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Il Papa e il Big Bang. Il caso Pio XII - Lemaître (1951-1952) a proposito del rapporto fra cosmologia e creazione

Maggio 2016
Giuseppe Tanzella-Nitti
Direttore della Scuola SISRI

Uno dei temi che sta attirando l’attenzione del pubblico in occasione del 50° della morte di Georges Lemaître (1894-1966), sacerdote e cosmologo belga, riguarda il suo rapporto con Pio XII a proposito di un supposto legame fra ipotesi dell’espansione dell’Universo (Big Bang) – di cui Lemaître fu uno dei primi teorici – e la possibilità di produrre prove “scientifiche” circa l’esistenza di Dio. Secondo una versione dei fatti oggi ampiamente diffusa, che anche un apprezzato divulgatore scientifico sembra condividere (almeno a giudicare dal commento offerto su un popolare video in rete), Pio XII avrebbe sostenuto in un discorso tenuto alla Pontificia Accademia delle Scienze nel novembre del 1951 che le recenti scoperte astronomiche confermavano la pagina iniziale del libro della Genesi, quando quest’ultimo descrive la creazione dell’universo come un Fiat lux. La scienza, in sostanza, secondo il giudizio del Pontefice, stava in quegli anni fornendo una prova dell’esistenza di Dio. In un incontro personale espressamente richiesto poco tempo dopo, Lemaître avrebbe corretto il Pontefice sul suo errore, dicendogli che sbagliava nel fare commenti “concordisti” fra scienza e sacra Scrittura.

Così descritto, l’episodio ben si inserisce nella vivace personalità di mons. Lemaître, perché il cosmologo belga aveva già in una precedente occasione “corretto” anche Albert Einstein, facendogli notare che le equazioni di campo della Relatività generale, che descrivevano l’universo nel suo insieme e che il fisico tedesco riteneva dovessero essere applicate solo ad un universo statico, in realtà descrivevano meglio un universo in espansione. Einstein inizialmente non accettò il punto di vista di Lemaître ed introdusse ad hoc un parametro nelle equazioni (il termine λ) proprio per “bilanciare” tale espansione, dovendosi poi ricredere e confessare di aver fatto in quell’occasione il più grande errore della sua vita. Chi è questo spigliato monsignore-cosmologo in grado di correggere in un colpo solo, a distanza di pochi anni, il padre della Relatività e un Pontefice della Chiesa Cattolica? Ma, ci chiediamo anche, in merito al rapporto fra Lemaître e Pio XII, le cose andarono proprio come si raccontano ed abbiamo qui sommariamente ricordato, oppure vi sono delle letture più profonde che non vanno trascurate?

L’idea che ad un Papa si raccomandi di tener ben distinte la scienza dalla fede, la natura dell’universo fisico dalla possibilità che questo abbia un Creatore, incontra oggi il favore di buona parte dell’opinione pubblica: scienza e fede, in sostanza, per andare d’accordo dovrebbero occuparsi di cose assolutamente diverse. Questa posizione, assai diffusa, viene anche descritta con una sigla ad effetto, introdotta dal compianto biologo evoluzionista Steven J. Gould: NOMA, Non Overlapping Magisteria. La scienza e la teologia cristiana sarebbero due insegnamenti del tutto inconciliabili, senza alcuna possibilità di sovrapposizione. Ricordare ad un Pontefice di non fare confusione fra i due sarebbe dunque stata una raccomandazione quanto mai opportuna. Proveremo allora a ricostruire brevemente i fatti, riproponendoci poi di ritornare in chiusura sulla tesi di Gould, chiedendoci se sia realmente soddisfacente o se, invece, presenti qualche punto debole.

Il 22 novembre 1951 Pio XII riceve i membri della Pontificia Accademia delle scienze, rifondata nel 1936 da Pio XI dopo che i fatti relativi all’unità d’Italia ne avevano fatto confluire la tradizione entro l’Accademia dei Lincei. L’occasione dell’incontro degli Accademici pontifici è data da una settimana di studi dedicata alla sismologia, in particolare sulla rilevazione dei microsismi, che si era tenuta nella sede dell’Accademia, presso i Giardini Vaticani. In quel momento era presidente della Pontificia Accademia Padre Agostino Gemelli. Georges Lemaître era anch’egli accademico, ma non fu presente a quella riunione a motivo di altri impegni scientifici (diventerà poi Presidente dell’Accademia alla morte di Padre Gemelli, dal 1960 al 1966). Il testo in lingua italiana del discorso è consultabile sulla raccolta curata da mons. Sánchez Sorondo, attuale Cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze, (I papi e la scienza nell’epoca contemporanea, LEV- Jaca Book, Milano 2009, pp. 118-129), ed è disponibile on line in una pagina di questo portale. Il discorso del Papa, che vale la pena ricordarlo, è in questo contesto un atto di Magistero di valore circostanziale, come accade in situazioni analoghe, ha come linea principale un commento alle prove filosofiche dell’esistenza di Dio, così come riassunte nelle celebri “cinque vie” di Tommaso d’Aquino. L’aggettivo “filosofico” e non “scientifico” è qui, come si vedrà, piuttosto importante. I riferimenti alla scienza offerti dal Pontefice hanno in questo discorso un valore euristico e divulgativo. Da cultore e ammiratore delle ricerche scientifiche quale era, Pio XII si attarda nella descrizione dei recenti risultati nel campo della fisica, della biologia, della chimica e della cosmologia. È probabile che ad ispirare il discorso sia stato il libro di uno degli accademici, Edmund Whittaker (1873-1956), Space and Spirit. Theories of the Universe and Arguments for the Existence of God (1946), un fisico-matematico inglese già avanti negli anni, interessato ai rapporti fra scienza e fede.

Nella sua Allocuzione, Pio XII si propone di esaminare se la moderna comprensione scientifica del cosmo sia oggi chiamata a correggere o perfezionare alcune delle vie tomiste, nei loro aspetti che intercettano l’ordine fisico, soffermandosi soprattutto sulla via della contingenza (3a via) e su quella della finalità (5a via). Il testo, come si può facilmente verificare, mette a fuoco l’idea che ci troviamo in un cosmo in continua trasformazione ed il cui ordine pare indicare, a livello filosofico, l’esistenza di un finalismo. Contingenza e finalismo, sostiene Pio XII, sono due concetti che la scienza non nega e che possono essere pertanto impiegati in argomentazioni filosofiche che risultino significative anche per gli scienziati. Vi sono nel testo riferimenti al Big Bang, alla creazione del cosmo e al libro della Genesi? I riferimenti ci sono, ma vale la pena di leggerli attentamente.

Siamo nel 1951, vale la pena ricordarlo: al momento si possedevano solo i dati relativi alla legge distanza-velocità per l’espansione delle galassie e non ancora le misure della radiazione cosmica di fondo, ottenute per la prima volta nel 1964. Interrogandosi circa la natura della materia originaria dalla quale ebbero inizio tutte le cose, afferma Pio XII: «Invano si attenderebbe una risposta dalla scienza naturale, la quale anzi dichiara lealmente di trovarsi dinanzi ad un enigma insolubile. È ben vero che si esigerebbe troppo dalla scienza naturale come tale; ma è anche certo che più profondamente penetra nel problema lo spirito umano versato nella meditazione filosofica». Il problema dell’origine radicale dell’universo, dunque, è un problema filosofico, non scientifico. Il discorso procede adesso con un passo che ci interessa da vicino. Il Papa sostiene che un soggetto personale, una mente arricchita oggi dalle conoscenze scientifiche, giudicherebbe compatibile, con la presente visione del cosmo, l’idea di una creazione dell’universo dal nulla, da parte di un Dio Creatore. Soggetto di questo riconoscimento – vale la pena sottolinearlo – non sono la scienza o il metodo scientifico, ma l’uomo arricchito dalle conoscenze scientifiche, insieme alla sua riflessione filosofica ed esistenziale. Ecco le parole di Pio XII: «Una mente illuminata ed arricchita dalle moderne conoscenze scientifiche, la quale valuti serenamente questo problema, è portata a rompere il cerchio di una materia del tutto indipendente e autoctona, o perché increata, o perché creatasi da sé, e a risalire ad uno Spirito creatore. Col medesimo sguardo limpido e critico, con cui esamina e giudica i fatti, vi intravede e riconosce l’opera della onnipotenza creatrice, la cui virtù, agitata dal potente “fiat” pronunziato miliardi di anni fa dallo Spirito creatore, si dispiegò nell’universo, chiamando all’esistenza con un gesto d’amore generoso la materia esuberante di energia. Pare davvero che la scienza odierna, risalendo d’un tratto milioni di secoli, sia riuscita a farsi testimone di quel primordiale “Fiat lux”, allorché dal nulla proruppe con la materia un mare di luce e di radiazioni, mentre le particelle degli elementi chimici si scissero e si riunirono in milioni di galassie». Il linguaggio è retorico ed esalta la capacità della scienza di andare a ritroso del tempo fino ad essere “testimone” ideale di un “fiat lux”. Non crediamo francamente si stia parlando, come invece si ritiene un po’ frettolosamente, di alcuna “dimostrazione scientifica dell’esistenza di Dio”. Si parla, questo è vero, di consonanza, ovvero del fatto che ciò che la scienza scopre non pare negare quanto la fede afferma.

Terminata l’esposizione scientifico-divulgativa e filosofica, già ormai nella sua fase di chiusura, il discorso di Pio XII introduce tre citazioni letterali tratte da opere divulgative di tre scienziati. Qui il tema si fa, per così dire, più intrigante. Dei tre scienziati Ludwig Plate, Svante Arrehnius ed Edmund Whittaker, solo l’ultimo era accademico, come abbiamo visto. Le prime due citazioni, quelle di Plate e di Arrehnius, affermano che la scienza nega la plausibilità dell’idea teologica di una creazione dal nulla. Pio XII non giudica tali affermazioni (potremmo dire oggi che si giudicano da se stesse), ma le riporta per ragioni retoriche, allo scopo di introdurre la terza citazione, quella di Whittaker, tratta da una sua meditazione filosofica sul cosmo intitolata Space and Spirit (1946), che recita così: «Questi differenti calcoli convergono nella conclusione che vi fu un’epoca, circa 109 o 1010 anni fa, prima della quale il cosmo, se esisteva, esisteva in una forma totalmente diversa da qualsiasi cosa a noi nota: così che essa rappresenta l’ultimo limite della scienza. Noi possiamo forse senza improprietà riferirci ad essa come alla creazione. Essa fornisce un concordante sfondo alla veduta del mondo, che è suggerita dalla evidenza geologica, che ogni organismo esistente sulla terra ha avuto un principio nel tempo». Il testo è suggestivo, ma epistemologicamente debole, come quello dei suoi colleghi precedenti, per ragioni diametralmente opposte. Se la scienza non è competente per giudicare la verità dell’idea filosofico-teologica di creazione dal nulla (la scienza lavora per definizione sul ciò che fisicamente misurabile e non sul nulla metafisico), non lo è nemmeno per stabilire l’origine assoluta del tempo. Questo è un errore filosofico, oltre che fisico. La teologia e la Genesi qui non c’entrano. Una buona fisica sa che dall’interno del tempo non è possibile stabilire l’origine del tempo, perché si andrebbe incontro a problemi di incompletezza logica. La citazione di Edmund Whittaker, uno scienziato e non un teologo né un pontefice, è certamente il punto debole del discorso pronunciato da Pio XII, non perché sia direttamente “concordista”, ma perché poteva (e potrebbe oggi) essere interpretata tale.

È a questo punto che entra qui in gioco il sacerdote-cosmologo Georges Lemaître. Sappiamo che egli chiese ed ottenne un incontro con Pio XII, in previsione di un nuovo discorso che il Pontefice avrebbe tenuto a Roma, nel settembre del 1952, in occasione di un’Assemblea dell’International Astronomical Union (IAU), della quale Lemaître era membro. In questa circostanza la tematica cosmologica sarebbe stata ancor più attuale che non nella settimana di studi della Pontificia Accademia delle Scienze dedicata ai microsismi. Come segnala Dominique Lambert nella voce Lemaître del “Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede”, curato dallo scrivente, dell’incontro – possibile grazie all'intervento di P. Daniel O'Connell, della Specola Vaticana, e di mons. Angelo Dell'Acqua, che lavorava presso la Segreteria di Stato – non possediamo a tutt'oggi alcuna prova scritta esplicita, e dunque non sappiamo di cosa i due abbiano parlato. È logico pensare che lo scienziato e accademico belga volesse curare da vicino l’intervento del santo Padre all’Assemblea dell’IAU ed è anche logico che gli abbia offerto dei suggerimenti. Vi furono critiche alle citazioni dei colleghi Whittaker, Plate e Arrehnius? Vi furono critiche al Pontefice stesso? Ognuno può pensare ciò che desidera, non essendoci prove storiche sui contenuti del colloquio e potendo noi solo fare ragionevoli previsioni. Ciò che appartiene alla storia è invece il testo del discorso tenuto a Castel Gandolfo il 7 settembre 1952 davanti ai membri dell'Unione Astronomica Internazionale. Se si esamina questa Allocuzione, assai più breve della precedente, non compaiono citazioni testuali di uomini di scienza, come invece abituale in queste occasioni. Del nuovo discorso di Pio XII chiunque può cogliere bene l’idea di fondo: la scienza progredisce a grandi passi, ma essa non sarà mai in grado di rispondere alla domanda finale, quella circa l’origine di tutte le cose. Ecco un passo del Papa che riassume il senso del suo intervento: «Il cammino intrapreso dallo spirito dell’uomo, che finora torna a suo incontrastato onore, sarà poi indefinitamente ad esso aperto ed incessantemente percorso fino a svelare l’ultimo degli enigmi che l’universo ha in serbo? O, al contrario, il mistero della natura è tanto ampio e ascoso, che lo spirito umano, per intrinseca limitatezza e sproporzione, non riuscirà mai a scandagliarlo interamente? La risposta delle menti robuste, che più profondamente sono penetrate nei segreti del cosmo, è ben modesta e riservata. Siamo, essi pensano, all’inizio; molto cammino resta a fare e sarà fatto indefessamente; tuttavia non vi è alcuna probabilità che anche il più geniale indagatore potrà mai arrivare a conoscere, e anche meno a risolvere, tutti gli enigmi racchiusi nell’universo fisico».

Quali conclusioni possiamo trarre da questa ricostruzione dei fatti? È plausibile che Georges Lemaître abbia parlato con Pio XII del discorso del novembre 1951 e che abbia offerto al Pontefice alcune precisazioni. Consistettero queste precisazioni in una vera e propria critica a Pio XII, in un rimprovero per errori da lui fatti nella precedente Allocuzione? E quali sarebbero, in sostanza, questi errori? A ben vedere, sembra che i chiarimenti di Lemaître, paradossalmente, dovessero essere orientati più ad evitare sconfinamenti della scienza nella teologia – come poteva risultare dalle citazioni di Whittaker, Arrhenius e Plate – che non, come invece si sostiene comunemente, ad evitare ingerenze della teologia o dei Papi nella scienza. Al di là dell’episodio accaduto e delle sue possibili letture, resta, a nostro avviso, la necessità di creare le condizioni perché non solo gli uomini di scienza sappiano parlare con maggiore proprietà di linguaggio di temi filosofici, ma anche i teologi sappiano parlare con maggiore competenza dei temi scientifici. È l’auspicio che Giovanni Paolo II rivolgeva all’allora direttore del Vatican Observatory, George Coyne, in una lettera inviatagli il 1° giugno 1988. «Ciò comporterebbe –  scriveva Giovanni Paolo II – che almeno alcuni teologi fossero sufficientemente competenti nelle scienze per poter fare un uso genuino e creativo delle risorse offerte loro dalle teorie meglio affermate. Una tale conoscenza li difenderebbe dalla tentazione di fare, a scopo apologetico, un uso poco critico ed affrettato delle nuove teorie cosmologiche come quella del “Big Bang”. Così pure li tratterrebbe dal non prendere affatto in considerazione il contributo che tali teorie possono dare all’approfondimento della conoscenza nei campi tradizionali della ricerca teologica». Ambedue le implicazioni sono importanti ed ambedue i poli del dialogo sono necessari.

Un’ultima riflessione riguarda il giudizio, oggi comune, di dover necessariamente sostenere una netta separazione fra risultati scientifici e visione religiosa del mondo, come richiesto dalla rigorosa applicazione del principio NOMA prima ricordato. Non vi è dubbio che, dal punto di vista del metodo e delle argomentazioni da svolgere, una cosa sono le scienze naturali, un’altra la filosofia ed un’altra ancora la teologia. Tuttavia, proprio la ricerca scientifica, già a partire dal XX secolo – in vista di un ampliamento del suo orizzonte e oggetto di indagine – sta modificando in parte il suo stesso metodo, per essere messa in grado di affrontare rigorosamente questioni che fino a poco prima si ritenevano puramente filosofiche e propriamente logico-metafisiche. Basti pensare alle problematiche insorte a partire dalla “crisi del riduzionismo”, alla “complessità” in campo fisico e biologico, e alla “teoria dei fondamenti” delle scienze logico-matematiche. Non dimentichiamo, poi, che l’essere umano è uno e indivisibile, e chi studia l’universo può lecitamente credere che questo sia creato da Dio, senza contravvenire ad alcuna prescrizione del metodo scientifico. La frase spesso ascoltata (e ripetuta), “la scienza deve essere atea”, è per lo meno impropria. Atei possono esserlo solo gli esseri umani, non un metodo. Se uno scienziato, osservando la bellezza dell’universo, il suo ordine, le sue trasformazioni e la sua contingenza, volesse dedurne l’esistenza di un Creatore, deve poterlo fare e poterlo sostenere anche parlando ai suoi colleghi, perché è un essere umano e non un computer che opera solo e sempre mediante algoritmi applicati a grandezze misurabili. Deve essere libero di lasciare che il suo sguardo religioso sul mondo influisca sul suo modo di fare scienza, sulle motivazioni che lo sostengono, sulla passione che lo anima. La storia della scienza ci insegna che queste reciproche influenze ci sono state e sono state molto feconde.