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Gottfried Wilhelm Leibniz e l’unità del sapere. In occasione del 300° anniversario della Monadologia

Luglio 2014
Francisco Fernández Labastida

Di tanto in tanto, la storia ci dona dei geni universali, persone capaci cioè non solo di unire in sé profonde conoscenze provenienti da ambiti disciplinari molto diversi, ma anche di contribuire positivamente al loro progresso. Aristotele, Avicenna, Ildegarda di Bingen, Alberto Magno, Leone Battista Alberti e Leonardo da Vinci sono quelli più frequentemente citati. A questa ristretta schiera dei polymathes appartiene anche Gottfried Wilhelm Leibniz (Leipzig 1646 – Hannover 1716). Questo giurista e diplomatico di fede luterana, si adoperò al servizio di diverse corti tedesche — sia cattoliche che protestanti — per il ristabilimento della pace e la concordia in una Europa lacerata dalle guerre dinastiche e religiose. Il suo sforzo ecumenico, volto a risanare la spaccatura causata dalla riforma protestante è stato notevole, anche se i frutti sono stati scarsi. Bibliotecario e archivista dei Duchi di Hannover e Wolfenbüttel, è stato uno dei fondatori della moderna scienza libraria. Nel 1675, egli scoprì indipendentemente da Newton il calcolo differenziale. La notazione che egli escogitò per effettuare i calcoli è quella attualmente utilizzata dai matematici. I suoi contributi alla logica prepararono lo sviluppo della logica simbolica ad opera di Gottlob Frege nel XIX secolo. Inoltre, egli è stato inventore, tra altre macchine, di una delle prime calcolatrici meccaniche. Fondò l’Accademia delle Scienze di Berlino, e fu membro di altre accademie europee, promuovendo la collaborazione tra gli scienziati di diversi paesi.

La grandezza personale di Leibniz è stata riconosciuta da molti dei suoi contemporanei ed immediati successori, anche da quelli che non condividevano la sua filosofia o la visione cristiana del mondo. Denis Diderot (1713-1784), filosofo materialista e ateo, coeditore insieme con Jean le Rond d’Alembert (1717-1783) dell’opera emblematica del Secolo dei Lumi, la Enciclopedia o dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, affermava di lui: «Mai un altro uomo ha forse letto così tanto, ha studiato tanto, ha meditato di più, e ha scritto più di Leibniz… Ciò che egli ha redatto sul mondo, su Dio, sulla natura e sull’anima è della più sublime eloquenza. Se le sue idee fossero state espresse con l’acume di Platone, il filosofo di Leipzig non avrebbe nulla da chiedere al filosofo di Atene» [Denis Diderot, Oeuvres complètes, vol. 7, p. 709]. Altrove dirà: «Quando si paragonano i propri talenti con quelli di un Leibniz, si è tentato di gettar via i propri libri e rintanarsi nell’oscurità di qualche angolo sperduto ad aspettare la morte» [Ibidem, p. 678].

Nel 1714, Durante il suo soggiorno a Vienna presso la corte imperiale, Leibniz redasse un breve saggio per il principe Eugenio di Savoia, intitolato Principi della natura e della grazia fondati sulla ragione, in cui egli espone in modo sintetico la sua filosofia della natura e la sua metafisica. Una copia dello scritto fu inviata dall’autore a Nicolas François Rémond, primo consigliere del Duca di Orléans e al suo circolo filosofico. Quello stesso anno ne scrisse un’altra breve presentazione della sua metafisica, che sarà nota più tardi come la Monadologia. Redatte ambedue originariamente in francese per l’uso privato e ristretto dei suoi interlocutori ed amici, esse furono tuttavia pubblicate qualche anno dopo la morte del loro autore, tra il 1718 e il 1720, in versione latina e tedesca.

Quei due opuscoletti, che contengono una lucida esposizione della sua filosofia, sono forse le opere leibniziane più lette e discusse, ma non sono certamente la porta migliore per introdursi nella ricchezza del suo pensiero e coglierne l’ampio respiro. Il fatto che in vita sua Leibniz pubblicasse soltanto la Teodicea (1710) e altri pochi articoli, restando inedita la maggior parte della sua copiosa produzione, fece sì che l’immagine che i suoi contemporanei se ne fecero e poi tramandarono fosse alquanto parziale e, a tratti, deformata. Voltaire critica nel suo Candide la visione ottimista del filosofo di Leipzig, che nella Monadologia aveva affermato che il mondo creato dalla benevolenza divina è “il mondo migliore possibile”. Per i suoi contemporanei era ancora fresca la memoria del terremoto che nel 1755 provocò incendi e uno tsunami che distrussero completamente la città di Lisbona, causando migliaia di morti. Egli si chiedeva in modo ironico: «se questo è il mondo migliore possibile … come saranno gli altri?». A sua volta, nella Critica della ragion pura Kant farà della teoria leibniziana delle monadi un esempio di utilizzo della ragione oltre il suo ambito legittimo di applicazione: l’esperienza possibile. La pertinenza di queste ed altre critiche al pensiero di Leibniz è stata messa in questione soltanto a partire del XIX secolo, quando si è potuto avere una visione più completa del suo pensiero, grazie allo sforzo editoriale di pubblicazione degli inediti che ancora è in corso. In effetti, solo allora i veri tratti di questo genio universale sono stati scoperti e valorizzati.

Sebbene Leibniz fosse un fine polemista, egli fu caratterizzato dalla ricerca della sintesi e della conciliazione nella misura del possibile a tutti i livelli: sia politico (tra gli interessi delle diverse nazioni europee) che scientifico (tra la fisica aristotelica e la fisica moderna) o filosofico (tra le posizioni scolastiche e quelle moderne) o teologico (tra le diverse chiese cristiane). Benché senza fare di ciò una chiara tematizzazione, Leibniz pratica la distinzione senza separazione dei diversi saperi e dei piani del reale, come più tardi farà invece Jacques Maritain. A livello ontologico, per Leibniz Dio e il mondo si trovano su due piani di azione diversi. L’universo creato da Dio gode di un’autonomia nelle sue leggi che non implica una indipendenza nell’essere riguardo al suo creatore. Le leggi della natura agiscono a livello fisico, l’agire divino si esplica a livello metafisico. Anche se con questi chiarimenti non si elimina la loro problematicità, perdono l’apparente fisicità sia la dottrina leibniziana dell’armonia prestabilita dell’universo sia l’immagine di Dio come l’orologiaio che ha accordato e coordinato tutte le monadi come se fossero orologi.

Inoltre, egli non vede contraddizione tra le verità che l’uomo può cogliere con l’uso della sua ragione e le verità rivelate della fede cristiana. Tenendo salda la tradizione patristica e medievale, Leibniz distingue tra ciò che è irrazionale oppure contro ragione, e ciò che invece si trova ad un livello supra-razionale, lasciando quindi spazio al mistero. Egli non crea un sistema filosofico razionalista che contenga e spieghi la complessità del reale more geometrico, ma concepisce l’unità del sapere nel contesto di una visione integrale della persona umana, capace di integrare in sé i diversi ambiti della conoscenza (sia teoretico che pratico-morale, sia scientifico o filosofico, sia naturale che soprannaturale), ma senza mai poter minimamente esaurirli. Per l’uomo non sarà mai possibile una completa intellezione di Dio, ma neanche della natura. Il circolo ermeneutico che si stabilisce tra la conoscenza intellettiva e la fede, che risuonano negli agostiniani crede ut intelligas e intellige ut credas alimenta anche lo sforzo leibniziano di comprensione delle verità rivelate.

I limiti delle proposte metafisiche leibniziane non possono occultare la accortezza delle intuizioni di fondo. Al riguardo commenta Nicholas Jolley: «Anche se è vero che il sistema leibniziano delle monadi non trova al giorno d’oggi molti seguaci, esso resta comunque uno degli esempi più impressionanti di metafisica revisionista, e c’è molto da imparare dal suo riduzionismo. Ma lasciando da parte la sua monadologia, la fecondità della mente di Leibniz è veramente straordinaria, e molte delle sue idee hanno esercitato un influsso positivo nella filosofia contemporanea. La sua teoria dei mondi possibili, la sua semantica dei nomi propri e dei termini generali, la sua teoria relazionale del tempo e dello spazio, la sua dottrina delle idee innate — queste e innumerabili altre idee rappresentano un patrimonio che egli ha lasciato alla filosofia moderna. Sarebbe certamente all’estremo superficiale supporre che la filosofia leibniziana fu semplicemente demolita da Kant» [N. Jolley, Introduction, in Idem (curatore), The Cambridge Companion to Leibniz, Cambridge University Press, Cambridge 1996, p. 16]. E come rileva Maria Rosa Antognazza «il caleidoscopio di attività e interessi che caratterizza la vita di Leibniz si sposa, guardando al suo pensiero, con il fermo convincimento dell’unità del sapere. La molteplicità, egli sempre ritiene, può e deve essere ricondotta a unità e solo in essa trova il suo senso ultimo. Ultimo Universalgelehrte, Leibniz segna uno spartiacque tra l’ideale dell’unità del sapere condiviso dalle precedenti generazioni e la moderna, crescente specializzazione disciplinare» [vedi la voce Leibniz del DISF].