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Ennio De Giorgi. Uno dei più grandi matematici del Novecento alla ricerca della sapienza

Dicembre 2016
Antonio Marino
Univerità di Pisa - Dipartimento di Matematica

L'editoriale di Dicembre è una presentazione del testo "Ennio De Giorgi. Uno dei più grandi matematici del Novecento alla ricerca della sapienza" scritto da Antonio Marino e Francesca Marino, edito da editrice Apes e a cura dell'Istituto di Studi Politici “S. Pio V” - Roma.

Dialogare con il mondo di oggi: dalle numerose riflessioni che Ennio De Giorgi ci ha lasciato sulla scienza e sulla “sapienza” e da tutta la sua vita, emerge una forte proposta di dialogo con la cultura del nostro tempo. Oggi, a venti anni dalla morte di uno dei maggiori matematici del Novecento, al quale la comunità scientifica internazionale ha attribuito alcuni dei suoi massimi riconoscimenti, possiamo riscoprire ancora meglio il significato, la lungimiranza e la forza del suo pensiero.

La ricerca di De Giorgi è mossa dalle esigenze rigorose della ragione e da quelle profonde di uno spirito che si interroga. Su questo terreno si ritrovano insieme chi professa una fede religiosa e chi si dichiara non credente o “diversamente credente”. È il terreno della insopprimibile domanda di significato e della ricerca di valore nelle persone e nelle cose, e nello stesso tempo è il terreno della analisi critica e dell'appello alla ragione.

Il suo pensiero si svolge intorno agli interrogativi che riguardano l'esperienza della vita e a quelli che emergono dalla scienza: la solidarietà umana, la dignità della persona, il ruolo degli scienziati nella costruzione di una cultura di pace, il senso della scienza e della ricerca scientifica, il fascino del mistero che si incontra nella riflessione sulla scienza...

De Giorgi aveva un linguaggio semplice e diretto, tipico dello scienziato che cerca di fare chiarezza nei problemi complessi; le sue analisi acute e profonde a volte stupiscono per la semplicità dei termini in cui sono espresse. Era naturalmente capace di entrare in comunicazione con ogni persona che gli si rivolgeva, quale che fosse la sua cultura o il suo credo.

 Egli citava spesso la “sapienza” delle scritture, che prediligeva per la sua ricchezza di significati. È la sapienza che esige il dialogo e la condivisione del sapere. Ad essa tende ad adeguarsi il linguaggio della matematica:

            Un giusto rigore del linguaggio matematico non è espressione di un desiderio di isolarsi dalla maggior parte degli studiosi, ma nasce invece dalla volontà di condividere il proprio sapere con il maggior numero di persone, di comunicare certezze, dubbi, problemi con la massima chiarezza, con il minimo rischio di malintesi, ambiguità, equivoci. Possiamo dire che in questo la matematica condivide l’ideale “conviviale” della “Sapienza”, che ha animato i saggi dell’antichità, che ritroviamo nel termine “simposio” che abbiamo ereditato dai filosofi greci, nel termine “convivio” usato da Dante Alighieri, nella bella immagine usata dal più antico libro sapienziale della Bibbia, il Libro dei Proverbi, quando dice che la Sapienza ha costruito una casa su sette colonne, ha preparato in essa un grande banchetto e manda le sue ancelle per la città per diffondere gli inviti (Proverbi 9,1-6). Questa immagine mi piace molto e non mi stanco di ricordarla a me stesso e a tutti coloro che si occupano di insegnamento e di divulgazione scientifica; penso che avremo tutti il massimo successo se sapremo sempre presentarci non come sapienti ma come amici e servi della Sapienza. 

[La matematica tra sogno e realtà, selezione per la XXXVI Olimpiade di Matematica, Cesenatico, 1995]

Questo invito incoraggia tutti a partecipare a quella festa dell'intelletto e dello spirito che si realizza quando alcune persone uniscono le loro intelligenze e le loro volontà, dialogando con il sincero desiderio di progredire insieme.

De Giorgi rifletteva spesso sull'utilità del metodo matematico, fondato su assiomi, ipotesi e verifiche, per la costruzione di un linguaggio che permetta di comunicare anche in altri ambiti del pensiero umano in maniera chiara ed efficace:

È un metodo che apparentemente sembra abbastanza debole, di fatto si è rivelato di una forza straordinaria, ha permesso la costruzione di teorie grandiose sulla base di pochi e semplici postulati. Non so quanto il metodo assiomatico sia applicabile con i necessari adattamenti fuori della matematica. Certamente in molte discussioni si potrebbe raggiungere una maggiore serenità se ogni parte cercasse di formulare con la massima concisione e chiarezza le proprie affermazioni e di valutare ogni affermazione altrui indipendentemente dall'opinione, positiva o negativa, che può avere sul suo autore. [Matematica e sapienza, conferenza tenuta presso l'Accademia pontificia delle Scienze il 3 ottobre 1991]

Questa ricerca di un linguaggio comune ha condotto De Giorgi a promuovere la conoscenza della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 10 dicembre 1948, che apprezzava allo stesso tempo per la semplicità e per la ricchezza delle idee, e della quale suggeriva una lettura attenta anche al confronto con la realtà attuale. Egli sottolineava l'importanza, in vista di un progresso autentico, di “non illudersi che una pace durevole possa essere raggiunta senza il rispetto di tutti i diritti umani”.

Certo, tutti i suoi scritti sono intrinsecamente permeati della sua fede cristiana, anche se in maniera implicita. Per una sorta di riservatezza egli ne parlava solo quando si presentava l'esigenza di una chiara testimonianza. Questa sua prospettiva, ben nota nel mondo scientifico, ha sempre incontrato un grande rispetto e talvolta suscitato un forte interesse. La sua era una fede serena e intensa, meditata e approfondita continuamente, vissuta con coerenza nell'insegnamento, nel generoso e amichevole rapporto con tutti gli interlocutori, nella stessa ricerca scientifica.

Particolarmente sorprendenti sono le sue osservazioni sul ruolo del mistero nella scienza e nella religione e sul concetto di fede, ad esso legato in molti sensi. Così ci fa riscoprire il valore concreto del detto latino credo ut intelligam, “credo per capire”:

Per cominciare a capire bisogna avere fede: senza fede nell’ordine dell’universo non si può fare della fisica; senza fede nella libertà e nelle potenzialità dell’uomo non si può fare etica; senza fede nella possibilità di miglioramento della società non progredisce l’organizzazione politica, economica, sociale e culturale; senza fede nella capacità e sensibilità degli allievi non è possibile un buon insegnamento. [La matematica e la sapienza, Casarano, 1994]

È un grande scienziato colui che riflette su questo concetto, secondo una prospettiva evidentemente lontanissima da molti discorsi, purtroppo tanto superficiali quanto diffusi.

 L'avventura scientifica e umana di De Giorgi ha unito il desiderio di conoscenza e l'amicizia aperta ad ogni persona e ogni popolazione, il progresso del pensiero guidato dalla ragione e dallo spirito e la riflessione sull'incontro meraviglioso della scienza con il mistero.

È un incontro rigorosamente scientifico quello che De Giorgi ci mostra. Nei due brani che riportiamo qui di seguito troviamo espressioni chiare e sorprendenti:

Ogni volta che si tenta un inquadramento dall'interno della matematica ci si trova di fronte a difficoltà invincibili e, in sostanza, si incontra una certa forma di mistero. Operando come matematico sono portato ad ammettere che non solo le cose che esistono sono, come è ovvio, più di quelle che conosco, ma che per poter parlare delle cose conosciute sono costretto a fare riferimento a cose sconosciute e umanamente inconoscibili. Non riesco mai a delimitare due zone: una di perfetta chiarezza e una di totale oscurità. È sempre incerto il confine fra le cose conosciute o conoscibili e le cose sconosciute e inconoscibili. [Matematica e Religione, articolo di De Giorgi su l'Osservatore Romano'' del 18 novembre 1978].

Questa difficoltà non nasce da radici irrazionali, ma dal cuore stesso della più razionale delle scienze. Riflettendo su questi aspetti della matematica, mi capita spesso di pensare alle pagine in cui Pascal parla della grandezza e della miseria dell'uomo e credo che in esse vi sia anche il riflesso della sua esperienza di grande matematico. Si può aggiungere che la constatazione della forza e della debolezza della ragione umana ci aiutano a sentire la matematica come parte viva della tradizione sapienziale, erede della più antica sapienza ebraica e greca in cui tutti possiamo riconoscere le radici della nostra cultura. Se, per esempio, consideriamo le figure emblematiche di Socrate e Salomone, troviamo che l'uno e l'altro invitano al riconoscimento della nostra ignoranza, delle difficoltà che incontriamo nell'apprendere e nel comunicare ciò che abbiamo appreso. Essi inoltre ci insegnano che la sapienza è un bene comune a tutti gli uomini, che tutti sono chiamati, nei limiti delle loro possibilità, a ricercarla, amarla, comunicarla agli altri, come una ricchezza che non diminuisce ma aumenta quando viene condivisa. [Matematica e Sapienza, cit.]

Le considerazioni di De Giorgi sono affascinanti e nello stesso tempo scientificamente coerenti.

Ogni volta che abbiamo potuto riproporne alcune,  diverse persone, credenti e “non credenti”, hanno voluto manifestare il loro gradimento, quasi che si fossero sentite invitate a un “convivio” nel quale si sono trovate a loro agio.

In quelle occasioni crediamo di avere colto in tanti interlocutori un senso di attesa: l'attesa di un invito a percorrere insieme, guidati da una comune tensione spirituale, qualche tratto di strada nella difficile ricerca del bene e del vero, mediante un dialogo che non risulti estraneo a quanti hanno una cultura e un linguaggio che essi stessi definiscono con i termini “laico” e “razionale”. 

In una cultura europea e in genere “occidentale” nella quale la dimensione spirituale e di fede ha poca evidenza, ma è possibile scorgerne un’attesa spesso inespressa, la prospettiva di De Giorgi incontra e incoraggia il bisogno di capire e la tensione verso il vero e il bello di ogni persona.

         

Antonio Marino e Francesca Marino                  

Dicembre 2016
Flavia Grossi
Centro DISF, giornalista

Sul finire dell’anno, mentre le giornate si ripiegano su se stesse, un pensiero silente alberga nell’animo degli uomini e, sotteso all’Avvento, si fa sempre più presente il mistero del Verbo eterno che si fa voce nel silenzio della culla. L’arcano che soggiace al tempo di Natale interpella e coinvolge gli uomini che, in questo suo giungere, sono accompagnati dagli eventi naturali che sembrano quasi piegarsi al racconto del mistero dell’incarnazione. Anche la liturgia con la sua simbologia e ritualità, parla di una cosmologia che a sua volta sembra farsi voce del racconto divino assumendo quasi il ruolo di ponte, di legame, tra il mondo spirituale e quello materiale.

Nei giorni dell’Avvento, ad esempio, sono diversi i riferimenti a quel «sole che sorge» (Lc 1,78) che, proprio in questo periodo, si fa carne tra le tenebre nel tempo. Sono questi infatti i giorni in cui la luce del giorno sembra soccombere al buio della notte nello stringersi di giornate sempre più corte e fredde e, proprio quando il giorno sembra destinato ad essere sempre più breve, cade il solstizio d’inverno e la luce ritorna a vincere sull’oscurità. L’alternanza tra giorno e notte, la lotta tra luce e tenebre, sono quindi lo sfondo naturale in cui si vive l’attesa della ripresentazione del mistero e la vittoria del sole sulla notte preannuncia ciò che sta per avvenire. Nel Vangelo di Giovanni troviamo un riferimento preciso che possiamo ricondurre in chiave simbolica alla successione tra luce e tenebre e che anticipa quanto si vive nel tempo di Natale. Nel racconto su San Giovanni Battista, il precursore del Verbo Incarnato riferendosi a Cristo dichiara: «Bisogna che egli cresca e che io diminuisca» (Gv 3,30). Come raccontano le scritture Giovanni viene al mondo sei mesi prima di Cristo, quindi Giovanni nasce quando i giorni cominciano ad accorciarsi, mentre Cristo nasce quando le giornate tornano ad allungarsi. In questo mirabile parallelismo tutto assume una valenza profonda e mistica: Giovanni, precursore di Cristo, si leva con il solstizio d’estate e, Cristo, nuovo Sole, che è la luce del mondo (Gv 8,12), sorge quando le tenebre sembrano vincere.

Anche la liturgia e il racconto della nascita di Cristo ci parlano di tutto questo, persino i canti che la liturgia propone in questo periodo rimandano ai segni naturali come cornice del cantico spirituale della nascita del Verbo. Nel Rorate Coeli è ben espresso il rapporto intrinseco nella liturgia quale celebrazione pubblica del culto e la sua dimensione cosmica: «Stillate, cieli, dall'alto e le nubi facciano piovere la giustizia; si apra la terra e produca la salvezza e germogli insieme la giustizia», dal cielo giunge la giustizia per incarnarsi nel seno della terra e far nascere la vita nuova. Anche nel polisalmo Laetentur Coeli et exultet terra (Gioiscano i cieli ed esulti la terra, tripudiate di gioia o monti. Prorompano in giocondità i monti e i colli in giustizia…) si narra la lode del creato al Creatore che si fa carne, natura esso stesso. Nell’Antifona Maggiore del Magnificat del 21 dicembre invece, torna un riferimento importante alla luce ed al sole «O Oriens, splendor lucis aeternae, et sol iustitiae…» (O astro che sorgi, splendore della luce eterna, e sole di giustizia: vieni ed illumina coloro che giacciono nelle tenebre e nell’ombra di morte). Quel divino Oriente che si celebra nella liturgia assume ulteriori significati che avvicinano la preghiera al mondo naturale. Simbolicamente gli altari delle chiese sono rivolti proprio ad Oriente e pregando ci rivolgiamo in direzione di quel Sole che sorge che «come la folgore viene da oriente e brilla fino a occidente» (Mt 24, 27). Dirigendosi verso Oriente la liturgia sembra accompagnare l’uomo nella via che porta verso il mistero che ci apprestiamo a celebrare, verso il Verbo, quel Logos incarnato nella storia e nel cosmo. Diretti verso quello che sempre più ci appare nella veste di Pantocratore possiamo provare a sollevare il velo del mistero dell’incarnazione e della creazione uniti proprio in quel Logos sceso tra noi e fattosi carne.

Di questo ci parla anche il prologo del Vangelo di Giovanni riferendosi al Verbo (Logos) come colui che «era in principio» (Gv 1,1) affermandone chiaramente il ruolo svolto nella creazione del mondo «Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui nulla è stato fatto di tutto ciò che esiste. […] il mondo fu fatto per mezzo di lui». (vv. 3 e10). Il Creatore del mondo viene a sua volta incontro a noi e si fa scoprire tramite il mistero dell’incarnazione: esiste, si fa conoscere, ci parla ed «è centro del cosmo e della storia» [Redemptor Hominis, 1]. Afferma anche Agostino di Ippona: "Esultiamo, o Fratelli perché questo giorno è sacro non già per il sole visibile, ma per la nascita dell'invisibile creatore del sole. Il Figlio di Dio ha scelto questo giorno per nascere, come si è scelta una Madre, lui che è il creatore del giorno e della Madre insieme. Questo giorno, infatti, nel quale la luce ricomincia ad aumentare, era adatto a significare l'opera di Cristo che, con la sua grazia, rinnova continuamente il nostro uomo interiore. Avendo l'eterno Creatore risolto di nascere nel tempo, bisognava che il giorno della sua nascita fosse in armonia con la creazione temporale» (Discorso in Natale Domini, iii).

Così è anche un astro del cielo, “la stella”, a far da guida nel racconto evangelico a coloro che indagano questo mistero. Un segno astronomico conduce i Magi alla stalla e la stella che brilla su Betlemme indica al mondo dove il Verbo sta per farsi voce terrena. Una luce nuova brilla nel mondo, un nuovo sole risplende accompagnato dal risorgere della luce nelle giornate, dalla stella di Betlemme e, volgendo lo sguardo al suolo verso la mangiatoia possiamo ricordarci che dalla terra è germinato il Salvatore.

Questo è dunque un momento dell’anno davvero privilegiato per poter riflettere con intelligenza sulla fede. Cielo e terra si uniscono nell'incarnazione così come ragione e fede insieme si innalzano nell’indagare i fatti naturali e nel ravvedere nel cosmo i segni che la fede rende espliciti nella storia. Infatti, come scriveva Giovanni Paolo II nella Fides et Ratio n° 13: «La conoscenza di fede non annulla il mistero; solo lo rende più evidente e lo manifesta come fatto essenziale per la vita dell’uomo».