale la conoscenza della persona. Ma quando essa impallidisce, assieme al rapporto cristiano con Dio, scompaiono anche quei valori e quelle attitudini.

Il non avere riconosciuto questi rapporti, l’aver rivendicato a sé la persona ed il mondo dei valori personali, sopprimendo la Rivelazione cristiana, che ne costituisce la garanzia, ha generato quella slealtà interiore di cui abbiamo parlato. Tutto ciò si è del resto rivelato in modo graduale. Il classicismo tedesco si regge su valori ed atteggiamenti che sono già vaghi. La sua nobile umanità è bella, ma manca della suprema radice di verità, poiché rifiuta la Rivelazione dei cui effetti purtuttavia si nutre tutta. E così, già nella generazione seguente il suo atteggiamento umano comincia ad impallidire. E non perché si trovasse ad un livello meno elevato, ma perché di fronte all’irrompere del positivismo la cultura della persona, tagliata dalle sue radici, si rivelò impotente.

Questo processo è ulteriormente proseguito, e quando improvvisamente fece irruzione il sistema di valori degli ultimi vent’anni, in così stridente contrasto con tutta la tradizione culturale moderna, la subitaneità e la contraddizione furono solo apparenti: in realtà si era rivelato un vuoto che esisteva ormai da lungo tempo. L’autentica personalità, assieme al suo mondo di valori e di atteggiamenti, era scomparsa dalla coscienza col rifiuto della Rivelazione.

Il tempo che viene creerà qui una chiarezza terribile, ma salutare. Nessun cristiano può rallegrarsi dell’avvento di una radicale negazione del cristianesimo. Poiché la Rivelazione non è una esperienza soggettiva, ma la verità assoluta, manifestata da Colui che ha anche creato il mondo; ed ogni ora della storia che rende impossibile l’influsso di questa verità è minacciata nel suo intimo. Ma è bene che si metta a nudo quella slealtà. Poiché allora si vedrà quale è effettivamente la realtà, quando l’uomo si è distaccato dalla Rivelazione, e vengono a cessare i suoi frutti.

Ma ci rimane ancora da rispondere alla domanda di quale natura sarà la religiosità dei tempi futuri. Non il suo contenuto rivelato, ché esso è eterno; ma le forme storiche del suo realizzarsi, la sua struttura umana. Qui molto ci sarebbe da dire e da supporre, e ci dobbiamo limitare.

Importante sarà anzitutto ciò che abbiamo da ultimo accennato: il deciso manifestarsi dell’esistenza non cristiana. Quanto più decisamente il non-credente attua il suo rifiuto della Rivelazione e quanto più conseguentemente lo traduce nella pratica, tanto più chiaramente si vedrà che cos’è il cristianesimo. Il non-credente deve uscire dalle nebbie della laicizzazione. Deve rinunciare a quell’«usufrutto» che, pur negando la Rivelazione, si appropria dei valori e delle forze che essa ha elaborato. Deve attuare onestamente la sua vita senza Cristo e senza il Dio che Cristo ha rivelato, ed esperimentare che cosa questo sia. Già Nietzsche aveva ammonito che il moderno non-cristiano non aveva ancora compreso che cosa sia essere tale. I vent’anni trascorsi ce ne hanno dato una idea, e non era che l’inizio.

Un nuovo paganesimo si sviluppa, ma di natura diversa da quello antico. Anche qui ci troviamo di fronte ad un equivoco, che si rivela, fra l’altro, nei rapporti con l’antichità. L’attuale non-cristiano ritiene spesso di poter cancellare il cristianesimo e cercare una nuova via religiosa riallacciandosi direttamente agli antichi. Ma qui sbaglia. Non si può risalire a ritroso nella storia. Come forma di esistenza l’antichità è definitivamente tramontata. Quando l’uomo di oggi diviene pagano, lo è in forma totalmente diversa dall’uomo prima di Cristo. L’atteggiamento religioso dell’uomo antico, nonostante tutta la grandezza della sua vita e delle sue opere, aveva qualcosa di giovanilmente ingenuo. Si trovava al di là di quella opzione suprema richiesta dal Cristo, per la quale - qualunque sia la sua decisione - l’uomo si pone su di un altro livello esistenziale: Sören Kierkegaard lo ha chiarito una volta per sempre. L’esistenza dell’uomo acquista ora una serietà che l’uomo antico non ha conosciuta, perché non poteva conoscerla. Serietà che non proviene da una maturità propria dell’uomo, ma dall’appello che, attraverso Cristo, Dio rivolge alla persona: essa apre gli occhi ed è ora desta, che lo voglia o non lo voglia. Quella serietà discende dalla partecipazione secolare all’esistenza di Cristo; dall’esperienza fatta, con Lui, di quella tremenda chiarezza con cui Egli «ha conosciuto ciò che è nell’uomo» e di quel sovrumano coraggio con cui Egli ha subito l’esistenza umana. Di qui proviene la singolare impressione di immaturo arresto di sviluppo che ci dà l’anticristiano che crede nell’antichità.

Lo stesso vale per la rinnovazione del mito nordico. Fintantoché non serve, come nel nazionalsocialismo, a dissimulare mète di dominio, essa è insostanziale quanto la rinnovazione del mito antico. Anche il paganesimo nordico si trova al di là di quella opzione che lo ha costretto ad uscire dalla vita difesa ed insieme prigioniera di una esistenza immediata, con i suoi ritmi e le sue immagini, per accedere alla serietà della persona. E non importa qui stabilire come si sia attuata quella opzione.

E ancora le stesse cose potremmo ripetere di tutti i tentativi che sono stati fatti per creare un nuovo mito, attraverso la secolarizzazione dei pensieri e degli atteggiamenti cristiani, come è avvenuto ad esempio nella poesia dell’ultimo Rilke. Ma ciò che quella poesia racchiude di spontaneo, la volontà di eliminare il carattere trascendente della Rivelazione e di fondare una esistenza puramente terrestre, mostra la sua impotenza già nella sua incapacità a situarsi nella nascente realtà nuova. I tentativi che ad esempio i Sonetti ad Orfeo fanno in questa direzione sono di una impotenza commovente ed insieme penosa, se li raffrontiamo alle aspirazioni delle Elegie.

Per quanto concerne in fine concezioni come quelle dell’esistenzialismo francese, la loro negazione del senso dell’esistenza è così violenta, che ci si domanda se essa non rappresenti una manifestazione particolarmente disperata del Romanticismo, resa possibile dagli sconvolgimenti degli ultimi decenni.

Un tentativo per porre l’esistenza, non solo in contraddizione con la Rivelazione, ma su una base realmente indipendente, immanente, dovrebbe essere di un realismo tutto diverso. Rimane da attendere in quale misura lo produrrà l’Est e che cosa avverrà allora dell’uomo.

Ma allora la fede cristiana stessa dovrà acquistare nuova risolutezza. Anche la fede deve uscire dalle laicizzazioni, dalle analogie, dalle mezze misure e dalle confusioni. E qui, mi sembra, una grande fiducia ci è concessa.

È sempre stato particolarmente difficile per il cristianesimo adattarsi all’epoca moderna. Troppo vivo era il ricordo della sua rivolta contro Dio; troppo ambiguo il modo in cui aveva posto tutti i settori della creazione culturale in contraddizione con la fede, e la fede stessa in una situazione di inferiorità. E c’era inoltre quello - che abbiamo chiamato la moderna slealtà: quel doppio gioco che da un lato rifiuta la dottrina e l’ordine cristiano della vita e dall’altro rivendica a sé le conseguenze umane e culturali di quella stessa dottrina. Di qui l’esitazione del cristiano nei suoi rapporti con l’epoca moderna. In ogni sua parte egli trovava idee e valori la cui origine cristiana era evidente, e che invece erano dichiarati proprietà comune. Dappertutto egli si imbatteva in valori essenzialmente cristiani, che erano invece rivolti contro di lui. Come avrebbe potuto avere fiducia? Queste ambiguità verranno a cessare. Si considereranno sentimentalismi i valori cristiani secolarizzati, e l’atmosfera ne risulterà purificata. Piena di ostilità e di pericolo, ma pulita ed aperta.

Nella stessa direzione opererà anche ciò che abbiamo detto circa il rilassamento delle forze religiose spontanee, la capacità di esperienza e di azione religiosa. La pienezza religiosa aiuta a credere, ma può anche velare e mondanizzare il contenuto della fede. Quando quella pienezza si riduce, la fede diviene più parca, ma anche più pura e più grave. Il suo sguardo sulla realtà si fa più aperto, il suo centro di gravità penetra più profondamente in ciò che è personale: nella decisione, nella fedeltà, nella capacità di superarsi.

Ciò che è stato detto più su circa questa situazione di pericolo vale anche per la condotta cristiana. Essa dovrà avere in modo particolare i caratteri della fiducia e della forza.

Spesso si è rinfacciato al cristianesimo di offrire all’uomo un rifugio contro i pericoli cui lo espone la situazione attuale. E c’era del vero, non solo perché il dogma nella sua oggettività crea un ordine sicuro al pensiero ed alla vita, ma anche perché nella Chiesa continua a vivere una folla di tradizioni culturali che altrove sono scomparse e morte. Nei tempi futuri quel rimprovero sarà sempre meno giustificato.

Il patrimonio culturale della Chiesa non potrà sfuggire alla generale decadenza della tradizione e là dove esso ancora sussisterà sarà assalito da molti problemi. Ma per quanto concerne il dogma, è essenziale alla sua natura il sopravvivere ad ogni mutamento di tempi, poiché esso è fondato nel sovratemporale; si può tuttavia supporre che di esso si avvertirà in modo particolare il carattere di guida della vita. Quanto più il cristianesimo si affermerà di nuovo come cosa non spontanea ed automatica, e si distinguerà decisamente dalla dominante concezione non-cristiana della vita, tanto più emergerà nettamente nel dogma, accanto all’elemento teoretico, quello pratico ed esistenziale. Non c’è certamente bisogno che io sottolinei che non intendo con ciò alcuna «modernizzazione»; nessuna attenuazione qualsiasi né di contenuto, né di valore. Al contrario il carattere di incondizionata assolutezza della sua espressione e del suo imperativo si accentueranno più fortemente. E in questa assolutezza si avvertiranno la definizione dell’esistenza e l’orientamento della condotta.

Così la fede sarà capace di resistere nel pericolo. Nel rapporto con Dio emergerà decisamente l’elemento dell’obbedienza. Obbedienza pura, la quale sa che si tratta delle cose supreme, che solo per l’ubbidienza possono realizzarsi. Non perché l’uomo sia «eteronomo», ma perché Dio è santità assoluta. Un atteggiamento assolutamente non-liberale dunque, orientato con assolutezza verso l’assoluto, ma nella libertà, e per questo distinto da tutte le violenze. Questa assolutezza non è una resa alla forza fisica o psichica del comando: ma l’uomo per essa accoglie nel suo atto la qualità del comando divino. E questo suppone la maturità del giudizio e la libertà dell’opzione.

Ed una fiducia che solo qui è possibile. Non fiducia in un ordine razionale del tutto, o in un principio ottimistico di benevolenza, ma in Dio, nella sua realtà e nella sua azione, in Dio, che è all’opera ed agisce. Se non sbaglio, l’Antico Testamento va assumendo un significato particolare: esso mostra il Dio vivente, che spezza e irrompe sia attraverso l’incantesimo mitico del mondo sia attraverso le potenze politiche pagane della terra, e l’uomo credente che, accettando l’Alleanza, si ricollega a questa azione di Dio. E si comprenderà l’importanza di questo. Quanto più crescono le forze anonime, tanto più la «vittoria che vince il mondo» [1 Gv. 5,4], la fede, si attua in una conquista di libertà, nell’accordo della libertà donata all’uomo e della libertà creatrice di Dio. E nella fiducia in ciò che Dio fa non soltanto nel suo operare, ma nel suo agire. È singolare questo presentimento di possibilità divine, in mezzo alla crescente oppressione del mondo!

Questo incontro di assolutezza e di personalità, di incondizionatezza e di libertà, renderà il credente capace di resistere, senza luogo e senza rifugio, e di riconoscere la direzione. Lo renderà capace di accedere ad un rapporto diretto con Dio, attraverso tutte le situazioni della violenza e del pericolo; e di rimaner persona vivente nella crescente solitudine del mondo futuro, solitudine proprio in mezzo alle masse ed alle organizzazioni.

Se comprendiamo esattamente i testi escatologici della Sacra Scrittura, la fiducia ed il coraggio formeranno il carattere proprio della fine dei tempi. L’ambiente della cultura cristiana, l’appoggio della tradizione perderanno vigore. Questo sarà uno degli elementi di quello scandalo, del quale è detto che «se fosse possibile, anche gli eletti vi soccomberebbero» (Mt. 24, 24).

La solitudine nella fede sarà tremenda. L’amore scomparirà dalla condotta generale (Mt. 24, 12). Non sarà più compreso, e diverrà tanto più prezioso, nel suo passare da un solitario ad un altro solitario: forza del cuore che discende immediatamente dall’amore di Dio, quale si è rivelato in Cristo. Forse si farà una esperienza tutta nuova in questa carità: della sua sovrana originalità, della sua indipendenza dal mondo, del mistero del suo supremo perché. Forse la carità acquisterà una profondità d’intimità mai prima esistita. Qualche cosa di ciò che si esprime in quelle parole che sono la chiave a comprendere il messaggio di Gesù sulla Provvidenza: che le cose si trasformano per l’uomo che ha come suo primo pensiero la volontà ed il Regno di Dio (Mt. 6, 33).

Questo carattere escatologico si rileverà, io penso, nel futuro atteggiamento religioso. Non intendiamo con ciò annunciare alcuna facile Apocalisse. Nessuno ha il diritto di dire che la fine si avvicina, quando Cristo stesso ha dichiarato che solo il Padre conosce le cose della fine (Mt. 24, 36). E se qui si parla di un avvicinarsi alla fine, lo si intende in senso essenziale, non temporale: la nostra esistenza giunge al traguardo della opzione assoluta e delle sue conseguenze: delle possibilità più alte e dei pericoli estremi.

Romano Guardini, La fine dell’epoca moderna, Morcelliana, Brescia 1984, tr. it. di Marisetta Paronetto Valier, pp. 91-108.