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Cinquant’anni fa l’enciclica Populorum progressio

Ottobre 2017
Giovanni Avallone
Università degli Studi di Roma Tor Vergata

Il tema del progresso interessa non solo l’economia e le scienze sociali in genere, ma anche le scienze naturali, trattandosi di un concetto che oggi associamo soprattutto all’aggettivo “scientifico”. Nella Dottrina sociale della Chiesa la riflessione sul progresso ha accompagnato buona parte del Novecento, trasmettendo l’idea che la medesima nozione debba essere interpretata in modo integrale, ovvero includendo non solo lo sviluppo economico, ma l’educazione e l’istruzione, la salute e la sicurezza, la cultura e la libertà religiosa. Un popolo sperimenta un vero progresso quando i suoi membri possono portare a compimento la propria umanità in tutte le sue dimensioni materiali, culturali e spirituali. È questo il motivo per il quale, a cinquant’anni esatti di distanza, può risultare utile la rilettura dell’enciclica del beato Paolo VI Populorum progressio, pubblicata il 26 marzo 1967.

Il documento magisteriale fu elaborato in un periodo storico dominato da una inarrestabile e generale fiducia nel progresso tecnico-scientifico, ma anche in precise ideologie politiche che prefiguravano la creazione dell’uomo nuovo il quale, liberato dagli antichi legami con la trascendenza, si sarebbe auto-affermato nella storia orientandola in modo assoluto e totalizzante. Il duplice progetto utopico era ben determinato: da una parte la riduzione dell’uomo a mero oggetto economico-materiale, inserito in una collettività statale alienante e spersonalizzante; dall’altra la riduzione dell’uomo a semplice individuo, produttore e consumatore di beni, inserito in una società solipsistica dal carattere egoistico e autoreferenziale.

L’enciclica di papa Montini creò non pochi problemi ermeneutici, sollevati soprattutto dalla pretesa di interpretare il documento magisteriale attraverso le mere categorie sociologiche e ideologiche. Basti pensare come le questioni circa la destinazione universale dei beni, la proprietà e l’uso dei redditi (cfr. nn. 22-24) suscitarono molteplici reazioni, sia tra coloro i quali sostenevano che la proprietà privata, prevalendo sul bene comune, dovesse essere difesa a tutti i costi; sia tra coloro i quali ritenevano che la stessa andasse abolita, poiché considerata un vero e proprio furto commesso ai danni dei più poveri. A tal proposito il liberale Panfilo Gentile sul Corriere della Sera del 29 marzo 1967, nel suo editoriale dal titolo «La Chiesa e il nuovo mondo», criticò aspramente le ricette sociali presenti nell’enciclica affermando a chiare lettere: «anche laddove la chiesa può educare, in un clima di libertà religiosa, il suo compito sarà quello di educare coscienze cristiane: e il resto sarà dato in sovrammercato». Sulla Stampa del 2 aprile 1967 lo storico Luigi Salvatorelli si espresse invece con toni entusiastici, affermando che l’enciclica andava proprio nella direzione di quell’«umanesimo integrale» tanto auspicato durante il Concilio Vaticano II.

Sempre in un’ottica ermeneutica il messaggio dell’enciclica potrebbe porsi su un piano mediano, ovvero al centro tra due diverse correnti di pensiero politico o tra due diversi modi di concepire la storia, il mondo e l’agire sociale, come sembra affermare il seguente passo:

«La sola iniziativa individuale e il semplice gioco della concorrenza non potrebbero assicurare il successo dello sviluppo. Non bisogna correre il rischio di accrescere ulteriormente la ricchezza dei ricchi e la potenza dei forti, ribadendo la miseria dei poveri e rendendo più pesante la servitù degli oppressi. Sono dunque necessari dei programmi per “incoraggiare, stimolare, coordinare, supplire e integrare” l’azione degli individui e dei corpi intermedi. Spetta ai poteri pubblici di scegliere, o anche di imporre, gli obiettivi da perseguire, i traguardi da raggiungere, i mezzi onde pervenirvi; tocca ad essi stimolare tutte le forze organizzate in questa azione comune. Certo, devono aver cura di associare a quest’opera le iniziative private e i corpi intermedi, evitando in tal modo il pericolo d’una collettivizzazione integrale o d’una pianificazione arbitraria che, negatrici di libertà come sono, escluderebbero l’esercizio dei diritti fondamentali della persona umana» (n. 33).

Sulla scorta di quanto affermato si evince che un’ermeneutica che cerchi solo di mediare tra i due precedenti estremi non soddisferebbe le istanze più profonde del documento, poiché risulterebbe un tentativo riduzionista nel suo significato, costretto e recluso in limitanti categorizzazioni.

Il cuore dell’enciclica, e dunque la sua chiave ermeneutica, si può riscontrare chiaramente nel passo successivo:

«Giacché ogni programma, elaborato per aumentare la produzione, non ha in definitiva altra ragion d’essere che il servizio della persona. La sua funzione è di ridurre le disuguaglianze, combattere le discriminazioni, liberare l’uomo dalle sue servitù, renderlo capace di divenire lui stesso attore responsabile del suo miglioramento materiale, del suo progresso morale, dello svolgimento pieno del suo destino spirituale. Dire sviluppo è in effetti dire qualcosa che investe tanto il progresso sociale che la crescita economica. Non basta accrescere la ricchezza comune perché sia equamente ripartita, non basta promuovere la tecnica perché la terra diventi più umana da abitare. [...] La tecnocrazia di domani può essere fonte di mali non meno temibili che il liberalismo di ieri. Economia e tecnica non hanno senso che in rapporto all’uomo ch’esse devono servire. E l’uomo non è veramente uomo che nella misura in cui, padrone delle proprie azioni e giudice del loro valore, diventa egli stesso autore del proprio progresso, in conformità con la natura che gli ha dato il suo Creatore e di cui egli assume liberamente le possibilità e le esigenze» (n. 34). 

Affermazioni dall’alto valore profetico, poiché tracciano un nuovo percorso alternativo alle ideologie: il fondamento dell’agire sociale è l’uomo non come individuo o cittadino, ma in quanto persona portatrice di dignità inviolabile e autenticità inalienabile.

È altresì evidente il carattere squisitamente teologico dell’enciclica, soprattutto quando si comprende che l’autentico progresso dei popoli si erige sulla libera adesione all’opera della creazione e al suo artefice. Potente è il contenuto kerigmatico, seppure implicito, che si fonda sul primo grande insegnamento di Dottrina sociale presente nella Sacra Tradizione e Scrittura: «amerai il prossimo tuo come te stesso» (Lv 19,18; Gv 13,34).   

 La Populorum progressio affonda le radici nel solco dell’insegnamento sociale già contenuto nel messaggio evangelico, che desidera insegnare all’uomo di tutti i tempi come si può «abitare la terra e vivere con fede» (cfr. Sal 36,3). Il beato Paolo VI si è fatto portavoce di questa prospettiva, che vede nel cristianesimo il compimento dell’umano, affermando:

« È un umanesimo plenario che occorre promuovere. Che vuol dire ciò, se non lo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini? Un umanesimo chiuso, insensibile ai valori dello spirito e a Dio che ne è la fonte, potrebbe apparentemente avere maggiori possibilità di trionfare. Senza dubbio l’uomo può organizzare la terra senza Dio, ma “senza Dio egli non può alla fine che organizzarla contro l’uomo. L’umanesimo esclusivo è un umanesimo inumano”. Non v’è dunque umanesimo vero se non aperto verso l’Assoluto, nel riconoscimento d’una vocazione, che offre l’idea vera della vita umana. Lungi dall’essere la norma ultima dei valori, l’uomo non realizza se stesso che trascendendosi. Secondo l’espressione così giusta di Pascal: “L’uomo supera infinitamente l’uomo”» (n. 42).

L’idea di progresso contenuta nella Dottrina sociale della Chiesa, che la Populorum progressio di Paolo VI riprende ed esplicita, non è vista pertanto in alternativa allo sviluppo civile o scientifico di una nazione e di un popolo, bensì come compimento di esso, liberando così il progresso umano dalle ideologie e dalle utopie, per restituirlo alla verità del rapporto fra l’uomo e il suo Creatore.