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L’evoluzione del vivente: La biologia cede la parola alla metafisica?

Pierre-Paul Grassé
1973

L'Evolution du vivant 

Riportiamo le conclusioni del volume di Pierre Grassé, titolare per oltre 30 anni della cattedra di Evoluzione presso la Sorbona di Parigi. Al termine di un’analisi che, basandosi sui dati della paleontologia, lo spinge a rimettere in discussione le tesi del darwinismo classico, introducendo fra le cause responsabili dell’evoluzione anche dei fattori “interni”, e non solo esterni all’organismo, l’Autore afferma: «Gli sforzi congiunti della paleontologia e della biologia molecolare, quest’ultima sbarazzata dei suoi dogmi, dovrebbero sfociare nella scoperta del meccanismo esatto dell’evoluzione, senza forse rivelarci le cause dell’orientamento delle linee evolutive, della finalità delle strutture, delle funzioni, dei cicli vitali. È possibile che in questo campo, la biologia, impotente, ceda la parola alla metafisica»

L’evoluzione, con la sua inestricabile complessità, le sue creazioni, i suoi orientamenti, la sua storicità e, talvolta, le sue contraddizioni, non somiglia in nulla all’immagine semplificata, angusta e nell’insieme inesatta che ne delineano le teorie. La sua ampiezza è tale che agli interrogativi che sorgono si arriva a rispondere che i problemi posti dall’evoluzione superano di gran lunga i mezzi della scienza attuale. Le interpretazioni, le spiegazioni che chiunque formula, propone, possono essere soltanto parziali e transitorie.

I fisiologi hanno ampiamente dimostrato che l’essere vivente è un’entità le cui parti sono tutte solidali e che, sottoposta alle influenze ambientali, per sussistere si trova nell’obbligo di ristabilire in ogni momento il proprio equilibrio fisiologico mediante un gioco di sistemi regolatori adatti alle circostanze.

L’evoluzionista constata l’esattezza di questo dato classico, e anche che la reazione evolutiva, profonda e intima, non si limita ad adattare l’essere vivente all’ambiente circostante, ma impegna la sua linea filetica verso la realizzazione di un certo piano di organizzazione. Non è questa un’opinione impregnata di una spiritualità che fa inorridire certi biologi, ma un fatto banale che la paleontologia conferma in modo lampante.

È a livello dei fenomeni molecolari, considerati in stretta correlazione con i fenomeni che avvengono a livelli più elevati, che si trovano e agiscono i meccanismi dell’evoluzione creatrice.

Una congerie di fatti fa risaltare che la mutazione mendeliana, allelomorfica, non interviene nell’evoluzione creatrice. Essa è in certo modo la fluttuazione più o meno patologica del codice genetico, è l’incidente del “nastro magnetico” su cui è scritta l’informazione primaria della specie.

Occorre cercare fuori dalla mutazione la fonte del flusso evolutivo. La novità ha per punto di partenza l’acquisizione di nuovi geni, sia tramite l’aggiungersi di sequenze di nucleotidi (in codoni), sia per mezzo della sovrimpressione, come noi l’immaginiamo.

Nella seconda eventualità, la creazione deriva dal potere di riconoscimento dell’enzima trascrittasi di una nuova sequenza di codoni inclusa nella molecola del DNA.

La variazione del potere di riconoscimento, di misurazione, può essere considerata come una mutazione di tipo particolare e innovatore; essa riguarda la lunghezza e quindi la composizione globale della sequenza di codoni. In questo caso sembra possibile l’emergenza di proprietà nuove. L’esistenza di mutazioni enzimatiche, come noi le definiamo, è prevedibile.

Riassumiamo.

La mutazione allelomorfica o genovariazione tocca solo l’ordine dei codoni e la natura delle basi dei nucleotidi. Essa lascia intatti l’enzima che trascrive il gene e le cellule in cui il gene manifesterà il suo potere.

Il processo evolutivo creatore, concepito in funzione dei dati della biologia molecolare, comporta tre atti:

1. la formazione della nuova sequenza significativa dei codoni;

2. la formazione dell’enzima specifico trascrittore del gene nuovo;

3. la localizzazione adeguata del suddetto enzima, conseguenza della differenziazione cellulare.

Secondo noi l’informazione nuova che si concretizza e si integra in modo permanente nel codice genetico in forma di sequenza di nucleotidi, deve necessariamente essere il risultato di un lavoro intracellulare preliminare.

Si tratta di una cosa ben diversa da un errore di copiatura, dallo spettro di anomalie del DNA, si tratta di un lavoro ordinato che prosegue attraverso le successive generazioni. Questa elaborazione evolutiva si effettua quando certe condizioni ben precise vengono a coesistere; fatto che al presente sembra non essere frequente. Stimolazione proveniente dall’esterno, eccitazione interna, reazione generale dell’organismo che raggiunge il livello molecolare sono verosimilmente le molle di questo prodigioso processo.

Ma tutto ciò non spiega né l’orientamento dell’evoluzione, né la finalità dell’informazione. Nel corso dell’ontogenesi, i genotipi decisamente letali sono abortivi, quelli che lo sono in minor misura lasciano procedere lo sviluppo ed è solo tardivamente che il giovane o l’adulto vengono eliminati. Non si vede che cosa possa avere di orientante, per la forma adulta, l’eliminazione nel corso dell’ontogenesi dei genotipi portatori di disturbi metabolici, funzionali o anatomici. Si tratterebbe più di regolazione che di evoluzione. È parimenti da scartare l’idea di una eventuale selezione germinale; non si possono produrre fatti in suo favore. Per quale ragione la selezione naturale, giudicata insufficiente da Weismann, Waddington, Whyte ed altri per orientare le mutazioni quando opera sulle popolazioni, diventerebbe efficace a livello delle molecole, quando l’organismo non è sottoposto alle aggressioni che gli infligge l’ambiente?

Si è costretti ad ammettere che il determinismo e il meccanismo dell’evoluzione implicano l’intervento di fattori interni di cui noi abbiamo dato un’idea a proposito dell’acquisizione di nuovi geni.

La variazione lamarckiana autoadattativa è una risposta adeguata dell’organismo a un’aggressione dell’ambiente. In che modo interviene l’informazione? Da dove proviene? Come spiegare la sua conformità ai bisogni dell’essere vivente? Tante domande, altrettanti silenzi.

Facciamo un bilancio della nostra indagine; senza essere soddisfacente, essa contiene qualche elemento positivo e respinge interpretazioni spesso presentate come certezze.

1. L’evoluzione, fenomeno orientato, non si nutre solo di variazioni ereditarie aleatorie, vagliate da una selezione operante per il bene di una popolazione.

2. L’evoluzione esige, con l’andare del tempo e a mano a mano che gli organismi si complicano, l’acquisizione di novità, la cui informazione si inserisce nel DNA sotto forma di geni nuovi.

3. L’apporto di informazione e la susseguente creazione di geni sono meccanismi profondamente distinti dalla mutagenesi produttrice di alleli.

4. La paleontologia rivela che le linee evolutive uscite da un ceppo comune (forma madre), godono tutte di una stessa tendenza a realizzare una certa forma, un certo tipo o idiomorfo, ma in misura ineguale.

5. L’evoluzione, in ciò che ha di essenziale, dipende da un lavoro che si effettua a livello delle infrastrutture, che è scatenato da fattori interni ed esterni, e che ha per effetto la produzione di certi enzimi, che ricordano verosimilmente delle polimerasi e che sintetizzano, usando nucleotidi liberi nel succo nucleare o nel citoplasma, un nuovo DNA, nuovi geni. Insistiamo sul fatto che l’iscrizione nel codice genetico dell’informazione è un’operazione distinta dall’acquisizione; l’iscrizione fa seguito all’acquisizione e non si effettua simultaneamente come nel caso della mutazione. È possibile che l’elaborazione dell’informazione sia lenta e prosegua durante numerose generazioni; la paleontologia ci insegna che nella realtà i fatti vanno proprio in questo modo. In parole povere, il DNA registra, stabilizza l’evoluzione, ma non la crea.

6. La mutagenesi, che corrisponde agli errori di copiatura del DNA, viene secondariamente utilizzata dall’organismo per realizzare il genotipo meglio adattato alle condizioni dell’ambiente circostante. Essa è la causa principale delle differenze tra gli individui, le razze e le specie.

Se l’evoluzione si effettua senza acquisizione di geni nuovi, bisogna ammettere che il primo essere vivente conteneva in sé geni bastanti a generare, mediante mutazione, le flore e le faune passate, presenti e future, il che è assurdo. Fare appello a un meccanismo diverso dalla mutazione e dall’aleatorietà è imperativo per tutti i sistemi che pretendono di spiegare l’evoluzione. È proprio questo che comprendono i darwinisti riformatori e i biologi di tendenza lamarckiana, e quindi fanno ricorso a fattori interni.

Gli sforzi congiunti della paleontologia e della biologia molecolare, quest’ultima sbarazzata dei suoi dogmi, dovrebbero sfociare nella scoperta del meccanismo esatto dell’evoluzione, senza forse rivelarci le cause dell’orientamento delle linee evolutive, della finalità delle strutture, delle funzioni, dei cicli vitali. È possibile che in questo campo, la biologia, impotente, ceda la parola alla metafisica.

   

 Pierre Grassé, L’evoluzione del vivente, tr. it. di Lucio Reni, Adelphi, Milano 1979, pp. 332-336.