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La finalità della natura: il Salmo XVIII e il Peri philosophias di Aristotele

Sofia Vanni Rovighi
1986

La filosofia e il problema di Dio

L'autrice rileva le affinità tra il Peri Philosophias, scritto da un giovane Aristotele, ed il Salmo XVIII che, pur provenendo da contesti culturali molto differenti presentano dei punti di contatto molto forti. Entrambi, infatti, ci parlano di come sia possibile scorgere la grandezza e l'esistenza di un creatore a partire dall'osservazione del mondo e della sua bellezza. La finalità della natura sembra quindi farsi portavoce di una via che conduce all'esistenza di Dio.

Veniamo ora all'argomento che prende le mosse dalla finalità della natura. Lo troviamo esposto nella «quinta via» di S. Tommaso, ma è molto più antico. Potremmo ricordare il salmo XVIII: Caeli enarrant gloriam Dei, di cui c'è una precisa reminiscenza nella famosa Conclusione della Critica della ragion pratica: «Due cose riempiono l'animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente...: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me» (anche la seconda parte del Salmo XVIII parla della legge del Signore). Ricordiamo il celebre frammento del Peri philosophias di Aristotele; lo riporto da W. Jaeger , Aristotele , nella traduzione di G. Calogero: «Se ci fossero degli uomini, i quali avessero sempre abitato sotto la terra in buone e splendide dimore [...] fornite di tutte quelle cose di cui abbondano coloro che si stimano felici; se essi non fossero però mai saliti sulla terra, e avessero solo sentito parlare dell'esistenza di una certa natura e potenza divina, e dopo qualche tempo, spalancatasi la terra, fossero potuti uscire da quelle loro dimore e pervenire nei luoghi che noi abitiamo; quando ad un tratto avessero veduto la terra e il mare e il cielo, e avvertita la grandezza delle nubi e la forza dei venti, e scorto il sole, e insieme con la sua grandezza e bellezza avessero conosciuta l'attività con la quale, diffondendo la luce per tutto il cielo, esso produce il giorno; se poi, oscurata la terra dalla notte, scorgessero il cielo tutto trapunto e adorno d'astri, e le fasi della luna crescente e calante, e le nascite e i tramonti e le orbite immutabilmente fissate per l'eternità di tutti questi corpi celesti: se essi scorgessero tutto ciò, riterrebbero certo che gli dei esistono e che tanta grandezza è tutta opera loro».

Prima di riferire alcune osservazioni dello Jaeger, vorrei rilevare l’affinità tra questo frammento del giovane Aristotele (secondo Jaeger prima dei quarant’anni) e il Salmo XVIII. Sono espressioni di due mondi culturali diversi, eppure contengono una visione del mondo che ha notevoli punti in comune. Ci sono dunque verità che si presentano a uomini di culture diverse, e bisogna stare attenti se ci si accinge a «deellenizzare» a non buttar via qualcosa che non è soltanto ellenico, e che magari si ritrova anche nella Bibbia.

E ora veniamo alle osservazioni dello Jaeger, il quale riteneva che il passo di Aristotele ha un riferimento al mito della caverna nella Repubblica (VII libro) di Platone, ma attesta una diversa concezione del mondo sensibile: per Platone questa è solo ombra della vera realtà, per Aristotele ha una propria consistenza e un proprio valore.

Gli uomini di cui parla Aristotele «non hanno vissuto nelle caverne: sono uomini moderni, sazi di civiltà e deformati da essa che come talpe si seppelliscono nel lusso privo di luce e d'anima cercandovi la loro dubbia felicità. Egli immagina che un giorno salgano alla luce e contemplino… l’incommensurabile prodigio della realtà, la divina costruzione e animazione del mondo. Egli insegna loro a contemplare non un sopramondo, ma quella stessa realtà che a tutti è visibile e che tuttavia nessuno vede. Vorrei sottolineare quest'ultima riga: quella realtà che a tutti e visibile e che tuttavia nessuno vede: fare filosofia è infatti, prima di tutto, fare attenzione a quello che a tutti è visibile e che tuttavia nessuno vede; e la parte fenomenologica della filosofia, che è la base della parte inferenziale, metafisica. Certo una delle difficoltà che presentano a noi le argomentazioni per l'esistenza di Dio dipende dalla difficoltà di mettersi in uno schietto atteggiamento fenomenologico. Noi troviamo naturalissimo che il sole ci illumini, che un giorno passi la parola a un altro giorno, come dice il Salmo XVIII, che tutto questo dia luogo alla generazione di una miriade di viventi; lo troviamo naturalissimo e ci interessiamo magari al come questa avvenga, cioè studiamo le spiegazioni scientifiche di questi fenomeni, e facciamo benissimo, ma non ci stupiamo che questa avvenga. Ma su questo ritorneremo.

Fra le presentazioni medievali dell'argomento che parte dalla finalità della natura vorrei ricordare quella di Ugo di S. Vittore nel De tribus diebus: e, se volete, estremamente ingenua, puerile, nella sua descrizione della natura, mescolata a elementi fantastici, ma esprime in modo poetico ed efficace lo stupore, la meraviglia di fronte alla complessità, alla varietà della natura.

    

Sofia Vanni Rovighi, La filosofia e il problema di Dio, Vita e pensiero, Milano 1986, pp. 69-71