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Gli invarianti filosofici della realtà scientifica

Federigo Enriques
1911

L'anima religiosa della scienza

Il brano è tratto da un breve testo, L’anima religiosa della scienza, del matematico Federigo Enriques, scritto e letto in occasione dell’apertura del IV Congresso Internazionale di Filosofia tenutosi a Bologna nel 1911, che vide la partecipazione di numerosi scienziati, perlopiù europei, impegnati in varie discipline e filosofi di diverso orientamento. È apparso poi in una versione leggermente modificata, nel 1912, come ultimo capitolo del  volume dal titolo Scienza e razionalismo. Enriques, costituì e diresse la Società Filosofica Italiana e nel 1907 fondò la rivista «Scientia». Il suo percorso di filosofo e scienziato è orientato sin dall’inizio a gettare le basi di una visione sintetica dei saperi.

Non basta che lo spirito dell’uomo si pieghi benevolente ad interrogare il fratello; il senso di simpatia che ci fa presentire l’identità d’un comune ideale, non è ancora che l’espressione d’un desiderio, la premessa di un’opera di ravvicinamento che solo il pensiero può compiere e fermare nella consapevolezza d’una realtà umana. Ma appunto questa realtà che inseguiamo con sforzo secolare per le vie della storia, par dileguarsi quasi fantasma al lume della critica. Onde già la ricerca di definire ciò che cerchiamo come reale sembra metter capo ad un irriducibile contrasto.

Né vale a nasconderlo, comporre la divisione degli spiriti nei rigidi schemi di un particolarismo scientifico e filosofico, onde a ciascuno sia dato un proprio campo che con diritto coltivi a suo modo fuor dell’altrui controllo e di cui ciascuno faccia a sé stesso il mondo della realtà universa. Teoria e pratica, ragione e fede, scienza e filosofia non si lasciano partire in siffatta guisa, se non col segreto disegno d’innalzare il proprio vero di fronte ad altro che si disdegni come misero o vano.

Giova dunque investigare più profondamente i significati diversi che si raccolgono sotto lo stesso nome di realtà; ma l’analisi non può essere il termine della ricerca, bisogna ancora spiegare perché a quella parola convengano – nonostante i diversi significati – le aspirazioni medesime. Tale è il problema, non più critico o storico e filologico, ma veramente filosofico: il problema della lotta nel campo del pensiero, e dell’identità umana, che in questa si disvela e s’afferma. […]

  

Realtà e concetto d’invariante

Cerchiamo anzitutto di porre in chiaro questo punto essenziale: vi è qualcosa di comune nell’attività rappresentativa e costruttiva del reale che dà origine alla scienza e alla religione. Questo elemento si discopre nell’analisi del giudizio relativo alla realtà di un oggetto qualsiasi.

Già pel senso comune l’idea della realtà si esprime come aspettativa di una permanenza soggiacente al flusso delle cose sensibili. Anzi l’ipotesi di codesta permanenza viene fissata nella figurazione di un mondo ove si prolunga come esistente di per sé tutto ciò che è sentito e si ritrova immutato in ripetute esperienze.

Le ipotesi materialistiche e meccaniche si affacciano poi come naturale estensione della metafisica del senso comune. Ed anche quando esse vengano rigettate dalla critica positiva, dopo eliminato il loro significato trascendentale, rimane sempre nella scienza l’idea di oggetti e di rapporti invarianti, che si traduce nei principi e nelle leggi scientifiche: tali sono la materia e l’energia che esprimono la proprietà additiva della massa nelle combinazioni chimiche e l’equivalenza termo-dinamica.

Anche la fede religiosa è fede in una realtà che dura eterna oltre le apparenze mutevoli; formalmente il pensiero che qui si manifesta riesce come quello della scienza alla rappresentazione d’invarianti. […]

  

L’immagine del Tutto

Ma quando dalla ricerca particolare si sale alla contemplazione della realtà nel suo insieme, e la fantasia colorisce innanzi a sé l’immagine del Tutto, in qual modo potrà ancora farsi valere codesta fiducia animatrice che dava forza in ogni riconoscimento parziale al criterio scientifico?

Qui il dilemma si affaccia nella sua crudezza inesorabile: o ammettere – coll’intuizione religiosa – che il valore possa accettarsi come criterio di verità, o postulare – coll’intuizione scientifica – che la realtà universale è indipendente da qualsiasi nostra valutazione affettiva e però aprire innanzi agli occhi la prospettiva di una visione di dolore senza speranza.

Ora se uno spirito logico si vede costretto a scegliere fra queste due ipotesi, non si comprende com’ei possa accogliere per il Tutto un criterio di verità che abbandoni per ogni oggetto particolare. Se la realtà è perfezione, sembra che questa perfezione debba pur manifestarsi in ogni angolo dell’universo, e porgere quindi un criterio di giudizio superiore di fronte alla scienza sperimentale. Così infatti Leibniz deduceva dalla perfezione divina il principio di ragione sufficiente che doveva rendere possibile la costruzione a priori dello scibile e di cui il filosofo verificava determinatamente le conseguenze nelle leggi della meccanica. Così ancora Hegel ricercava nella storia l’esplicazione del principio religioso che il razionale è reale, e, riprendendo il disegno di Schelling, pretendeva stabilire una filosofia della natura che spiegasse l’evoluzione del Cosmo in vista del fine umano, assunto come valore universale e supremo.

Dunque la scelta di cui si tratta è fra due intuizioni che non patiscono limite: fra una veduta religiosa ed una veduta scientifica che vogliono il dominio esclusivo della realtà.

Ma non basta il proposito di scegliere, se in ciascuna delle soluzioni contrapposte si annida ancora un’intima contraddizione. Non è possibile estendere illimitatamente il valore a fondamento del giudizio di realtà e tenerlo saldo in ogni campo contro i dati dell’esperienza e della ragione; imperocché l’illusione umana divenuta consapevole di sé, cede all’evidenza del fatto. Perciò il credente sincero non è mai ostile in principio alla scienza, e soltanto ama rifugiarsi nel misterioso evocando le ombre oscure dell’ignoto, dove ha salda fiducia che si accordino le apparenti contraddizioni. Se è dotato di spirito logico e trovasi condotto sul terreno della ricerca, ei sa costringersi a contemplare la realtà con occhio sereno, e, sdegnoso di soddisfare alla speranza coll’inganno, attende questa intima soddisfazione dal progresso a venire. Così il postulato del valore resta nella coscienza religiosa quasi un punto di partenza provvisorio che un sapere perfetto dovrebbe rimpiazzare coll’evidenza razionale. In questo stato d’animo è implicito il riconoscimento di una realtà che non è foggiata arbitrariamente per compiacere le intime aspirazioni del cuore umano, ma che si scopre ad un esame obiettivo conforme a codeste aspirazioni.

Dunque il postulato dell’intuizione scientifica del mondo si rivela, pure nello spirito del credente, come un’esigenza contraddittoria al concetto dominante della realtà religiosa.

Ma all’opposto l’intuizione religiosa si manifesta pure nella coscienza scientifica. Domandiamoci infatti: è mai possibile che il criterio dell’indifferenza scientifica venga innalzato veramente a criterio massimo del pensiero? L’uomo che professi non dar peso al valore del resultato ma soltanto alla sua verità, si dimostra già animato da un alto motivo morale che chiede ed impone – ove occorra – il sacrifizio del sentimento; onde, nell’atto medesimo in cui egli respinge ogni fede nel progresso e nella conservazione dei valori, scopre in sé stesso un valore ideale che nella sua mente supera ogni altro bene e che è l’oggetto proprio della sua fede scientifica; appunto la fede nella verità, nella conquista della verità e nel progresso della ragione, tempera l’animo suo ad ogni visione dolorosa; ed egli non può abbandonare anche questa fede senza perdere insieme l’interesse della ricerca, proseguita con sforzo tenace.

Dunque l’indifferenza radicale di fronte ai valori trarrebbe con sé anche l’indifferenza pel sapere, che significa la morte della scienza. E però dinanzi alla realtà universale l’atteggiamento dello spirito scientifico come quello dello spirito religioso si rivelano ugualmente affetti da un’intima contraddizione.

La quale non lascia via di scampo finché si voglia chiudere in un concetto o in una visione compiuta l’immagine del Tutto.

  

L’attività costruttiva del reale: valore affettivo degli invarianti

La difficoltà che qui si presenta è analoga a quella cui dà origine generalmente il concetto dell’Infinito preso in un senso attuale anziché potenziale.

Bisogna superare il paradosso secondo la via che il pensiero matematico ha percorso nello sviluppo dell’analisi infinitesimale: riconoscere che non si può parlare del Tutto come di qualcosa di compiuto, perché si ha qui soltanto un’idea negativa; c’è una realtà illimitata suscettibile d’estensione indefinitamente, ma in nessun punto ci è dato di cogliere l’Universo come una serie formata nella sua interezza.

Allora la contraddizione svanisce. Col progresso della costruzione scientifica, diventa sempre possibile scoprire un valore più vasto nella realtà inesplorata; il noto, coi suoi valori parziali, ci sta davanti agli occhi come un abbozzo imperfetto dell’ideale che tendiamo a realizzar nell’ignoto; è una necessità di adattamento che promuove la critica dei valori e spinge lo spirito umano a cercare di soddisfarsi in un’armonia più larga, ed è un’indicazione del senso in cui può procedere la ricerca appagatrice delle aspirazioni umane.

Da questo punto di vista si è indotti a ravvisare l’unità dello spirito scientifico e dello spirito religioso, nell’attività costruttiva della scienza e della religione.

Abbiamo già osservato che per ambedue le forme la rappresentazione della realtà si risolve in ultima analisi nel fissare qualcosa d’invariante di mezzo al flusso delle cose sensibili. Or bene la radice psicologica della determinazione d’invarianti si riconosce in una disposizione affettiva. Lo spirito umano è tratto naturalmente a cercare nel sensibile qualcosa di fisso che valga comunque a soddisfare i suoi bisogni ed i suoi desideri. L’amore che chiede la durevolezza dell’oggetto amato, promuove l’attaccamento ai beni meno fuggevole. E la negazione dell’amore segue la stessa legge.

Così gli oggetti che hanno un valore o un disvalore durevole sono i primi invarianti che lo spirito umano riconosce nella realtà circostante, e coi quali foggia l’immagine della realtà. Poi l’abitudine che adatta ogni vivente alle condizioni di vita, lo induce a trovare qualche cosa di buono in tutto ciò che permane intorno a lui.

   

F. Enriques, L’anima religiosa della scienza, Castelvecchi, Roma 2016, ed. originale in Scienza e razionalismo (1912), pp. 22- 23; 26-27; 31- 34.