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Il ruolo delle cellule staminali nella pratica clinica del futuro

Giugno 2015
Elisa Cecconi
Dottore in filosofia morale

In Italia il dibattito scientifico sulle cellule staminali embrionali è particolarmente acuto. Effettuando un’estrema semplificazione, possiamo individuare due posizioni: la prima vede autorevoli scienziati che, sottolineando la grande possibilità terapeutica che tali cellule potrebbero avere, reputano corretto l’impiego di embrioni umani anche a costo di comprometterne l’esistenza; la seconda, invece, comprende quegli scienziati che, prima di imbattersi in discussioni di qualsivoglia natura sull’identità dell’embrione umano, tendono a sottolineare i mai superati limiti delle staminali embrionali sul terreno applicativo. Limiti che invece non hanno le cellule staminali adulte, già efficaci in svariate decine di protocolli terapeutici, buona parte dei quali portati avanti proprio in Italia.

Le cellule staminali esistono e funzionano fisiologicamente nei nostri tessuti. La medicina rigenerativa guarda con attenzione alle competenze di tali cellule con l’intento di implementarne le capacità a scopi terapeutici. È infatti la loro elevata capacità proliferativa (di grado diverso a seconda della staminale in questione) e la loro propensione a differenziarsi, dando origine a tipi cellulari specializzati e a nuovi tessuti, a fornire “il principio attivo” della terapia rigenerativa. Le staminali sono un tipo di cellule davvero straordinario, perché sanno fare due cose: riprodursi e specializzarsi. La capacità di riprodursi è tipica di ogni cellula, ma le staminali hanno la proprietà di auto-rigenerarsi e, dunque, di attraversare indenni un numero di cicli cellulari superiore a quello di altre cellule (la cellula staminale si divide e produce copie di se stessa per un tempo indefinito). La capacità, invece, di trasformarsi per svolgere un lavoro specializzato è tipica solo delle staminali. Tutte le altre cellule del corpo di un organismo sono ben differenziate e svolgono una funzione specifica: ci sono le cellule della pelle, quelle del cuore, quelle del sistema nervoso.

Nell’organismo umano esistono circa 250 tipi di cellule differenziate diverse. Un citologo le riconosce facilmente, spesso a vista, perché ciascun tipo ha la sua forma e la sua funzione. Le cellule staminali no. Non hanno una funzione. Se ne stanno lì, indifferenziate, ma pronte a trasformarsi – dopo un preciso segnale biochimico – in una cellula della pelle, in un neurone, in una cellula cardiaca o in qualsiasi altro tipo di cellula differenziata. È questa alta prolificità e questa capacità trasformistica a renderle uniche; ed è per queste capacità che i ricercatori guardano, da anni, alle cellule staminali come a un potenziale strumento per sostituire cellule e ricreare tessuti malati o danneggiati. Non tutte le cellule staminali sono uguali. In base alle loro potenzialità esse vengono classificate in: cellule staminali uni potenti capaci di trasformarsi in un solo tipo di cellula differenziata, ovvero possono dare luogo solo ad uno specifico tessuto; multi potenti sono cellule staminali adulte e tessuto specifiche, dette anche somatiche, presenti nei diversi tessuti del feto e dell‘organismo adulto e in grado di differenziarsi solamente nei tipi cellulari del tessuto di cui fanno parte; al gruppo delle cellule staminali pluripotenti appartengono,invece, due tipologie cellulari: quelle presenti transientemente nella blastocisti(fase sviluppata dell’embrione costituita da una massa differenziata di alcune centinaia di cellule) che prendono il nome di cellule staminali embrionali, il cui prelievo comporta la morte delle blastocisti e  le cellule iPS ( cellule dalla pluripotenza indotta) di cui ci occuperemo tra poco, che sono il risultato di una recente scoperta che prevede una manipolazione in laboratorio; totipotente per eccellenza è lo zigote , una cellula che può differenziarsi dando vita ad un organismo completo. Restano staminali totipotenti anche le cellule dell’embrione nei primissimi stadi di sviluppo. La totipotenza non dura a lungo in seguito alle divisioni dello zigote, ma viene persa dopo lo stadio a otto cellule (2 – 3 gg dopo la fecondazione).

Una delle scoperte più recenti nel campo delle cellule staminali riguarda la possibilità di ottenere cellule simili a quelle embrionali a partire da cellule adulte dell’organismo. Questa scoperta è l’equivalente di una rivoluzione nel mondo della ricerca sulle cellule staminali e molti scienziati pensano che cambierà completamente il loro futuro uso in medicina. È il 2006 quando il ricercatore giapponese Shinya Yamanaka, dell’Università di Kyoto, scopre un metodo per fare “ringiovanire delle cellule prelevate dal tessuto sottocutaneo di un topo, ottenendo cellule simili alle staminali pluripotenti presenti nell’embrione. Queste cellule staminali, prodotte artificialmente in laboratorio, sono state definite cellule staminali pluripotenti indotte o cellule iPS (dall’inglese induced Pluripotent Stem). L’anno dopo, nel 2007, la stessa tecnica è stata applicata con successo anche all’uomo dal gruppo di Yamanaka, e indipendentemente dai ricercatori americani capitanati da James Thomson: fibroblasti umani (cellule prelevate da tessuto cutaneo) vengono riportati allo stadio di cellule “bambine”. Per indicare questo processo di ringiovanimento delle cellule adulte gli scienziati hanno usato il termine riprogrammazione, per cui si sente spesso parlare di cellule staminali riprogrammate. Quindi le cellule iPS sono un tipo di cellula staminale pluripotente derivata da una cellula non pluripotente (tipicamente una cellula somatica adulta), attraverso la manipolazione di alcuni geni. Le cellule iPS aprono enormi prospettive per l’utilizzo di queste cellule staminali nello studio delle malattie in ambito clinico. Esse infatti associano la pluripotenza e la potenzialità differenziativa delle cellule staminali embrionali al fatto di poter essere ottenibili dall’ individuo stesso. Quindi teoricamente permetterebbero lo sviluppo di terapie cellulari personalizzate basate sull’impianto di cellule iPS ottenute dai propri fibroblasti e successivamente istruite a generare sottotipi di cellule specializzate di interesse. La tecnica utilizzata da Yamanaka e da Thomson consiste nell’introdurre all’interno delle cellule adulte del materiale genetico caratteristico delle cellule staminali sotto forma di un cocktail di quattro geni. Ciò permette di ringiovanire i fibroblasti fino a farli ritornare ad essere cellule staminali riprogrammate, ossia cellule che possiedono tutte le potenzialità delle cellule staminali embrionali pluripotenti: la capacità di autorinnovarsi e quella di specializzarsi in qualsiasi tipo di cellula dell’organismo. Per introdurre i quattro geni nelle cellule da ringiovanire, i ricercatori hanno utilizzato dei virus modificati in modo da contenere l’informazione genetica. Questi virus, messi a contatto con le cellule, le infettano fungendo così da vettori per i geni in questione.

La scoperta che è possibile ottenere cellule pluripotenti a partire da cellule già specializzate ha infatti acceso grandi speranze tra gli scienziati e nella società per la ipotizzata possibilità di eliminare il controverso utilizzo delle staminali embrionali umane nella ricerca e negli usi clinici. Tra l’altro, la derivazione di cellule pluripotenti direttamente dal paziente tramite il prelievo di una piccola porzione di tessuto presenterebbe il vantaggio di eliminare il problema del rigetto da parte del sistema immunitario del paziente, a differenza di quanto potrebbe verificarsi con le cellule staminali embrionali. Nel frattempo la ricerca sulle iPS continua ad andare avanti, raggiungendo altre tappe fondamentali che hanno ulteriormente rafforzato le speranze riposte su queste cellule per curare malattie ancora incurabili. Tra queste ricerche, nel 2008, uno studio condotto da ricercatori americani dell’Università di Cambridge ha dimostrato la possibilità di ottenere, a partire da fibroblasti della pelle, neuroni perfettamente funzionanti in grado di rimpiazzare quelli degenerati in un modello animale della malattia di Parkinson. In altre parole, le cellule iPS sono state fatte diventare cellule nervose e, trapiantate nel cervello di topi malati, sono riuscite ad attenuare i disturbi motori tipici del morbo di Parkinson permettendo un certo recupero funzionale. Recentemente, purtroppo, la speranza di poter utilizzate le cellule iPS a fini terapeutici è stata ridimensionata in seguito ai risultati di quattro diverse ricerche divulgate nei primi mesi del 2011, concordanti sulla tendenza delle cellule iPS a trasformarsi in cellule tumorali più facilmente rispetto alle cellule staminali embrionali. Tre di questi studi, pubblicati e commentati sulla prestigiosa rivista scientifica Nature, hanno rivelato il “lato oscuro” delle iPS che consiste nella tendenza a generare alterazioni nella sequenza del DNA e nei cromosomi in misura molto maggiore di quanto osservato nelle staminali embrionali fatte crescere in laboratorio. Il quarto studio, condotto da ricercatori italiani ha dimostrato che le cellule riprogrammate presentano un’instabilità del DNA simile a quella delle cellule tumorali, confermando la necessità di ulteriori studi che prima di passare alla sperimentazione sull’uomo. Queste ultime scoperte suggeriscono che le cellule iPS siano diverse dalle staminali pluripotenti estratte dagli embrioni e che forse non potranno sostituirle del tutto. Anche se questa può sembrare una cattiva notizia, in realtà rappresenta un ulteriore passo in avanti nella conoscenza delle cellule staminali. C’è ancora bisogno di pazienza e di molta cautela nel passaggio dal laboratorio al paziente, perché è indispensabile che a monte di questo percorso, ci sia una solida e approfondita conoscenza della biologia delle cellule staminali e dei meccanismi molecolari e funzionali che le caratterizzano. Conoscenza che si ottiene soltanto attraverso una solida ricerca di base e una attenta ricerca pre-clinica, cui devono necessariamente seguire sperimentazioni cliniche ancora più rigorose, che siano in grado di garantire sia la sicurezza sia l’efficacia delle terapie proposte. Se è infatti legittimo riporre delle aspettative ragionevoli sui risultati ottenibili attraverso l’impego clinico delle cellule staminali, è scorretto investire queste cellule di promesse irrealistiche come quelle alimentate dalla falsa credenza che possano costituire una sorta di panacea per tutti i mali, in grado di rigenerare qualsiasi tessuto del corpo umano. Spesso i pazienti, purtroppo abilmente manovrati da scienziati senza scrupoli, sono portati a credere che un trial clinico che sembra promettente in vitro o in vivo (sul topo) possa essere disponibile in tempi brevissimi come terapia sicura ed efficace. In realtà questo passaggio è estremamente lungo e complesso e spesso non dà i risultati sperati, soprattutto se non vengono scrupolosamente eseguite tutte le fasi di ricerca e sperimentazione. Le terapie cellulari così come la medicina rigenerativa sono sempre più basate sui progressi della biologia delle cellule staminali e hanno iniziato a porre le basi perla pratica clinica del futuro; nonostante l’entusiasmo degli studi sulle staminali, potrebbe essere sbagliato procedere al trapianto nell’uomo prima del tempo e senza prove consolidate e pubbliche. L’utilità clinica delle staminali potrà essere certa solo se in grado di fornire al paziente strategie sicure, a lungo termine e sostanzialmente più efficaci di qualsiasi altro trattamento disponibile. I riflettori puntati sulle staminali devono portare scienziati, medici, bioeticisti ad agire in modo coordinato, per poter procedere verso un responsabile trasferimento della ricerca sulle staminali in applicazioni cliniche appropriate e basate sull’evidenza.

La ricerca andrebbe indirizzata verso le cellule staminali adulte “ringiovanite”, cioè ricondotte alla pluripotenza della fase embrionale; questa linea di ricerca sarebbe da privilegiare non soltanto per i risultati scientifici che ne potrebbero derivare, ma anche perché consente ai ricercatori di disporre di tante cellule pluripotenti senza dover ricorrere alle cellule staminali dell’embrione umano, la cui utilizzazione per fini di ricerca solleva problemi etici di rilevanza fondamentale.