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Chi siamo noi, capaci di tanto?

Aprile 2011
Diego Santimone
Dottore in Ingegneria Aerospaziale

La Terra è la culla dell'umanità, ma l'uomo non può vivere nella culla per sempre!. Questa affermazione di K.E. Tsiolkowsky (1857-1935), considerato il padre fondatore dell'astronautica, esprime bene la prospettiva e il destino umano di varcare l'atmosfera terrestre e toccare lo spazio profondo. Le motivazioni che spingono ai voli spaziali sono molto eterogenee e coagulabili fra loro a seconda del contesto storico, culturale, politico e tecnico-scientifico in cui si presentano. È possibile però coglierne un nucleo ancestrale  presente costantemente nel pensiero dei protagonisti più importanti delle vicende astronautiche. Quanto affermava Tsiolkowsky, lo ritroviamo poeticamente espresso anche da Primo Levi (1919-1987): “Ma perché lo facciamo, non sappiamo: i motivi che si citano sono troppi, intrecciati tra loro, ed insieme mutuamente esclusivi. Sotto l’intrico del calcolo, sta forse l’oscura obbedienza ad un impulso nato con la vita e ad essa necessario, lo stesso che spinge i semi dei pioppi ad avvolgersi di bambagia per volar lontani nel vento, e le rane dopo l’ultima metamorfosi a migrare ostinate di stagno in stagno, a rischio della vita” (L’altrui mestiere, Enaudi, Torino, 1985, pag. 21).

Fin dalle prime teorizzazioni dei viaggi spaziali ci si è chiesto se tali imprese fossero un azzardo prometeico oppure una vocazione dell'umanità ad ampliarsi oltre il pianeta Terra. Tutti i pensatori che hanno affrontato il fenomeno astronautico, concordano nell'interpretarlo come il naturale sviluppo del progresso tecnico-scientifico dell'uomo nella sua storia. A seconda però delle differenti stime delle conseguenze di tali imprese, ne risultano giudizi anche molto discordanti fra loro. Nella proposta di un'antropologia negativa come quella di G. Anders (1902-1992), ad esempio, i viaggi spaziali sono l'emblema della “vergogna prometeicache vede la dominazione sull'uomo della perfetta tecnica apocalittica. Il colonnello medico dell’USAF John P. Stapp (1910-1999), famoso per gli esperimenti di accelerazione con le slitte a razzo, vedeva invece nelle imprese spaziali lo sviluppo della civilizzazione e dell’umanità, raggiungibile “trasfigurando un po’ se stessi, con sacrificio e disciplina, per vivere al di sopra del tornaconto personale, collocandosi accanto agli immortali dispensatori di civiltà: questa è la vera grandezza dell’uomo (Shirley Thomas, Uomini dello spazio, Milano, 1962, p. 89).

Anche il magistero della Chiesa cattolica si è espresso sui voli spaziali, e questo ben prima che essi avessero inizio. Già nel 1956 Pio XII affermava che “questo sforzo comune di tutta l’umanità verso una conquista pacifica dell’universo deve contribuire ad imprimere sempre più nella coscienza degli uomini il senso della comunità e della solidarietà, affinché tutti abbiano maggiormente l’impressione di costituire la grande famiglia di Dio e di essere i figli del medesimo Padre”(Discorso al VII Congresso della federazione Astronautica Internazionale, 20 settembre 1956). Un atteggiamento di incoraggiamento, benedizione ed accompagnamento verso le imprese spaziali caratterizzerà anche i futuri pontificati invitando gli sforzi dell'uomo a rendere il sistema solare “la casa della famiglia umana(Giovanni Paolo II, Discorso ai delegati dell’Inter Agency Consultative Group, 7 novembre 1986). Ma se la Chiesa riconosce l'universo come Creato accessibile per l'uomo e il diritto a questi di esplorarlo, nel contempo avvertirà sui rischi che una visione dell’uomo misura completa di sé stesso può recare con sé (cfr. Gaudium et spes, 57).

Protagonisti dei voli spaziali sono gli astronauti. La fantascienza, i mass media e la prototipicità delle missioni spaziali spesso hanno restituito l'immagine di astronauta come nuovo Superman, un robot d'acciaio, una macchina gelida, perfetta e calcolatrice. In realtà l'astronauta è un uomo come gli altri, carico di una propria storia, relazioni e limiti; una persona corredata dalle proprie fragilità, che custodisce interrogativi profondi nell'intimo di sé. L'umanità e la finitezza comuni ad ogni persona si colgono in storie come quelle degli astronauti nella pellicola Uomini veri, diretta da Philip Kaufman nel 1983, in diari scritti per i propri figli durante missioni spaziali, come quello di Jerry Linenger  in Lettere a mio figlio dallo spazio (Milano, 1999) o in reportage giornalistici sugli anni d’oro della corsa allo spazio, come quello realizzato già molti anni addietro da Oriana Fallaci, Se il sole muore (Milano, 1965).

Ricollocato l'astronauta nella sua dimensione pienamente umana, si intravedono allora due orizzonti che chiedono di essere esplorati: il rapporto fra l'uomo e il “nudo” universo (mai così vicini come nei voli spaziali) e la relazione fra l'astronauta e la macchina aerospaziale.

Il volo spaziale presenta delle ripercussioni antropologiche ed esperienziali sugli astronauti che lo effettuano: un essere umano nato e cresciuto sulla Terra si ritrova separato dal suo pianeta d'origine, sfidando le terribili condizioni dell'ambiente spaziale a cavallo di veicoli che viaggiano ad accelerazioni e velocità decisamente inusuali nella quotidiana esperienza umana. C'è un sentimento comune riscontrabile in chiunque abbia effettuato un volo spaziale: si è colpiti dall'infinito del cosmo e dalla piccolezza dell'uomo di fronte allo spettacolo della natura che si contempla attraverso i finestrini dell'astronave, uscendo nel vuoto cosmico con indosso solo la tuta o saltellando sul suolo lunare. Il contrasto finito-infinito è potente. Ci si scopre sempre più “nudi” verso l'infinito. Questa epifania cosmica evoca violentemente una domanda interiore, nell'introspezione di sé stessi, dei misteri della propria persona, del proprio inconscio e animo interiore. Il viaggio contemplativo da spaziale diviene interiore, alla scoperta dell'uomo, alla scoperta di sé stessi. È questo l’itinerario proposto nelle trame di film come Solaris (1972) di A. Tarkovskij, oppure Moon (2009) di S. Rockwell.

L'avvertenza pascaliana invoca di essere ascoltata anche nelle imprese spaziali, come ricorderà Paolo VI all’Angelus del 20 luglio 1969, in occasione del primo sbarco sulla Luna: “Che cos’è l’universo, donde, come, perché? Faremo bene a meditare sull’uomo, sul suo ingegno prodigioso, sul suo coraggio temerario, sul suo progresso fantastico. Dominato dal cosmo come un punto impercettibile, l’uomo col pensiero lo domina. E chi è l’uomo? Chi siamo noi, capaci di tanto?”.

Ma nello spazio, oltre all'universo, c'è un'altra dimensione che “inghiotte” l'uomo: il mondo dove l'astronauta viene accolto è il ventre tecnico della macchina. L'ambiente abitabile è completamente artificiale, la sopravvivenza è regolata da variabili termodinamiche. Il rapporto uomo-macchina che si sperimenta in astronautica è uno dei più stretti sperimentabili. L'uomo si ritrova racchiuso in una piccola goccia di metallo a spasso per lo spazio profondo. Un mondo, come denuncia il romanzo di Viktor Pelevin Omon Ra (Milano, 1999), che può rischiare di asservire l'uomo e ridurlo a semplice ingranaggio di un congegno meccanico. Prospettiva di rischio che si respira in 2001: Odissea nello spazio, realizzato da S. Kubrick nel 1968 sull’omonimo romanzo di Arthur Clarke, in cui l'uomo viene invitato a liberarsi della macchina per trasfigurarsi in ciò a cui viene chiamato. La riflessione sulle imprese astronautiche ha avvertito sui rischi di non considerare l'uomo in modo riduttivo oppure onnipotente (abbiamo già incontrato il pensiero di G. Anders) come segnalava anche Paolo VI nel già citato discorso del 20 luglio 1969: “Da questa possibile idolatria dello strumento noi dovremo guardarci. È vero che lo strumento moltiplica oltre ogni limite l’efficienza dell’uomo; ma questa efficienza è sempre a suo vantaggio? Lo fa più buono? più uomo? O non potrebbe lo strumento imprigionare l’uomo che lo produce e renderlo servo del sistema di vita che lo strumento nella sua produzione e nel suo uso impone al proprio padrone? Tutto ancora dipende dal cuore dell’uomo”.

Il volo spaziale non esclude l'esperienza religiosa. Anzi, talvolta è evento dove il Divino si rivela.

Un mito da sfatare riguarda la presunta affermazione del primo uomo ad aver raggiunto lo spazio, il cosmonauta Yuri Gagarin (1934-1968): “Non ho visto Dio tra le stelle, né angeli”. Gagarin, seppur non credente, non rilasciò mai dichiarazioni simili. Il mito nacque invece da alcune affermazioni del cosmonauta G. Titov (1935-2000) che in un secondo momento vennero attribuite allo stesso Gagarin. Alle dichiarazioni atee provocatorie di Titov, rilanciò poi personalmente l’astronauta John Glenn: “Di Titov mi dette fastidio la frase: Non ho visto Dio tra le stelle, né gli angeli. La ripetè anche a me ed io gli dissi che il Dio nel quale credo non va a spasso per le stelle come un mostro volante” (in O. Fallaci,  FALLACI, Se il sole muore, Milano, 1965, p. 144). La contemplazione umana dell'infinito può sfiorare in un astronauta soglie quasi paranormali (come avvenne a Mitchell, che tentò degli esperimenti di telecinesi durante il terzo sbarco lunare con Apollo 14), oppure essere il proseguimento delle loro storie di fede con cui lasciano la Terra: si comprendono così gesti come le preghiere degli astronauti recitate fin dalle prime missioni (come quella recitata da Gordon Cooper durante una missione Mercury: “Signore, io ti ringrazio profondamente per avermi lasciato compiere questo volo…”, la lettura dei primi versi del libro della Genesi sull’Apollo 8 attorno alla Luna “informe e deserta” in diretta mondiale, la presenza di icone, crocefissi e angoli di preghiera a bordo di stazioni spaziali (sia sulla stazione russa MIR che sulla Stazione Spaziale Internazionale ISS). Una copia della Torah fu portata dal primo astronauta israeliano Ilan Ramon a bordo dello Space Shuttle Columbia, una missione che ebbe purtroppo un esito catastrofico: durante il decollo lo scudo termico della navetta spaziale rimase danneggiato e il veicolo si disintegrò al rientro in atmosfera avvenuto il 1 febbraio 2003. Non sorprende che gli astronauti Apollo nelle varie spedizioni abbiano portato sulla Luna Bibbie e simboli religiosi. James B. Irwin, astronauta di Apollo 15, dichiarò di aver incontrato Dio trovandosi a saltellare con la semplicità di bimbo sul suolo lunare: come i Magi era partito dalla contemplazione del cosmo per poi scoprire un Dio che si cala nella storia, nella sua storia.

Oltre ai contributi sul piano antropologico-esistenziale, gli eventi astronautici compiuti da Gli operai della Terra (è questo il titolo del libro di Lino Curci, Milano 1967, dedicato al nostro tema) restituiscono all'uomo di oggi una nuova presa di coscienza del pianeta che abitiamo, della sua fragilità e della sua unicità nell'universo; un sentimento di fratellanza globale, di invocazione alla pace fra i popoli, di collaborazione e di condivisione durante il viaggio che la minuscola Terra compie nell'universo e nella storia. Nello spazio l'uomo ha occasione di guardarsi in volto e, come il Piccolo Principe di A. de Saint-Exupery, tornare a prendersi cura della sua rosa. La rosa del prossimo e dell'umanità. Una rosa che può divenire annuncio di un nuovo umanesimo:“Tutto ancora dipende dal cuore dell’uomo. Bisogna assolutamente che il cuore dell’uomo diventi tanto più libero, tanto più buono, tanto più religioso, quanto maggiore e pericolosa è la potenza delle macchine, delle armi, degli strumenti che l’uomo mette a propria disposizione” (Paolo VI, Discorso del 20 luglio 1969).

Guardando al futuro, di fronte alla vocazione umana di rendere l'intero sistema solare una casa per la famiglia umana, ai possibili viaggi interstellari e a scoperte-incontri con persone e civiltà extraterrestri, ci si può chiedere fin dove giungerà l'esplorazione spaziale. Potremmo anche rimaner disorientati su quali strade dover prendere o ci troveremo a gridare troppo forte per ascoltare il cosmo intero che ci sussurra: “Quid quaeris maiorem vocem? Clamat ad te caelum et terra: Deus me fecit!” (“Perché domandi una voce più forte? Te lo dice il cielo e la terra: mi ha fatto Dio!”: sant’Agostino, Sermones, 68, V, 6). Saremo certi che “i cieli narrano la gloria di Dio” (Sal 18,2) (e riusciremo a sentirli!) solo se avremo il coraggio di non ritenerci onnipotenti e contemplare invece con la semplicità di bimbo, un bimbo appena uscito da questa culla che è la Terra.