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La beatificazione di John Henry Newman: quando la ricerca della verità rende santi

Settembre 2010
Giuseppe Tanzella-Nitti
ordinario di Teologia fondamentale - Pontificia Università della Santa Croce

Domenica 19 settembre, durante una s. Messa celebrata al Cofton Park di Birmingham, Benedetto XVI beatificherà John Henry Newman, in occasione del suo viaggio apostolico nel Regno Unito, programmato dal 16 al 19 settembre. A partire dal pontificato di Giovanni Paolo II siamo stati ormai abituati a questo genere di celebrazioni, volute in misura assai più numerosa che in passato, fino a ritenerle quasi di routine per la vita della Chiesa. Senza nulla togliere al dono e alla grandezza della santità, che si esprime in tante figure diverse, ciascuna delle quali ha incarnato in modo personale e in circostanze differenti la sequela Christi, alcune di esse risaltano per l’influenza storica dei nuovi beati e per la singolare traiettoria di cui essi sono stati protagonisti. Non vi è dubbio che la beatificazione di John Henry Newman (1801-1890) sia fra questi ultimi. Non soltanto perché la sua è stata una storia segnata da numerose prove personali, caratterizzata da un grande zelo per le anime e da non poche incomprensioni, ma anche, e soprattutto, perché storia segnata da una sola e grande ricerca: la verità. Al di là di ogni tradizione e conformismo, sempre disposto a pagare di persona, Newman ha cercato solo e soltanto la verità, con tutte le sue forze, e per questo oggi la Chiesa cattolica lo proclama beato. La sua biografia è ben nota, o comunque di facile accesso a chiunque. Fine di queste brevi note non è certo ripercorrerla adesso, ma solo sottolinearne alcuni aspetti, il cui sentire è assai vicino alle motivazioni che animano questo Portale e che i suoi visitatori ben conoscono.

Newman è un autore che ha offerto ai suoi lettori il risultato di un proprio itinerario personale: il suo è un pensiero biografico. Tutto ciò che nascerà dalla sua penna egli lo ha prima di tutto maturato e sofferto, intellettualmente ed esistenzialmente, nella sua esperienza personale. Sono questi gli autori che attraggono. Come amava ripetere Paolo VI, oggi la gente ascolta molto più volentieri i testimoni che i maestri, e se ascolta i maestri lo fa perché sono stati anche testimoni. In Newman noi ritroviamo sorprendentemente ambedue i ruoli. Di Newman attrae l’onestà intellettuale ed attrae il modo con cui la ricerca della verità lo ha portato alla pienezza della fede cattolica. Un itinerario che, perché no, vorremmo si riproducesse in tanti colleghi pensatori, fratelli separati. La sua è stata una onestà intellettuale pagata di persona. Nelle commoventi lettere scritte ai suoi amici del Movimento di Oxford, durante la notte precedente al suo ingresso nella Chiesa Cattolica, egli assicurava loro (restando tuttavia incompreso) che non si trattava di un tradimento, ma del compimento che lui e loro insieme cercavano… Non ho difficoltà ad affermare che anni fa, durante una mia visita ai suoi luoghi storici a Littlemore, nei pressi di Oxford, volli baciare il tavolino dove queste lettere furono scrisse proprio durante quella notte.

La sua riflessione su Dio è stata capace di tenere insieme due poli oggi visti spesso (falsamente) in opposizione: un approccio a Dio come Verità e un approccio a Dio come amante innamorato della sua creatura. È questa una sintesi che ritroviamo in tutti i grandi autori, da Agostino ad Anselmo, da Tommaso d’Aquino ad Elisabetta della Croce (Edith Stein). La forza con cui egli seppe dirigere l’interlocutore verso il riconoscimento dell’Assoluto non era inferiore alla forza con cui lui stesso testimoniava il suo incontro vivo e accorato con il proprio Creatore: Myself and My Creator. La forza di questa percezione ancora oggi continua a scuotere le coscienze di tanti, perché percezione del nostro io, libero e creaturale, che si erge sulla storia evolutiva del cosmo e della vita, un io capace di restare sempre di fronte a quel Tu che ci sostiene.

Molti hanno sottolineato, e a ragione, che John Henry Newman è stato un cristiano alla ricerca di una sintesi con la modernità. Una sintesi che, sebbene nei suoi esiti finali sia oggi rimasta ancora incompleta, fu da lui ricercata secondo itinerari percorribili anche a i nostri giorni. Il fatto che una sintesi fra cristianesimo e modernità sia rimasta di fatto incompleta è dovuto senza dubbio alla difficoltà a far rientrare il termine “modernità” sotto un’unica categoria —come era invece possibile fare per gli Autori cristiani che realizzarono sintesi con la classicità o con l’Aristotelismo— ma anche, e non di meno, a motivo della scarsezza di personaggi, appunto come Newman. Il teologo di Oxford non ha consegnato una sintesi organica, ma nondimeno ha colto non poche istanze positive della modernità, forse le più importanti; egli ha gettato ponti, vedendo nel progresso del pensiero e delle scienze non necessariamente una fonte di problemi per il cristianesimo, bensì vedendone le virtualità e un’opportunità per riflettere in modo più profondo sul Vangelo stesso. Lo stile di Newman è uno stile secolare, nel senso migliore del termine: egli apprezza il mondo e vuole ricondurlo a Dio, facendosene carico. Un atteggiamento difficile da trovare in altri autori, tranne forse rare eccezioni —fra le quali va annoverata la predicazione di s. Josemaría Escrivá nel XX secolo— nonostante i numerosi appelli formulati in proposito dal Concilio Vaticano II. La maggioranza degli autori, invece, ha più spesso scelto di confrontarsi col mondo, di giudicarlo, di provare a penetrarvi all’interno, non accorgendosi che il mondo già apparteneva a Cristo ed era questa appartenenza che andava esplicitata e riscattata.

Vi sono due aspetti del pensiero di Newman che ho avuto la fortuna di esaminare più da vicino: la sua filosofia dell’atto religioso nella Grammatica dell’Assenso (1870) e il suo pensiero sull’Università e sull’unità del sapere come esposto nella sua Idea di Università (1852).

Come teologo fondamentale non ho potuto fare a meno di confrontarmi con la Grammatica, un’opera certamente difficile, ma preziosa quando se ne penetra la logica e si acquista confidenza con il suo linguaggio. Un lettore che esaminasse in modo frettoloso l’itinerario proposto dall’Essay in Aid of a Grammar of Assent difficilmente vi riconoscerebbe — come vorrebbe invece il suo titolo — un “aiuto” a comprendere la logica della fede, specie in contesti (come quello contemporaneo) ove l’analisi razionale dell’atto di fede, o comunque l’idea di esporre la razionalità della fede, hanno da tempo abbandonato i trattati di Teologia fondamentale. In realtà, l’opera di Newman è il contrario di ciò che essa sembra a prima vista. La sua è una prospettiva antropologica, non razionale-astratta, e dunque assai prossima alla sensibilità odierna. È infatti sulla dimensione personale della conoscenza che Newman centra l’attenta valutazione di quali siano le condizioni gnoseologiche e fenomenologiche, di natura generale, che consentano di giungere con certezza ad una decisione da prendere in campi ove non vi fosse la possibilità di controllare tutte le variabili e gli aspetti del problema, condizioni che egli poi applicherà, come è noto, nei riguardi dell’assenso in materia religiosa. Newman vi elabora una convincente rivalutazione dell’assenso reale — cioè esperienziale, vissuto, ed eventualmente legato ad inferenze non formali — rispetto all’assenso nozionale, generalmente affidato all’inferenza formale.

Nella Grammatica dell’assenso risalta il ruolo propedeutico attribuito da Newman alla religione naturale, che nel linguaggio del teologo di Oxford vuol dire religiosità dell’uomo, onestà intellettuale verso la divinità, come quest’ultima può essere colta da una recta ratio. Newman è infatti persuaso che la prova della rivelazione del Cristianesimo sia riconoscibile da coloro i quali sono preparati, nel loro intelletto e nella loro coscienza, da quelle idee e sentimenti religiosi corrispondenti alla religiosità naturale. Questa rappresenta una sorta di grande, organico preambolo della fede nella Rivelazione, una preparazione formale propedeutica alla successiva considerazione di quelle che sono chiamate le prove del Cristianesimo (Evidences of Christianity). I principali contenuti attribuiti alla religione, propedeutica all’accoglienza della Rivelazione, vengono così riassunti da Newman:

«Una credenza e una percezione della presenza divina [di Dio], un riconoscimento dei Suoi attributi e un’ammirazione della Sua persona vista attraverso di essi [Creatore, Somma Bontà, ecc.]; una convinzione del valore dell’anima e della realtà e importanza del mondo invisibile, la convinzione che, in proporzione a quanto nella nostra persona ci rendiamo partecipi degli attributi che in Lui ammiriamo, siamo a Lui cari [coscienza morale]; al contrario, la consapevolezza che siamo lontani dall’esemplificarli, la conseguente intuizione della nostra colpa e della nostra miseria, l’ansiosa speranza di riconciliarci con Lui [senso della trascendenza di Dio e senso di colpa], il desiderio di conoscerlo e amarlo [amore a Dio–Verità] e la sensibile ricerca in tutto ciò che accade, sia nel corso della natura che della vita umana, di segni, se ce ne sono del Suo concederci ciò di cui abbiamo tanto bisogno [Provvidenza]. Questi sono esempi dello stato mentale che concordo che debbano avere coloro che indagano sulla verità del cristianesimo».[1]

È difficile non fare collegamenti con la nostra epoca, ove l’abbandono di una sana riflessione sulla religione, che aveva invece attraversato la classicità, l’epoca medievale e perfino la modernità, ha oggi determinato nella mente di molti lo scollamento del cristianesimo da ogni esperienza religiosa in grado di accomunare tutti gli uomini, relegandolo nella sfera del privato in nome di una mal compresa laicità della società e dello Stato. È solo dopo questa riflessione sulla profonda dimensione umana della religione che Newman passa ad esplicitare, nella Grammatica dell’assenso, le prove del Cristianesimo. Si tratta di prove che hanno, per così dire, due gambe: una poggiata sulla dimensione “preambolare” della religione naturale, l’altra che guarda ormai al contenuto delle Rivelazione, donata insieme alle sue credenziali, secondo quella prospettiva impostasi nei decenni successivi e poi raccolta dal Concilio Vaticano II.

Di analogo interesse per il rapporto fra fede e ragione, sono le riflessioni con cui Newman espone nella sua Idea di Università, l’ideale di persona colta, di gentleman, vedendo la formazione universitaria come educazione ad un habitus filosofico, un'«educazione al sapere» mossa non da fini utilitaristi, perché il «sapere è fine a se stesso». Essa ha di mira la persona, il suo porsi di fronte al mondo e di fronte agli altri, il suo modo di acquisire le varie cognizioni collocandole nel loro giusto contesto e valore, non in base a criteri esterni, ma fondandosi su quanto il soggetto stesso va maturando in sé mediante il suo conoscere. Newman non è per nulla contrario al sapere specializzato, né al fatto che l’Università insegni un sapere pratico, ma ritiene che un insegnamento che non si preoccupi di mostrare il significato ed il ruolo di ogni singola disciplina nel contesto del tutto —e dunque di una unità del sapere— non sarebbe adeguato alla formazione di un universitario. Così lo esprime lo stesso Newman in un brano che merita di essere citato per intero:

«Se dunque polemizzo, e dovrò polemizzare, contro la conoscenza Professionale o Scientifica come fine sufficiente di un'Educazione Universitaria, non pensiate, Signori, che voglia mancar di rispetto a studi, o arti, o vocazioni particolari, e a coloro che sono impegnati a essi. Nel dire che la Legge o la Medicina non sono il fine di un'educazione Universitaria, non intendo dire che l'Università non deve insegnare la Legge o la Medicina. Che cosa infatti essa può insegnare, se non insegna qualche cosa di particolare? Essa insegna tutta la conoscenza insegnando tutti i suoi settori, e in nessun altro modo. Io dico soltanto che vi sarà questa distinzione per quel che riguarda un Professore di Legge, o di Medicina, o di Geologia, o di Economia Politica, in un'Università e fuori di essa, che fuori di un'Università egli corre il pericolo di essere assorbito e circoscritto dalla sua specializzazione e di fare lezioni che sono nulla più che le Lezioni di un giurista, di un medico, di un geologo, o di un economista politico; mentre in un'Università egli sa dove collocare se stesso e la propria scienza, a cui giunge, per così dire, da una sommità, dopo aver avuto una visione globale di tutto il sapere, è trattenuto dalla stravaganza dalla stessa competizione di altri studi, trae da essi un'illuminazione speciale e un'ampiezza mentale e un senso di libertà e il possesso di sé, e tratta di conseguenza il suo proprio settore con una filosofia ed una ricchezza di risorse, che non appartengono allo studio in se stesso, ma alla sua educazione liberale»[2].

Caratteristica importante della formazione universitaria è la sua capacità di giungere ad una visione unificata della realtà, alle distinzioni fra le varie discipline ed ad un giudizio critico sulle conclusioni cui ciascuna di esse perviene, riconoscendo nel contempo il contributo di ogni sapere parziale alla ricerca di una verità colta come coerenza con il tutto. L'università è, per eccellenza, il luogo dell'interdisciplinarità. Questa attività di unificazione e di discernimento risponde primariamente ad un habitus filosofico, a quello che forse potremmo chiamare uno sguardo metafisico. L'educazione liberale, che in vari luoghi Newman indicherà col termine di «educazione filosofica», diviene allora quell'educazione adeguata ad esercitare tale sguardo, riconoscendovi un sapere che ha valore in sé. Leggiamo ancora Newman:

«Tutti i settori del sapere sono, almeno implicitamente, l'oggetto dell'insegnamento universitario; questi settori non sono isolati e indipendenti l'uno dall'altro, ma formano insieme un tutto o un sistema; essi si fondono e si completano vicendevolmente, e l'esattezza e la veridicità del sapere che essi, ciascuno per suo conto, trasmettono, sono relative alla visione che ne abbiamo come di un tutto; la vera cultura consiste nel processo di trasmissione del sapere all'intelletto in questa maniera filosofica; una tale cultura […] è, inoltre, di grande utilità secolare, in quanto costituisce la formazione migliore e più alta dell'intelletto per la vita sociale e politica»[3].

Forse sono riflessioni che oggi leggiamo con certa nostalgia, ma esse non hanno perso tutto il loro valore di provocazione. Sono domande che ci interrogano. Ed è in questo senso che Newman interroga perennemente la modernità, interrogando ciascuno di noi, chiedendoci se abbiamo preso davvero sul serio, come ha fatto lui, tutto il potenziale umano e culturale posseduto dal Vangelo, ovvero la capacità che il Vangelo ha di rivelare l’uomo, la sua cultura, il suo amore alla verità, la sua sete di Dio.

 

[1] Newman, Grammatica, in Scritti filosofici, a cura di M. Marchetto, Bompiani, Milano 2005, pp. 1549-1551. Abbiamo esplicitato fra quadre una possibile corrispondenza con alcuni preamboli della fede.

[2] J.H. Newman, L'Idea di Università, Vita e Pensiero, Milano 1976, pp. 201-202.

[3] Ibidem, pp. 246-247.