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Discorso agli scienziati durante la visita al centro "Ettore Majorana", Erice (Trapani)

Papa Giovanni Paolo II
8 maggio 1993

Gentili Signore e Signori,

1. Con gioia sono venuto qui ad Erice per incontrarmi con voi, uomini e donne provenienti da diverse parti del mondo, accomunati da un identico, grande amore per la scienza e dal desiderio di esplorarne gli sconfinati orizzonti a vantaggio dell’intera umanità. Ringrazio il prof. Antonino Zichichi, illustre promotore di questo Centro, e i Signori S. C. C. Ting, Tsung Dao Lee e Kai Siegbahn, per le profonde considerazioni da essi svolte. Mi rallegro vivamente per lo spirito che sostiene questa vostra comunità scientifica, da decenni animatrice di un fecondo interscambio in molteplici discipline, ai più alti livelli della ricerca scientifica su problemi di frontiera, dalla cui soluzione in gran parte dipende il futuro stesso dell’uomo e del pianeta. Grazie per l’invito che mi avete rivolto. L’ho accolto con gioia, anche perché trovo particolarmente significativo che il vostro Centro non si limiti ad interessi specialistici e settoriali, ma ami anzi spaziare in ambiti e questioni di carattere globale, nei quali particolarmente urge un rapporto costruttivo tra le prospettive della scienza e le istanze qualificanti dell’esperienza religiosa. Peraltro, la stessa collocazione logistica di questo vostro Centro in antiche e suggestive strutture appartenenti ai figli del Poverello di Assisi, che conservano tuttora la loro “francescana” semplicità, offre il clima più favorevole per questo incontro cordiale della scienza con la fede, e quasi invita all’inno di lode con cui Francesco, inebriato dalla bellezza del cosmo, e come facendosi voce di tutte le creature, amava elevare il cuore all’“Altissimo, onnipotente e bon Signore”.

2. Fin dagli inizi del mio Pontificato mi sono preoccupato di sottolineare che il dialogo tra scienza e fede non solo è possibile, ma essenziale, e mi sono impegnato a rimuovere gli ostacoli che ancora potessero contrastarne la costante crescita. A tal fine mi è sembrato importante il totale superamento di alcuni nodi antichi, che hanno purtroppo pregiudicato la serena intesa tra la Chiesa e la Comunità scientifica. Mi riferisco in particolare agli incresciosi avvenimenti passati alla storia come “caso Galileo”. Fin dal 19 novembre 1979, in un discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, in occasione della commemorazione del centenario della nascita di Albert Einstein, invitai a una serena rivisitazione della controversia copernicano-tolemaica del diciassettesimo secolo. Dissi in tale occasione: “Je donne tout mon appui à cette tâche qui pourra honorer la vérité de la foi et de la science et ouvrir la porte à de futures collaborations” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II/2 [1979], p. 1111). Alla stessa Accademia, in occasione del cinquantesimo anniversario della sua rifondazione, parlai della necessità di promuovere tale dialogo, e la stessa urgenza volli ribadire in un messaggio per il trecentesimo anniversario della pubblicazione di Isaac Newton, Philosophiae Naturalis Principia Mathematica, ricordando che scienza e religione sono a servizio della comunità umana, e auspicando una ricerca comune basata su di una critica franchezza e su di uno scambio che possa non solo continuare ma anche accrescersi nella sua qualità e nel suo scopo (cf. Lettera al Rev.do G. Coyne, S. I., Direttore dell’Osservatorio Astronomico Vaticano, 1 giugno 1988). Nella stessa prospettiva sono stato felice di fare mie le conclusioni della Pontificia Commissione che avevo incaricato di esaminare la menzionata controversia. In effetti, “il caso Galileo – osservavo – ha costituito una sorta di mito, nel quale l’immagine degli avvenimenti che ci si era costruita era abbastanza lontana dalla realtà [...]. Una tragica reciproca incomprensione è stata interpretata come il riflesso di una opposizione costitutiva tra la scienza e la fede. Le chiarificazioni apportate dai recenti studi storici ci permettono di affermare che tale doloroso malinteso appartiene ormai al passato” (Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 31 ottobre 1992, n. 10).

3. Ma verso quale direzione può orientarsi in futuro il dialogo tra scienza e fede? La mia riflessione prende spunto volentieri da una delle iscrizioni in bronzo inaugurate qui oggi: “Scienza e fede sono entrambe doni di Dio”. In questa sintetica affermazione non soltanto si esclude che scienza e fede si debbano guardare con reciproco sospetto, ma si indica il motivo più profondo che le chiama a stabilire un rapporto costruttivo e cordiale: Dio, comune fondamento di entrambe; Dio, ragione ultima della logica del creato che la scienza esplora, e fonte della Rivelazione con la quale Egli liberamente si dona all’uomo, chiamandolo alla fede, per renderlo, da creatura figlio, ed aprirgli le porte della sua intimità. La luce della ragione, che rende possibile la scienza, e la luce della Rivelazione, che rende possibile la fede, provengono da un’unica sorgente. Sono due traiettorie distinte ed autonome, ma che per loro natura non possono entrare mai in rotta di collisione. Quando si dovesse registrare una qualche frizione, essa sarebbe il sintomo di una incresciosa patologia. Per questo il Concilio Vaticano II ha affermato la legittima autonomia e il valore immenso della conoscenza scientifica (cf. Gaudium et spes, 59). La Chiesa anzi non esita a riconoscere che ogni autentico progresso scientifico – ed analogamente ogni avanzamento tecnologico che veramente serva al benessere integrale dell’uomo – va considerato come un inestimabile dono di Dio.

4. In che senso la scienza è “dono” di Dio? Una simile affermazione potrebbe risultare ambigua, addirittura provocatoria per il non credente, se la si intendesse come attenuazione della capacità naturale della mente, attraverso rigorosi procedimenti logico-conoscitivi, di cogliere la realtà. Ma un tale senso è così lontano dal pensiero della Chiesa, che finanche nel dominio della fede essa respinge un “fideismo” cieco (cf. Denzinger-Schönmetzer, 3009). A maggior ragione è da riconoscere la naturale capacità della mente umana di attingere la verità negli ambiti propri dell’esperienza e della conoscenza del mondo. Riconoscere ciò, lungi dall’escludere il “dono” di Dio, piuttosto lo suppone. Basti infatti considerare che l’uomo, e il mondo nel suo complesso, in quanto creature, sono costitutivamente un “dono”, sgorgato dal libero disegno dell’amore divino. “Che mai possiedi – ricordava l’apostolo Paolo ai cristiani di Corinto – che tu non abbia ricevuto?” (1 Cor 4, 7). Ma al di là di questo dono fontale e costitutivo, tutto il cammino dell’essere umano attraverso i molteplici sentieri dell’esistenza, compreso quello esaltante della conoscenza scientifica, è accompagnato dalla Provvidenza divina, che senza nulla togliere al ruolo dell’intelligenza, la segue, la illumina e la orienta, in un misterioso dialogo con l’umana libertà. In Dio, dunque, pur nella diversità dei loro cammini, scienza e fede trovano il loro principio di unità. Lo stesso Dio che si è manifestato nella Rivelazione, è anche Colui che ha lasciato la sua orma nel grande libro della natura, e si rende misteriosamente presente nella storia con la sua Provvidenza. “In lui – disse Paolo agli Ateniesi – viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17, 28). Si può talvolta non riconoscere la sua mano, e c’è purtroppo anche tra gli scienziati chi apertamente la nega. Ma è proprio la storia della scienza, con la sua innegabile quanto inesauribile perfettibilità, ad escludere un fatuo orgoglio scientista e a suggerire alla scienza, insieme col coraggio e la fiducia della ricerca, la saggezza dell’umiltà, almeno nel lasciare aperto l’interrogativo metafisico sul principio ultimo e trascendente dell’esistenza. Del resto, nessuno più dello scienziato, quotidianamente alle prese con il mistero della natura, costretto a raccoglierne spesso solo delle briciole e a confessarne l’incatturabile immensità, è in grado di sentire i progressi della sua conoscenza come un “dono”, un dono non di rado insospettato, che riempie di meraviglia, e fa fiorire sulle labbra e nel cuore il sentimento della “riconoscenza”. Questo grato e sempre nuovo stupore dell’intelligenza è il naturale terreno dell’incontro tra la scienza e la fede. Albert Einstein significativamente affermò: “Quello che è eternamente incomprensibile nel mondo è proprio il fatto che esso è comprensibile” (cf. “Journal of the Franklin institute”, 1986, vol. 221, n. 38). Si tratta di un incoercibile senso di stupore che il credente traduce in slancio di preghiera, quando coglie nel mistero del mondo l’eco di un Mistero più grande, ed esclama col salmista: “O Signore nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra!” (Sal 8, 2).

5. Il dialogo tra scienza e fede, nel rispetto dei reciproci ambiti, è doppiamente necessario sul terreno della conoscenza scientifica applicata. Qui infatti alla dimensione, per così dire, contemplativa, che comporta già di per sé un risvolto morale, si aggiunge un’istanza di carattere operativo implicante decisamente in campo pratico il discernimento etico. Giustamente si distingue in proposito tra scienza e tecnologia. È sul piano della scienza applicata che l’umanità sperimenta, nel bene e nel male, la potenza della conoscenza scientifica. Se la vita dell’uomo corre oggi enormi pericoli, non è a causa della verità scoperta mediante la ricerca scientifica, ma per le applicazioni di morte che ne sono state fatte sul piano tecnologico. In un’altra iscrizione riprodotta qui nel vostro Centro si legge: “Come al tempo delle lance e delle spade, così anche oggi nell’era dei missili, ad uccidere, prima delle armi è il cuore dell’uomo”. È giusto però notare che tale distinzione, facile in teoria, è più difficile in pratica, giacché, nel concreto della vita, tra ricerca scientifica e tecnologia esiste una naturale connessione. Ambedue, pertanto, devono farsi carico di una precisa responsabilità etica in rapporto alle loro connessioni ed applicazioni. La posta in gioco è troppo grande, perché la si possa considerare con leggerezza. La situazione attuale del mondo, purtroppo, non sembra molto cambiata rispetto a come la descrivevo alcuni anni fa nel citato messaggio: “So much of our world seems to be in fragments, in disjointed pieces. So much of human life is passed in isolation or in hostility. The division between rich nations and poor nations continues to grow; the contrast between northern and southern regions of our planet becomes ever more marked and intolerable. The antagonism between races and religions splits countries into warring camps; historical animosities show no signs of abating. Even within the academic community, the separation between truth and values persists, and the isolation of their several cultures – scientific, humanistic and religious – makes common discourse difficult if not at times impossible” (Lettera al Rev.do George V. Coyne, S. I., cit.).

6. Siamo stati testimoni in questi ultimi anni di rapidi e sorprendenti mutamenti sociali. Tra questi come non menzionare il superamento della rigida divisione del mondo in blocchi ideologici, e politici e militari contrapposti? È grazie a questo evento che è stato allontanato, almeno in gran parte, il pericolo dell’“olocausto nucleare”. In questo stesso arco di tempo, tuttavia, hanno raggiunto livelli di estrema pericolosità altre emergenze di carattere planetario, che lasciano intravedere il rischio di una sorta di “olocausto ambientale”, dovuto alla improvvida distruzione di vitali risorse ecologiche e al moltiplicarsi di attentati sempre più insidiosi alla difesa e al rispetto della vita umana. La sfrenata corsa all’accaparramento e allo sfruttamento dei beni della terra da parte di pochi privilegiati pone le premesse di un’altra forma di guerra fredda, questa volta tra Nord e Sud del pianeta, tra Paesi altamente industrializzati e Nazioni povere, che non può non impensierire quanti hanno a cuore le sorti del mondo. Sull’orizzonte dell’umanità incombono nuovamente nubi minacciose.

7. Illustri membri e collaboratori di questa Comunità scientifica, nel rinnovarvi l’espressione del mio sincero apprezzamento per aver saputo con lungimirante tempestività porre al centro della vostra ricerca le attese e le sfide del mondo d’oggi, sento il dovere di esortarvi a farvi generosamente carico delle vostre responsabilità. Per affrontare e risolvere la minaccia di un olocausto ambientalec’è bisogno di scienziati che, come voi, sappiano offrire il loro apporto in maniera competente, coordinata, perseverante. Vi sono grato per quanto già state facendo in questo senso. Vi ringrazio anche per avermi offerto, come omaggio graditissimo, i risultati della vostra attività, preludio ad ulteriori conquiste per il bene dell’umanità. Apprezzo in particolare l’impegno profuso a favore di giovani studiosi provenienti da Paesi in via di sviluppo, affidati alla guida sollecita di eminenti uomini di scienza, che offrono volontariamente la loro opera. Siatene certi: il volontariato scientifico è una delle forme più nobili di amore per il prossimo.

8. Un’altra frase incisa nell’opera bronzea del Maestro Umberto Mastroianni ricorda: “L’uomo può perire per effetto della tecnica che egli stesso sviluppa, non della verità che egli scopre mediante la ricerca scientifica”. Quando l’attività scientifica incide positivamente sul rispetto e la tutela della dignità dell’uomo, contribuisce in maniera significativa alla costruzione della pace. È pertanto necessario promuovere instancabilmente una cultura scientifica, capace di guardare sempre a “tutto l’uomo” e a “tutti gli uomini”, al servizio del bene e della solidarietà universale. Riveste, in proposito, grande rilevanza il progresso del dialogo tra scienza e fede. Dobbiamo impegnarci insieme a ristabilire il nesso tra verità e valori, tra scienza e impegno etico. Dobbiamo essere tutti veramente convinti che il progresso è tale se è al servizio del genuino e integrale benessere degli individui e di tutta la famiglia umana. Mi preme dunque ribadire ancora una volta quello che ho più volte sottolineato, e cioè che, se compito principale della scienza è ricercare la verità nella piena e legittima libertà che le appartiene, non è permesso tuttavia agli scienziati astrarre dalle implicazioni etiche concernenti i mezzi della loro ricerca e l’uso stesso delle verità scoperte (cf. Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 31 ottobre 1992, n. 13). La bontà etica non è che un altro nome della verità, quando essa è cercata dall’intelletto pratico. Non si può oscurare ed offendere la dimensione pratica della verità, senza che alla lunga ne derivi un pregiudizio alla percezione anche dei suoi aspetti “teorici”, almeno in quei settori che comportano più immediati risvolti di carattere operativo. Il vostro Centro è sensibile alla prospettiva di una scienza veramente “globale”, e sono lieto di constatare che avete dedicato gran parte del tempo e dell’impegno proprio a curare il dialogo riguardante le implicazioni etiche di varie scoperte nell’ambito delle scienze fisiche e biologiche. Consentitemi, per questo, di ripetervi la mia “ammirazione”, esprimendovi nel contempo il più vivo incoraggiamento. La mia fondata speranza è che la Chiesa e la Comunità scientifica condividano, in un fecondo dialogo sempre più intenso e cordiale, le loro ricchezze di conoscenza e di esperienza, perché tutte le creature possano partecipare alla realizzazione del progetto amoroso di Dio.

Sperimenteranno così l’abbondanza della benedizione divina: “Siate benedetti dal Signore che ha fatto cielo e terra!” (Sal 115, 15), benedizione che volentieri imploro oggi su questo vostro Centro “Ettore Maiorana” e sull’intera Comunità scientifica di Erice. La pace è sempre frutto dell’amore. Voi scienziati che coltivate soprattutto l’intelletto siete anche cultori dell’amore.