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Che cos’è l’uomo perché te ne ricordi? Genetica e natura umana nello sguardo di Jérôme Lejeune

Settembre 2012
Mario Gargantini
Ingegnere e giornalista scientifico Direttore di Emmeciquadro, Euresis, Milano

C’è un modo di ricordare la figura di un grande scienziato e grande credente, che si limita a ripercorrere le tappe della sua vita, a raccontare le sue scoperte e a citare brani che ne facciano intuire l’umanità e lo spessore di vita religiosa. Ed è un modo senz’altro utile per far conoscere l’esperienza e la testimonianza di personaggi spesso lasciati volentieri nel dimenticatoio da una certa divulgazione e dalla stessa storia “ufficiale” della scienza.

C’è però una modalità ancor più impegnativa, che tenta di risalire alle radici della posizione del personaggio e di far venire a galla intuizioni e prospettive originali, scoprendo nella sua testimonianza approcci particolarmente adatti per l’affronto di questioni presenti nel dibattito attuale. È questa la strada seguita dall’Associazione Euresis per parlare di Jérôme Lejeune nella mostra allestita a Rimini al 33° Meeting per l’Amicizia tra i Popoli.

Già titolo e sottotitolo sottolineano l’impostazione non agiografica dell’esposizione: Che cos’è l’uomo perché te ne ricordi? Genetica e natura umana nello sguardo di Jérôme Lejeune. Si parte quindi dagli interrogativi del Salmo 8 per arrivare al cuore di uno dei dibattiti più caldi che si riaccende ad ogni conquista, o presunta tale, delle genetica e della biomedicina in genere. In discussione ci sono una certa idea di natura, intesa come qualcosa di dominabile indiscriminatamente dall’uomo; ma soprattutto una certa idea riduttiva della natura umana, vista come un insieme di funzionalità e di reazioni agli stimoli esterni, in un crescendo di ottimizzazione delle performance e di conseguente emarginazione di coloro che non riescono a garantire le prestazioni richieste.

Le nuove enormi potenzialità delle scienze biomediche, più in generale delle tecnoscienze, pongono la vita umana in tutte le sue forme ed espressioni come banco di prova per sperimentazioni che stanno delineando i tratti dell’uomo post-umano. Gli araldi del transumanesimo annunciano l’ingresso trionfale nella post-umanità, nell'umano “post-darwiniano”, potenziato da impianti neuronali, organi artificiali, genoma manipolato: tutti strumenti e tecniche che metterebbero l'uomo in grado di “guidare la propria evoluzione”. Fino al traguardo finale, con l’assalto a quello che S. Paolo indicava ai Corinzi come «l’ultimo nemico» (1 Cor 15,26), dato già quasi per sconfitto nel saggio del 2008 di Céline Lafontaine La società post mortale (La Société postmortelle, La Seuil 2008), dove la tecnica sarebbe in grado di allontanare di molto o addirittura di vincere la morte; obiettivo ribadito in un testo di Laurent Alexandre che si sta ora diffondendo in Francia: La mort de la mort (Paris 2011).

È uno scenario del quale Lejeune aveva individuato i primi tratti in quegli anni ’60 quando ha drammaticamente visto ribaltarsi il valore della sua scoperta. Dopo aver indicato nella trisomia 21 la causa della sindrome di Down, il genetista francese aveva dovuto constatare che l’analisi del cariotipo da lui messa a punto, unitamente all’amniocentesi che diventava praticabile in quel periodo, rendevano possibile la diagnosi prenatale di patologie di origine cromosomica; e si era reso conto che questo, invece di stimolare la ricerca di soluzioni terapeutiche, apriva la strada all’eliminazione degli “indesiderabili”.

La battaglia per la vita, condotta senza tregua da Lejeune al punto da guadagnargli l’ostilità di molto mondo scientifico e ostacolargli una carriera che avrebbe potuto essere ancor più luminosa, fa leva sull’affermazione di ciò che può fondare il valore della vita umana: è il concetto di persona e l’idea della unicità e irripetibilità di ciascun essere umano; un’idea centrale nella antropologia di Giovanni Paolo II, che di Lejeune fu grande amico. Se si volesse eliminare il paziente per sradicare il male, si avrebbe la negazione della medicina, ma difendere ogni paziente, prendersi cura d’ogni uomo, implica che ciascuno di noi debba essere considerato “unico” e “insostituibile”.

Qui il contenuto della mostra si è sposato bene col tema generale del Meeting di Rimini, che ha spinto la riflessione sulla natura profonda dell’uomo. La mostra documenta l’insufficienza di una visione genocentrica, che va per la maggiore, dove i geni sono il deus ex machina che tende a spiegare ogni comportamento e ogni caratteristica dell’uomo: c’è un gene per ogni aspetto della nostra vita e c’è la possibilità di agire sui geni per progettare una vita su misura. Ma è la stessa scienza, laddove è rispettosa della verità, ad opporsi a tale visione riduzionista. Si è dimostrato in modo definitivo che gli esseri umani sono ben più che la somma di parti genetiche. Inutile a dirsi, i nostri geni svolgono un ruolo primario e formativo nello sviluppo umano (e in molti dei processi di malattie umane), ma studi molecolari altamente tecnologici e non (pur sempre utili) di gemelli monozigotici e dizigotici dimostrano chiaramente che i nostri geni non sono fattori onnideterminanti nell’esperienza umana (cfr., Francis S. Collins, “Have no fear. Genes Aren't Everything”, The New Republic, 06/25/2001).

La visione deterministica viene anche messa a confronto con le punte avanzate della ricerca biologica contemporanea, che sta scoprendo una nuova realtà dei geni: da non intendersi come entità monolitiche e indipendenti ma piuttosto come “processi”, come realtà “relazionali”, al centro di una rete di rapporti; quindi come “strumenti”, che cooperano con altri per sviluppare e far crescere la vita.

Questo contrappunto scientifico è un indice della radicalità del problema e uno stimolo a portare la domanda sulla natura umana al livello adeguato. La scienza infatti, come ha osservato il biologo Jeffrey Schloss, non può dare risposte esaurienti sulla natura umana, ma aiuta a porsi la domanda su cos’è l’uomo in maniera molto più profonda e drammatica.

Si scoprirà allora che un discorso compiuto sulla natura umana implica il riferimento all’origine, alla fonte permanente di tale natura: «La creatura infatti, senza il Creatore svanisce» (Concilio Vaticano II, Gaudium et Spes, n. 36). Si potrà parlare dell’uomo come di quel livello della creazione che porta una particolare impronta del Creatore e che può entrare in relazione con Lui; che, chiamato alla vita, può dare del Tu al Creatore della vita. All’interno di questo dialogo si fonda anche la possibilità di conoscenza e di intervento sul mondo. Come diceva Lejeune, lo Spirito che governa l’universo si è preso il disturbo di modellare il suo proprio ritratto nell’unica creatura vivente capace di ammirare la creazione. Se siamo stati creati a immagine e somiglianza di Colui che ha fatto le leggi dell’universo, allora il fatto che possiamo avere una certa comprensione dell’universo diventa plausibile.

A questo punto l’inno alla vita, che è risuonato per bocca di un ragazzo affetto da sindrome di Down, durante la cerimonia di chiusura della fase diocesana del processo di beatificazione di Lejeune in Notre Dame, assume una consistenza e uno spessore ancor più grande.