Tu sei qui

Un cuore nuovo per il mondo. 50 anni dopo il primo trapianto cardiaco

Luglio 2018
Luca Borghi
Docente di Storia della medicina e di Storia della scienza e della tecnica Università Campus Bio-Medico di Roma

Solo qualche mese fa, il 3 dicembre 2017, ricorrevano 50 anni dal primo trapianto di cuore. È uno dei ricordi più vivaci della mia infanzia, tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta. Christiaan Barnard che, sorridente e abbronzato, fa costantemente capolino dalle cronache mondane di televisioni, giornali e rotocalchi. Era la prima volta nella storia della medicina e della chirurgia che un grande innovatore non era soltanto celebrato dalle accademie e dai contesti colti di tutto il mondo, ma entrava a far parte a pieno titolo dello star system, quasi che si trattasse di un grande attore di Hollywood o di una ricercata fotomodella (le supermodels, a quell’epoca, non erano ancora state inventate).

La cosa era tanto più sorprendente se si pensa a come erano considerati i chirurghi poco più di cento anni prima. Per molti medici era imbarazzante soltanto sentirsi accostati a quei “selvaggi muniti di coltello” (John Hunter) e, ancora alla fine dell’Ottocento, se un grande pittore come Henri de Toulouse-Lautrec sceglieva volentieri i chirurghi famosi come soggetto dei propri quadri, lo faceva con lo stesso sguardo disincantato con cui ritraeva ballerine e prostitute.

Poi però la chirurgia ottocentesca aveva abbattuto, uno dopo l’altro, i tre grandi nemici che da secoli ne impedivano l’avanzata. I gas anestetici avevano vinto il dolore che torturava e talvolta uccideva i malati. Le pinze emostatiche avevano permesso di controllare quelle emorragie che ostacolavano l’azione del chirurgo e mettevano a rischio la sopravvivenza del paziente. Le prime sostanze antisettiche, come l’acido fenico, avevano cominciato a contrastare efficacemente l’invasione di microorganismi che, provocando infezioni letali, vanificavano gran parte delle operazioni chirurgiche, per quanto esse fossero state eseguite con tecnica ineccepibile.

A quel punto, tra la fine del diciannovesimo e i primi decenni del ventesimo secolo, quella peculiare “opera delle mani” che è etimologicamente la chirurgia aveva inaugurato una nuova epoca di trionfi, mettendo il proprio sigillo, uno dopo l’altro, sui principali distretti del corpo umano: il sistema digerente, l’apparato genitale, la cassa toracica, persino il cervello. Soltanto il cuore continuava a sfuggire all’azione del bisturi e della mano che lo guida. Era abbastanza intuitivo: incidere con il bisturi un cuore battente avrebbe provocato un’emorragia tale da uccidere l’individuo nell’arco di pochi minuti; fermare il cuore per condurvi un’operazione chirurgica avrebbe privato il corpo dell’indispensabile irrorazione sanguigna provocandone parimenti la morte. Il tabù chirurgico dell’operazione sul cuore era così forte che alcuni grandi chirurghi dell’epoca, come Theodor Billroth (1829-1893), ammonivano i colleghi più giovani a stare alla larga da quel terreno scivoloso: se avessero tentato, e sicuramente fallito, avrebbe gettato discredito sull’intera categoria professionale dei chirurghi che, solo a prezzo di tanta fatica, avevano cominciato a migliorare il proprio status scientifico e sociale.

Ci sarebbero voluti ancora quarant’anni prima che entrasse in scena, a metà degli anni Trenta del Novecento, una coppia scientifica tra le più incredibili che la storia della scienza e della tecnica ricordino. Ci volevano un chirurgo visionario come Alexis Carrell – così visionario da aver dovuto abbandonare la Francia per gli Stati Uniti dopo essersi dichiarato a favore delle apparizioni di Lourdes! – e un ingegnere/aviatore temerario come Charles Lindbergh – che nel 1927 aveva trasvolato per primo l’Atlantico in solitaria – per cominciare ad abbattere il grande tabù della chirurgia del cuore. Carrell, ricordandosi dell’abilità del padre sarto, aveva inventato una tecnica di sutura che consentiva, per la prima volta nella storia della chirurgia, di ricollegare le due estremità di un vaso sanguigno reciso, recuperandone la funzionalità. Per questo aveva vinto, nel 1912, il Nobel per la Medicina, aprendo di fatto la strada all’era dei trapianti di organo, la cui condizione previa era evidentemente la possibilità di collegare i vasi dell’organo espiantato a quelli del corpo del ricevente. Lindbergh, poi, era un grande esperto di pompe e, per ragioni familiari, si arrovellava per trovare un modo di riparare quella particolare pompa che è, dopotutto, il cuore.

Lavorando assieme presso il Rockefeller Institute for Medical Research a New York, a metà degli anni Trenta Carrel e Lindbergh riuscirono a costruire una pompa che poteva mantenere irrorati e quindi vitali per settimane degli organi e dei tessuti isolati dal corpo. Per una volta la semplificazione giornalistica di chi parlò subito di un “cuore artificiale” si sarebbe rivelata profetica. Si trattava sicuramente di un altro decisivo passo avanti verso la possibilità di un qualsiasi trapianto. Il tassello decisivo fu però aggiunto da un altro chirurgo americano, John Gibbon, che, con la collaborazione della moglie, Mary Hopkinson, tra gli anni Trenta e i primi anni Cinquanta, riuscì nell’impresa di costruire un’apparecchiatura in grado di sostituire temporaneamente sia la funzione cardiaca che quella respiratoria: era nata la macchina cuore-polmoni che, permettendo di bypassare il cuore per il tempo necessario all’intervento chirurgico, inaugurava finalmente l’era della chirurgia a cuore aperto.

Christiaan Barnard, che era nato in Sudafrica nel 1922, ebbe innanzitutto la fortuna e l’abilità di essere lì al momento giusto. Grazie a una borsa di studio trascorse due anni negli Stati Uniti, tra il 1956 e il 1958, a contatto con alcuni grandi pionieri della chirurgia cardiaca e dei trapianti come Owen Wangensteen, Walton Lillehei e Norman Shumway. Ormai Barnard aveva deciso che quello sarebbe stato il suo ambito di lavoro e di ricerca: cuore e trapianti. A posteriori si è saputo che, dopo il suo ritorno in Sudafrica, fin dai primi anni Sessanta condusse in gran segreto decine di operazioni chirurgiche sperimentali su animali come scimpanzé, orangutan e babbuini, cercando una tecnica chirurgica efficace per il trapianto di cuore. Contemporaneamente restava bene informato su quanto succedeva al di là dell’Atlantico. Ormai, infatti, era una gara contro il tempo tra i diversi gruppi di ricerca americani per chi sarebbe riuscito ad effettuare per primo il trapianto di cuore da uomo a uomo.

Alla fine la spunterà Barnard, grazie ad un pizzico di abilità e di spregiudicatezza in più, favorito anche da una normativa più permissiva rispetto a quella con cui dovevano fare i conti i suoi colleghi negli Stati Uniti. Il 3 dicembre 1967, nel Groote Schuur Hospital di Città del Capo un cardiopatico terminale di 54 anni, Luis Washkansky, ricevette il cuore di una giovane donna deceduta, poche ore prima, in un incidente stradale. La sua morte dopo soli 18 giorni, causata da una polmonite e non da un rigetto dell'organo trapiantato, non frenò l'entusiasmo planetario provocato dall'impresa di Barnard che poche settimane dopo, il 2 gennaio 1968, avrebbe eseguito il secondo trapianto di cuore su di un altro uomo, Philip Blaiberg, che sarebbe sopravvissuto per quasi due anni. Nonostante i rischi dell'intervento, Barnard aveva visto giusto quando affermava: “Per un uomo che sta morendo non è una decisione difficile da prendere, perché tanto sa di essere alla fine. Se un leone ti insegue sulla riva di un fiume infestato dai coccodrilli, tu ti tuffi nell'acqua convinto di avere almeno una possibilità di nuotare fino all'altra sponda”.

Il trapianto di cuore, che si consoliderà ulteriormente a partire dagli anni Ottanta dopo l’introduzione di più efficaci farmaci antirigetto come la ciclosporina, cambiò per sempre molte cose, anche al di là dell’ambito strettamente chirurgico. L’urgenza di poter disporre di un organo cardiaco ancora vitale dopo la morte dell’individuo portò l’Harvard Medical School pochi mesi dopo, nell’agosto 1968, a tentare una prima definizione dei criteri per stabilire il “coma irreversibile”, quella che in seguito verrà chiamata morte cerebrale, un delicatissimo tema antropologico ed etico che ancora oggi è tutt’altro che privo di controversie. Le lunghe liste d’attesa di cardiopatici gravi che ben presto si formarono nei pochi centri al mondo che praticavano il trapianto di cuore - così lunghe da risultare spesso fatali per persone che avevano solo pochi mesi di vita - imposero la ricerca di una soluzione “ponte”, come ormai da decenni la macchina per la dialisi faceva da ponte per chi attendeva il trapianto di rene. Ciò mise in moto un fecondo filone di ricerca e di sviluppo in ambito bio-ingegneristico che, sotto il vessillo del “cuore artificiale”, ha portato alla progettazione di strumenti estremamente efficaci nella assistenza/sostituzione, se non di tutto il cuore, almeno della essenziale funzione del ventricolo sinistro. È un esemplare di questi left-ventricular assist device che ha permesso all’ex vicepresidente degli Stati Uniti, Dick Cheney, di sopravvivere per due anni in attesa del trapianto cardiaco avvenuto nel 2012. 

È giusto, insomma, da molti punti di vista, ricordare oggi Christiaan Barnard e il primo trapianto di cuore da lui effettuato cinquant’anni fa. È giusto, soprattutto se lo si fa senza dimenticare tutti coloro che, nell’arco dei centocinquant’anni precedenti, avevano gradualmente fatto uscire la chirurgia dalla “barbarie” dei suoi lunghi secoli oscuri, che avevano fatto della cenerentola del sapere medico la sua regina indiscussa, ponendo le basi su cui era stato possibile preparare e realizzare l’impresa di Barnard. Perché la storia della scienza fa pochi salti, e anche quei pochi sono spesso frutto dell’impegno di molti.

La vita di Christiaan Barnard (1922-2001), nel suo insieme non è stata né particolarmente esemplare, né particolarmente invidiabile. Resta il fatto che egli verrà sempre ricordato come colui che ha dato a second chance, una seconda possibilità, a decine di migliaia di persone che avevano ormai i giorni contati. Una figura, quella di Barnard, che può sicuramente essere di ispirazione per i molti, soprattutto giovani, che oggi si trovano a dover affrontare delle sfide in ambito medico, chirurgico e sanitario in genere, non meno difficili e dall’esito incerto di quelle affrontate e vinte dalla generazione di Christiaan Barnard. La generazione di coloro che hanno regalato un cuore nuovo, alla medicina e all’umanità.