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Dal Sidereus Nuncius alla teoria dei fondamenti

Marzo 2010
Luca Arcangeli
Facoltà di Filosofia Università di Bologna

Concluso nel 2009 il 400° delle prime osservazioni di Galileo al telescopio, l’anno 2010 continua a ripercorrere da vicino la vicenda galileiana, visto che nel marzo del 1610 Galileo Galilei pubblicava per la prima le più importanti fra queste osservazioni sul Sidereus Nuncius, opera che avrebbe avuto enorme diffusione in tutta Europa e suscitato un acceso dibattito. In questo breve scritto egli mostrava un universo molto più ampio e ricco di quello tradizionale: una Via Lattea composta da innumerevoli stelle, una Luna tutt’altro che perfetta e levigata, quattro nuovi pianeti ruotanti attorno a Giove. Si trattava di un formidabile attacco agli avversari peripatetici del suo tempo: grazie ad una lucida analisi sperimentale veniva smontata la convinzione dell’incorruttibilità dei cieli e si dichiarava l’esistenza di altri satelliti oltre la nostra Luna. Fatto per nulla irrilevante dal momento che la rivoluzione lunare attorno alla terra era ritenuta un’obiezione fondamentale al copernicanesimo.

Ma la novità assolutamente dirompente era l’utilizzo del cannocchiale. Molti storici della scienza asseriscono che il vero salto di paradigma tra la scienza antica e quella moderna sia avvenuto nel momento in cui Galilei ha puntato il suo strumento verso le stelle. Così Galilei osserva la natura facendosi guidare non dal senso immediato, né da un sentimento estetico o simbolico-spiritualistico. La sua è una interrogazione metodica, una penetrazione del dato naturale profondamente informata di teoria: uno strumento come il cannocchiale presuppone per la sua realizzazione e per l’affidabilità dei suoi risultati, conoscenze di ottica, geometria  e chimica dei materiali. Siamo già all’essenza del metodo sperimentale galileiano che verrà esplicitamente dispiegato nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Affermare la capacità di descrizione oggettiva dei fenomeni sensibili da parte del linguaggio matematico significava colmare la distanza tra indagine osservativa e l’interpretazione matematica dei fenomeni stessi. Un’idea di ispirazione platonizzante (come osserverà Alexandre Koyré) che era già stata, qualche secolo prima, di Ruggero Bacone di altri rappresentanti della Scuola di Oxford i quali, però, non avevano saputo tradurla altrettanto bene in pratica.

Al tempo di Galilei la comunità degli studiosi era divisa tra filosofi della natura di formazione aristotelica e astronomi di professione, i quali basavano i propri calcoli dei moti astrali su modelli a cui accordavano in modo strumentale una funzione di pura utilità e nessuna pretesa realistica di verità.

Un problema epistemologico. Qui sta un primo aspetto della questione galileiana, che è di natura filosofica e potremmo dire “epistemologica”: Galilei era convinto che il sistema copernicano fosse reale, vero, e non una pura ipotesi di calcolo e pretendeva di essere in grado di darne una dimostrazione apodittica. Ma non poteva esserlo e Bellarmino lo mise in guardia proprio su questo punto, perché la scienza matematizzata, come oggi sappiamo, necessita essa stessa di una teoria dei suoi fondamenti e Galileo non ne aveva una. E neppure gli aristotelici di allora erano ormai più in grado di servirsi della logica e della metafisica di Aristotele come di una teoria dei fondamenti per le scienze. Il problema della messa a punto di una teoria dei fondamenti delle scienze rimane tuttora aperto ed è una vera sfida logico-metafisica del nostro tempo. Quella sfida alla quale Giovanni Paolo II prima e Benedetto XVI ora, hanno chiamato scienziati e filosofi.

In più noi oggi, alla luce della cosmologia contemporanea, sappiamo che il problema della centralità del sole o della terra ha perso completamente senso anche dal punto di vista scientifico. Ma al tempo di Galileo, né lui né i sostenitori della decadente scolastica di quel periodo che, ormai, di genuinamente aristotelico non aveva quasi più nulla, potevano saperlo. Questa questione della “verità” apodittica della sua scienza procurò a Galileo incomprensioni e conflitti di carattere filosofico con gli accademici a lui contemporanei. Se i peripatetici riconducevano la fisica all’interno della cornice di una metafisica soprasensibile che ben poco conservava di quella di Aristotele, Galilei invece confidava, platonicamente, nelle essenze matematiche, costituenti ultimi del libro della natura. Se l’umana ragione non può assurgere ad una conoscenza infinita essa però, pensava Galilei, è in grado di vedere alcune verità così come le vede Dio: nella assoluta certezza matematico-geometrica noi contempliamo la sublime necessità del divino. Un pensiero che, come osservò il cardinale Bellarmino, avrebbe fatto irritare non poco i dotti peripatetici.

Un problema teologico. Ma oltre alla questione filosofica si presentava a Galileo anche un secondo problema, questa volta propriamente teologico, niente meno che sul versante della sacra Scrittura. Il suo più grande e temibile ostacolo era l’apparente ostilità di alcuni versetti biblici, come il passo del libro di Giosuè 10,12-13, dove Giosuè alla battaglia di Gabaon comanda al sole di fermarsi. La sfida che gli si parò davanti dopo l’improvvisa fama dovuta alla pubblicazione del Sidereus Nuncius fu dunque quella di pensare come potessero conciliarsi copernicanesimo e rivelazione cristiana. In un contesto in cui la filosofia naturale tendeva ad essere assorbita (secondo lo schema aristotelico) in una metafisica del sensibile ispirata cristianamente o in cui il naturale veniva letto (in uno spirito neo-platonico) come simbolo del soprannaturale, era quasi spontaneo l’utilizzo del testo sacro nelle dispute scientifiche. Galilei fu così costretto dagli eventi a riflettere sui criteri di interpretazione della Bibbia per comprendere se veramente gli era tanto nemica. Gli anni dal 1611 al 1615 saranno impegnati in una difficile operazione di propaganda e difesa delle proprie teorie. Eppure, anche con intenti così evidentemente pratico-politici, Galilei non si limitò ad una banale dissimulazione o ad una accomodante conciliazione, ma avanzò alcune tesi che sarebbero divenute paradigmatiche per la storia dell’esegesi, lui che esegeta non era. Grazie forse ad un predicatore Barnabita che gli fornì un dossier di testi antichi e moderni contenenti riflessioni sui rapporti tra ricerca scientifica ed esegesi biblica, Galilei poté verificare ed appoggiare sulla tradizione stessa della Chiesa le sue considerazioni, scoprendo in Sant’Agostino un formidabile alleato. Infatti già più di mille anni prima i padri della Chiesa incontrarono difficoltà molto simili nel tentativo di conciliare il portato ebraico-cristiano con la raffinata speculazione greca e romana. Il concetto chiave di cui Galilei si serve per salvare l’autonomia di ricerca della filosofia naturale dall’autorità del testo sacro è che non sia mai metodologicamente corretto utilizzare versetti biblici come prove sperimentali; criterio già ravvisabile, ma solo in parte, nel De Genesi ad litteram agostiniano. Infatti Galilei riprende l’antico principio “Scriptura humane loquitur” per mostrare come le Scritture si adattino alla capacità di comprensione degli uomini che le ricevono: così si spiegano gli antropomorfismi riferiti a Dio e le rudimentali affermazioni conoscitive. Mancava infatti a quel tempo una chiara consapevolezza della formazione storico-letteraria del testo biblico. Come ebbe a dire Giovanni Paolo II: «Il capovolgimento provocato dal sistema di Copernico ha così richiesto uno sforzo di riflessione epistemologica sulle scienze bibliche, sforzo che doveva portare più tardi frutti abbondanti nei lavori esegetici moderni e che ha trovato nella Costituzione conciliare Dei Verbum una consacrazione e un nuovo impulso» (Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 31 ottobre 1992).

Se ai nostri giorni il problema esegetico è stato pienamente risolto, rimane aperto il problema filosofico-epistemologico come una grande sfida per la ricerca scientifica e filosofica, quello della messa a punto di una razionalità che, proprio partendo da un lato dall’esigenza di elaborare una teoria dei fondamenti delle scienze, si incontra dall’altro con l’urgenza per la filosofia e la teologia di garantire una piena solidità scientifica al loro modo di procedere. Tutto questo riapre la grande questione di un modello di razionalità che non si limita alla sola matematica e di una metafisica rigorosa che si offra come teoria dei fondamenti delle scienze.