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Post-umanesimo: due limiti ai nostri sogni

Maggio 2017
Sergio Parenti OP

Ci sono, a mio parere, due argomenti nei quali il post-umanesimo, o almeno la fantascienza, oltrepassano i limiti dell'impossibile. Il primo è la speranza di un viaggio nel tempo; il secondo è la speranza di poter trasferire il sé consapevole di un uomo in un supporto diverso dal suo sistema nervoso, in modo da poter affrontare i lunghissimi viaggi tra le stelle.

Partiamo dal viaggio nel tempo. Un'antica questione teologica era se Dio potesse fare che ciò che era stato non fosse stato; un esempio classico era se Dio potesse far sì che una donna che aveva perso la verginità potesse tornare vergine: non nel senso di una restaurazione fisica, ma nel senso che non fosse accaduto ciò che invece, accadendo, le aveva tolto la verginità. S. Agostino notava che questo vorrebbe dire che Dio può fare che il vero sia falso, il che è assurdo. Oggi, dopo il circolo di Vienna e la filosofia analitica, ci limiteremmo ad interrogarci sulla sensatezza della domanda: essa equivarrebbe a chiederci se Dio, essendo infinito, ha un naso lungo quanto il suo braccio, essendo essi come semirette, che sono tutte uguali indipendentemente dal punto di origine. Una domanda antropomorfa su Dio non ha senso, non è una domanda, ma un gioco di parole. Un'altra obiezione, di natura più filosofica, è che tali viaggi sembrano portare ad assurdità legate alla causalità. Il viaggiatore che andasse nel passato potrebbe modificare il futuro? Potrebbe far sì che ciò che già è avvenuto, compreso il suo viaggio, non fosse più avvenuto?

Possiamo però chiederci che razza di grandezza sia quella che chiamiamo tempo. Uno spostamento tra corpi possiamo raffigurarcelo come una linea. Lunghezza, altezza e profondità sono le grandezze classiche di un corpo. Per uno spostamento, potremmo aggiungere la misura della sua durata: nella raffigurazione cartesiana il tempo sarebbe una linea come le altre. Ma è proprio vero? Il tempo non sembra essere una grandezza come le altre. Un corpo ha le sue dimensioni: lunghezza, altezza, profondità, ha la sua massa, ha la sua temperatura... Ma la grandezza del tempo in che cosa consiste? Esiste il presente, non il passato o il futuro. Il presente è come un punto rispetto ad una linea: non ha grandezza. Possiamo dire che un corpo ha un'età perché misuriamo la durata di quanto gli è accaduto fra la sua generazione ed il presente, fra ciò che è stato e ciò che è. Sarebbe più esatto dire che è il tempo la misura di tutte quelle trasformazioni che ci hanno portato ad essere quello che stiamo essendo... senza poterci fermare mai. Tutto si trasforma, ed anche gli stati di apparente quiete sono collegati ad altre trasformazioni che faranno terminare tali stati. Tutti abbiamo sognato di poter fermare il tempo, o meglio il divenire, ad uno stato particolarmente felice, come una bella fotografia... ma sappiamo che non è possibile. Com'è possibile misurare la durata di una trasformazione? Per le altre grandezze posso prendere un campione di riferimento, l'unità di misura, e confrontare le due grandezze. Ma qui abbiamo solo il presente. L'unico modo che abbiamo è di trovare una trasformazione ciclica, che si ripeta con regolarità, e contare quanti cicli dura la trasformazione che vogliamo misurare. Diremo così che dura tanti giorni, tanti anni, tanti mesi ..., a seconda del ciclo scelto. Se non ci fossero trasformazioni, non ci sarebbe nemmeno la possibilità di misurare la loro durata: non ci sarebbe il tempo. Se poi non siamo in grado di misurare, come nel sonno, anche se la durata esiste noi non la valutiamo e non abbiamo la percezione del tempo. Nulla ci impedisce di raffigurarci la misura della durata di una trasformazione come una linea, uguale alle altre linee dove segniamo le misure di altre grandezze. Un genitore può segnare in un piano cartesiano la crescita del figlio, mettendo ad esempio in ascissa gli anni dell'età ed in ordinata l'altezza raggiunta. Invece dell'altezza, che normalmente cresce e poi si ferma, salvo malattie o vecchiaia, può mettere una grandezza che comunemente può anche decrescere, come il peso. Perché non immaginare che anche la durata possa decrescere? Perché le durate possono solo sommarsi: un incremento immaginato come “negativo” sarebbe comunque una durata ulteriore, che dunque va aggiunta e che non ha senso sottrarre, a differenza di altezza e peso che possono variare anche calando. Sperare di poter viaggiare nel tempo solo perché la raffigurazione che ne facciamo è uguale a quella di grandezze che possono crescere e decrescere è una ingenuità in cui forse nessuno è mai caduto.

Ma accadde qualcosa di nuovo. Si scoprì che la velocità della luce non si sommava a quella della sua sorgente. Era un limite che la realtà imponeva all'universo come lo immaginavamo. Potevamo aumentare la spinta data ad un corpo, ma l'accelerazione portava la sua velocità sempre più vicino a quel limite senza poterlo superare: come se lo spazio si contraesse ed il tempo si allungasse. A velocità inferiori a quelle della luce si è provato che due orologi, sincronizzati alla partenza di uno dei due, non erano più sincroni se uno aveva viaggiato a velocità molto elevate rispetto all'altro. Nasce il problema di definire la simultaneità e pare aver senso il pensare ad una contrazione del tempo, cioè ad un suo calare. Rispetto a quanto visto prima sono però cambiate due concezioni. La prima riguarda il tempo, che non è più la misura della durata di una trasformazione, ma una grandezza da misurare, una grandezza come le altre, e per di più una grandezza fondamentale. Di conseguenza cambia anche la concezione di “simultaneo”. Infatti, dire: “Nello stesso tempo” vuol dire, oggi, “quando coincidono le misure del tempo” a partire da un tempo preso come punto di partenza nel misurare, come quando facciamo scattare un cronometro (appunto: un “misuratore di tempo”). Non vuol dire “nello stesso presente”, il che non c'entra con le misure, così come un punto non ha lunghezza, anche se è su una linea. Questi cambiamenti di significato sono spontanei, dato il modo di raffigurarci le grandezze e di ragionarci sopra (i grafici cartesiani e l'algebra), ma non sono per niente ingenui e riescono a confonderci le idee. Analogo discorso vale per il viaggiare nel futuro, facendo esistere quello che, per definizione, non c'è ancora.

Parliamo ora del “sé” dell'uomo. Una visione dell'uomo come meccanismo, dalla complessità incredibile, sussiste fino ad oggi, contrapponendosi ai sostenitori del dualismo di res cogitans e res extensa. In questa visione lo stato di chi sta conoscendo non è altro che un particolare stato dei circuiti del cervello, così come l'immagine che appare sullo schermo del mio computer non è altro che un particolare stato dell'hardware, generato dal software: le trasformazioni dell'hardware dovrebbero essere analoghe a quelle avvengono nel mio sistema nervoso. Anche se queste ultime sono molto più complesse, si spera di riuscire un giorno a raggiungere una capacità simile a quella del nostro cervello ed il continuo, velocissimo progredire della tecnica ci fa ben sperare. Tutto ciò però assomiglia ad un atto di fede nella tecnologia piuttosto che ad una certezza scientifica. Anche i sostenitori del dualismo cartesiano non sembrano capaci di superare uno stato di intimo convincimento della verità della loro tesi.

Come cercare di riflettere seriamente? Un punto di partenza dovrebbe essere la definizione di “trasformazione”. Ma se cerco una definizione incontro delle difficoltà. Mi viene spiegata la distinzione tra trasformazione fisica e trasformazione chimica, mi vengono elencate diverse possibilità di trasformazione in vari campi disciplinari... ma non trovo chi mi spieghi che cosa significhi “trasformazione”. I filosofi se ne sono occupati. Qualcuno ha detto: “passaggio dallo stato A allo stato B”, ma la parola “passaggio” non è che un modo di offrire come esempio un cambiamento di stato, il passaggio da un luogo ad un altro; il che non è definire, ma esemplificare. Per evitare di fornire esempi o sinonimi (cambiamento, diventare, ecc.) invece di definire, altri hanno cercato di ricorrere ai concetti primitivi, ma piuttosto confusi, di essere e non essere. Visto che sono in riscaldamento quando non sono più freddo, ma nemmeno sono riscaldato del tutto, il che sarebbe lo stato cui termina la trasformazione e la trasformazione cessa di esistere, altri filosofi hanno definito la trasformazione come l'essere proprio di chi non è ancora, o altre definizioni simili, come: “l'essere del non essere”. Il soggetto proprio di una trasformazione sarebbe dunque la privazione di ciò che la trasformazione produce. Ma la privazione non può spiegare la trasformazione: l'essere ignorante non spiega il fatto che io ora sto acquistando una conoscenza. Si tratta di una condizione necessaria, sicuramente sempre presente, del soggetto in trasformazione, ma non è una spiegazione. E una definizione serve a spiegare ciò che definisce. Occorre introdurre la “capacità di”, la potenzialità, in senso sia attivo, sia passivo. Non tutti coloro che ignorano un argomento sono anche capaci di apprenderlo.

“Si deve considerare quindi che qualcosa è solo in atto, qualcosa invece solo in potenza, qualcosa invece si trova a mezza via tra la potenza pura e l'atto, cioè è in parte in potenza ed in parte in atto, come è evidente in una alterazione. Quando infatti dell'acqua è solo in potenza calda, non si trasforma ancora; quando invece è già scaldata, la trasformazione del riscaldamento è già finita; quando invece già partecipa qualcosa di calore, ma in modo incompiuto, allora si sta trasformando verso il calore. Infatti ciò che si scalda, partecipa gradatamente sempre più del calore. Quindi è proprio l'atto imperfetto del calore, che si trova in ciò che è riscaldabile, la trasformazione. Però non in quanto è solamente in atto, ma in quanto, pur essendo già in atto è ordinato ad un ulteriore atto. Perché, se si togliesse l'ordine all'atto ulteriore, quello stesso atto, per quanto incompiuto, sarebbe il termine della trasformazione e non la trasformazione, come accade quando qualcosa viene scaldata non fino in fondo. Ora, un ordine ad un atto ulteriore compete a ciò che si trova in potenza ad esso. Parimenti, se l'atto imperfetto viene considerato solo come in ordine ad un atto ulteriore, in quanto si tratta di una potenzialità, non è ancora definibile come una trasformazione, ma sarebbe un principio della trasformazione: perché una trasformazione può partire sia da ciò che è freddo, sia da ciò che è tiepido. Così, dunque, un atto imperfetto ha la definizione di trasformazione sia in quanto si rapporta ad un atto ulteriore come potenza, sia in quanto si rapporta a qualcosa di più incompiuto come atto. Quindi non è la potenza di chi è in potenza, né l'atto di chi è in atto, ma l'atto di chi è in potenza. Di modo che, in quanto lo si chiama “atto”, si designa il suo ordine ad una potenza anteriore, e per il fatto che lo si chiama “di chi è in potenza” si designa il suo ordine ad un atto ulteriore.” TOMMASO D'AQUINO, Commento alla Fisica di Aristotele, libro III, lectura 2, n. 3 (www.corpusthomisticum.org), traduzione mia.

La trasformazione è cioè l'attualità propria di chi è in potenza, in quanto è ancora in potenza. Dico questo perché l'atto proprio di chi è in potenza, in quanto è già in atto, non è altro che lo stato cui la trasformazione termina. Esemplificando la definizione, avremo che il riscaldamento è l'atto proprio di ciò che è riscaldabile, in quanto è ancora riscaldabile; lo spostamento è l'atto proprio di ciò che è spostabile, in quanto è ancora spostabile, ecc. L'uomo di scienza può arricciare il naso davanti a questo modo di cercare una definizione. Preferisce idee più chiare e distinte. Però dovrà onestamente ammettere che, alla fine, anche lui è costretto a partire da nozioni primitive date per scontate, che spesso si rivelano vere e proprie trappole. Forse gli antichi, per quanto meno evoluti di noi, possono insegnarci ancora qualcosa.

Proviamo ora a considerare il nostro conoscere. Parlo di conoscere, il che comprende anche il sentire, che implica sicuramente una trasformazione di quelli che chiamiamo organi di senso. Sentire è certamente conoscere, ma non è detto ancora che ogni conoscere sia un sentire. Proviamo a chiederci se il conoscere sia definibile come un insieme di trasformazioni fisico- chimiche o uno stato cui tali trasformazioni terminano. Questa è infatti l'opinione presupposta alla speranza di poter costruire un meccanismo capace di conoscere. Tutte le cose interagiscono tra loro, in modo attivo ed in modo passivo, agendo e subendo. La generazione di qualcosa di nuovo risulta sempre coincidere con la corruzione di altre cose. C'è sempre un prezzo da pagare per ottenere una cosa nuova. Però queste interazioni, che sono indubbiamente in qualche modo trasformazioni, non le chiamiamo “conoscenze”. E non sono conoscenze, anche se ci sono azioni e reazioni.

Possiamo costruire meccanismi, fondati su queste interazioni, che si comportano come si comporterebbe uno che conosce nello svolgere un determinato compito, ma è solo una finzione. La macchina dalle sembianze umane che suonava il pianoforte non vedeva i tasti e non sentiva la musica. Perché dico che non sono conoscenze? Perché vedere qualcosa è indubbiamente un agire, ma non è atto di qualcosa che è in potenza, né in quanto è ancora in potenza, né in quanto è finalmente in atto quando cessa l'agire della trasformazione. Chi vede sta agendo, ma questo agire trova il suo compimento proprio nell'agire. Inoltre il vedere non trasforma ciò che vede, piuttosto ne viene attuato. C'è, infatti, la trasformazione dell'organo della vista. Ma questa trasformazione non mi definisce il fatto conoscitivo, mi definisce solo una condizione particolare di quel particolare modo di conoscere.

Sono considerazioni come questa che hanno permesso ai teologi, non solo cristiani, di dire che Dio conosce, pur non ammettendo che Dio possa venire trasformato o comunque attuato da qualcosa che gli mancherebbe, come quando un organo della vista viene attuato dall'oggetto. Dicono che Dio “tutto vede” in senso metaforico, per dire che conosce tutto, così come dicono che è una roccia per il suo popolo, per dire che è una difesa invincibile. Queste considerazioni dovrebbero almeno far dubitare chi pensa che il conoscere sia riducibile ad una trasformazione di stati di circuiti, neuronali o di altra natura. La speranza di poter trasferire il “sé” dell'uomo, intelligenza consapevole del proprio conoscere, incontra però un'altra difficoltà. Infatti, per sostenere tale tesi, oltre al ridurre il conoscere ad una trasformazione fisico-chimica di un organo, occorre ridurre il nostro capire ad un sentire, cercando nel sistema nervoso, o almeno nel cervello, l'organo del capire. Nessuno dubita che, quando si capisce qualcosa, si possa osservare un'attività di trasformazioni nel cervello. Il nostro capire è legato all'osservazione, che si avvale dei sensi esterni e dei sensi interni. Ed i sensi richiedono le trasformazioni nei loro organi. Senza osservazione e senza memoria, senza elaborazione della fantasia e così via, noi non capiamo un bel niente. Anche per spiegare le cose più astratte è necessario fornire esempi sensibili. La nostra intelligenza è evidentemente fatta per conoscere le cose del nostro mondo, la loro natura, le loro proprietà: il mondo delle cose che esistono tra la loro generazione e la loro corruzione, in continua ed inarrestabile trasformazione: il mondo delle cose osservabili, sensibili.

Ora chiediamoci che cosa avvenga nella conoscenza mediante trasformazione di un organo. L'organo deve venire trasformato da quella caratteristica che rende conoscibile l'oggetto a quel particolare senso. Per esempio la luce deve impressionare fisicamente l'organo della vista con i colori dell'oggetto: è questa la trasformazione da cui inizia il processo visivo. Ma una trasformazione è atto di chi è in potenza e che quindi non è ancora ciò che diventerà: la privazione non spiega la trasformazione, non spiega nemmeno il conoscere che avviene mediante trasformazione di un organo, ma è condizione necessaria all'inizio del conoscere dei sensi. Se la privazione manca, allora il senso si trova con un organo attuato: sta vedendo qualcosa che impedisce di vedere altre cose, come quando restiamo abbagliati. Questo deve valere anche per l'ipotetico organo dell'intelletto umano. Dunque tale organo dovrebbe essere qualcosa che non è ancora, ma può diventare, una cosa del nostro mondo. Dovrebbe non essere ancora qualcosa di trasformabile, qualcosa di corporeo, qualcosa di sensibile. In altre parole non dovrebbe essere un organo... Non pretendo con questo di aver convinto qualcuno che l'attività dell'intelletto umano non è riducibile all'attività di una specie di senso. Spero solo di aver dato un po' di argomenti per riflettere, prima di prendere sul serio sogni che sono solo illusioni. Inoltre c'è la possibilità di intelligenze non umane. Gli antichi cristiani credevano che ci fossero statue che davano responsi veramente intelligenti. Turing avrebbe detto che allora erano vere intelligenze artificiali. Gli antichi cristiani dicevano invece che erano i demoni a far parlare le statue...