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Fede e ragione nei discorsi universitari di Benedetto XVI

Luglio 2009
Matteo Coatti
Facoltà di filosofia - Università degli Studi di Milano

Il magistero di Benedetto XVI è segnato, fin dal suo inizio, da un’attenzione specifica al nesso tra fede e ragione. Questo tema era stato già sviluppato nel lungo lavoro teologico di Joseph Ratzinger che, dopo la sua elezione a Romano Pontefice, lo ha tematizzato finora in almeno tre discorsi principali. Essi, dati i luoghi in cui sono stati pronunciati, potrebbero essere definiti “universitari”: si tratta del discorso Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni di Ratisbona (12 settembre 2006), dell’allocuzione prevista – e non pronunciata a causa dei ben noti motivi – per l’incontro con l’università “La Sapienza” di Roma (16 gennaio 2008) e, infine, del discorso per l’incontro con il mondo della cultura al “Collège des Bernardins” a Parigi (12 settembre 2008). Il visitatore di questo Portale può trovare i testi on line nella opportuna sezione dedicata al Magistero di questo pontefice.

All’interno di questi testi è possibile mettere in luce alcuni aspetti che li contraddistinguono: temi che ritornano, si intrecciano, vengono accennati in uno dei discorsi e poi approfonditi in un altro.  Si può scoprire così che concetti come la centralità del Logos inteso come Ragione creatrice ed Amore, che si fa uomo ed entra nella storia, la ricerca della verità, le radici dell’Europa plasmate dal modo di vivere e di pensare del monachesimo, il ruolo dell’università, il rapporto tra filosofia e teologia, la tensione tra il legame di intelletto-amore e libertà sono all’origine del carattere costitutivo, per il Cristianesimo, del rapporto tra fede e ragione. Una caratteristica, questa, fondamentale per capire come il cristianesimo abbia potuto rappresentare – e rappresenti ancora oggi – un fatto con il quale la ragione umana non può evitare di confrontarsi.

Il tema della centralità del Logos viene trattato nel discorso di Ratisbona ed in quello di Parigi. Nel primo, Benedetto XVI parte dalla nota affermazione che compare nel ragionamento dell’imperatore Manuele II Paleologo: non agire secondo ragione – secondo il Logos – è contrario alla natura di Dio. Questo significa che l’essere logos, cioè appunto ragione, razionalità ma anche Parola, è costitutivo di Dio. Il discorso, però, non si ferma ad un livello puramente intellettualistico; per i cristiani, Dio si è incarnato in Gesù. Il Logos si è fatto carne, come ci ricorda Giovanni: è la centralità di un fatto, di un avvenimento che ha cambiato per sempre la storia. Inoltre, il Logos è Amore: è questa una nuova prospettiva per la teologia, che non è costretta a muoversi in chiave puramente teorica, ma può operare nel senso di una vera unità tra intelletto e cuore.

Quest’ultima affermazione ci introduce al discorso di Parigi, in cui il tema del Logos è trattato in rapporto a quello della comunità – qui di monaci, ma per estensione Benedetto XVI intende l’intera comunità cristiana –: la Parola di Dio introduce alla comunione tra i fedeli, che solo mediante uno sforzo comune possono giungere alla verità che la Parola veicola. La comprensione di questa è un atto fisico e spirituale insieme, esattamente come Gesù, Logos incarnato, è vero uomo e vero Dio. Il Logos si comunica in modo ragionevole: la Ragione creatrice e salvifica si comunica alla ragione umana in modo che quest’ultima possa comprenderla.

L’ethos della scientificità è l’obbedienza alla verità. È questo il paradigma interpretativo che il Papa fornisce per un’analisi del ruolo delle scienze e dei rapporti fra di esse. La ricerca scientifica deve svilupparsi sotto l’autorità della verità; e questo non perché sia il desiderio di qualcuno (il capo della Chiesa cattolica, un gruppo di intellettuali, una corrente di pensiero…), bensì perché lo scopo della ricerca è la soddisfazione del desiderio di conoscere la verità presente in ogni essere umano.

Il riconoscere, da parte dei primi cristiani, che il Dio in cui credevano è verità, e l’accoglimento da parte del cristianesimo dell’interrogare socratico ha permesso che, proprio in seno al cristianesimo, potessero nascere le università.

Dopo tutta la speculazione medievale, dopo la fioritura delle dimensioni del sapere in epoca moderna, dopo l’Illuminismo, com’è possibile che oggi l’uomo si arrenda nei confronti della questione della verità? In questo modo, la ragione è piegata all’utile, la filosofia ridotta a positivismo, la teologia confinata nell’ambito dell’interesse privato e la scienza si trasforma in ideologia sedicente onnicomprensiva. La ragione è più piccola e la cultura europea, che su questa razionalità è stata costruita, va in frantumi.

Del Vecchio Continente e delle sue radici parlano tutti e tre i discorsi: se quello di Ratisbona mette in luce il fecondo incontro tra sapere greco e cristianesimo, e l’allocuzione preparata per la visita alla Sapienza si preoccupa di sottolineare proprio il tema della verità prima accennato, è nel discorso di Parigi che si rintraccia una precisa trattazione a riguardo. I monaci, in un periodo storico estremamente difficile e culturalmente decadente, sono riusciti ad edificare una nuova cultura – e, con essa, una nuova civiltà –, custodendo nel contempo quella antica. Benedetto XVI riconosce però che non era questa la loro intenzione originaria: quei religiosi volevano semplicemente cercare Dio, la Vita stessa, l’unica cosa essenziale. Ma poiché la ricerca di Dio richiede la cultura della parola, presto i monaci si resero conto dell’importanza delle scienze profane: l’obiettivo delle scuole dei monasteri era quello di formare una ragione “funzionale” alla fede.

L’Europa, mostra allora il Santo Padre, è stata costruita con atteggiamento veramente filosofico: mettere da parte le cose penultime e porsi in cerca di quelle ultime, vere. Ecco perché un’Europa che considerasse la ricerca di Dio una perdita di tempo, e che pensasse al suo passato come ad un giogo di cui liberarsi, sarebbe destinata a dissanguarsi lentamente, tragicamente.

Abbiamo chiamato come “universitari” i discorsi ai quali ci stiamo qui riferendo: ma quale ruolo ha per Benedetto XVI l’università? Certamente, egli nutre profonda stima per questa istituzione: non potrebbe essere diversamente, essendo stato egli stesso professore in vari Atenei.

Nell’intervento di Ratisbona, apre ricordando come sia necessario, in ambito universitario, lavorare “nel tutto dell’unica ragione con le sue varie dimensioni”. Questa comune responsabilità al retto uso della ragione ricorda da vicino ciò che viene posto in luce in un passaggio del discorso alla Sapienza: la socratica unità di bello, bene e vero, a cui la mente umana aspira e per cui anche il Papa deve aiutare a mantener desta la sensibilità.

L’università ha quindi un compito ad un tempo arduo ed altissimo, per raggiungere il quale è necessario sapersi porre in ascolto di tutte le istanze, trattenendo poi ciò che è buono.

Fede e ragione significa, in prima battuta, capire che rapporto sussiste tra teologia e filosofia. Riprendendo i contenuti dell’enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II, nonché le linee principali del proprio lavoro teologico, nell’allocuzione alla Sapienza Benedetto XVI le definisce una “coppia di gemelli”: tra loro non ci deve essere né distacco, né confusione. In analogia con le due nature, umana e divina, del Verbo incarnato, già il Concilio di Calcedonia aveva messo in luce la specificità di ognuna di quelle, e così filosofia e teologia, operando entrambe secondo ragione, possono aiutarsi e chiarificarsi reciprocamente.

Il discorso alla Sapienza sviluppa quell’allargamento degli orizzonti della razionalità auspicato nel discorso di Ratisbona: è questo l’unico modo per poter affrontare le sfide del presente e del futuro. Occorre imparare dai primi secoli del cristianesimo e dall’età medievale, quando filosofia e teologia vivevano in un rapporto fecondo: in età contemporanea, dobbiamo noi per primi permettere incontri di questo tipo.

Il legame dell’intelletto e dell’amore, come ricorda Benedetto XVI nel discorso di Parigi, è quel rapporto che nasce direttamente dallo spirito di Cristo, dov’è il quale c’è libertà (cfr 2Cor 3,17). Esso è un legame di gran lunga superiore a quello della lettera, della legge: è un legame che cattura le dimensioni essenziali dell’uomo, e che chiama quest’ultimo a scegliere tra l’arbitrio più totale, che sovente conduce al peccato, e la vera libertà che può trovare in Cristo.

Certo, la tensione interna a questa scelta è grande, e accompagna da sempre anche le decisioni più semplici e banali di ciascuno. Non era sconosciuta neanche ai monaci di cui parla il Pontefice, che accordando (nel senso musicale del termine) la loro anima e la loro mente alla volontà di Dio espressa nella Parola, hanno plasmato la cultura occidentale. E questa tensione, non va dimenticato, è un forte antidoto contro le degenerazioni e le false libertà prospettate dall’arbitrio soggettivo da una parte e dal fondamentalismo dall’altra.

I sei temi fin qui brevemente menzionati (centralità del Logos, ricerca della verità, radici dell’Europa, ruolo dell’università, rapporto filosofia-teologia e tensione tra legame dell’intelletto-amore e libertà) rendono evidente questa affermazione: il rapporto fede-ragione ha avuto e ha tuttora un ruolo costitutivo per il cristianesimo. Il Papa ne parla con grande chiarezza in tutti e tre i discorsi, ma val la pena soffermarsi per un istante sull’esposizione del tema offerta a Ratisbona. In quell’occasione, Benedetto XVI illustra tre “onde” del processo di de-ellenizzazione (che mirerebbe a sfrondare il cristianesimo della sua componente greca), che si sono succedute nella storia del pensiero: la Riforma protestante, la teologia liberale del XIX e XX secolo e, infine, l’attuale tesi secondo cui l’incontro tra cristianesimo ed ellenismo costituisce una prima inculturazione, che non dovrebbe influenzare il modo in cui viene annunciato il Vangelo a culture diverse dalla nostra. Questa tesi, a parere del Pontefice, è “sbagliata, grossolana ed imprecisa”, poiché il Nuovo Testamento è scritto in lingua greca e quindi porta in se stesso lo spirito greco (derivato dall’ultima fase culturale dell’Antico Testamento).

Il rapporto fede-ragione, allora, costituisce davvero una scelta primigenia e fondamentale del cristianesimo, che non può essere accantonata nel confronto con le altre culture. Certo, questo non significa dover integrare ogni singola scelta scaturita dal fecondo incontro tra filosofia greca e fede cristiana. Va detto, poi, che la stessa ragione moderna contiene in se stessa un elemento platonico che, in qualche modo, riguarda un certo tipo di fede, e cioè l’accettazione della struttura razionale del mondo materiale oggetto della analisi delle scienze. Non si tratta, ovviamente, di una fede che possa venir posta sullo stesso piano di quella nel Dio della Rivelazione cristiana, ma resta comunque un tratto peculiare, sottolineato fra l’altro da molteplici scienziati, e foriero di importantissime implicazioni sulla visione della realtà.

A questo punto potrebbe sorgere una domanda: in che modo l’uomo, con la sua fede e la sua ragione, può arrivare ad una, seppur mai completa, conoscenza di Dio? Come comunicherà con un essere infinitamente più grande di lui, che vuole parlare sia alla mente che al cuore dell’uomo? La risposta è: tramite l’analogia. C’è analogia fra l’infinito amore di Dio per noi e quello, instabile e incostante, di noi per Lui e di ogni persona per il prossimo. C’è analogia tra la ragione di Dio, che tutto conosce poiché tutto ha creato, e la nostra ragione, che a fatica riesce a scorgere barlumi di verità.

Analogia vuol dire saper cogliere piccole somiglianze in un mare di grandi differenze. Ciò significa che non dobbiamo, né possiamo pensare ad un rapporto quasi paritetico tra la ragione di Dio e la nostra; ma neanche dobbiamo, né possiamo pensare ad una distanza assolutamente incolmabile. Del resto, il fatto che Dio sia un padre buono che ci ama è una verità per la teologia e un elemento da tenere in grande considerazione per ogni filosofia che voglia porsi in un dialogo costruttivo con la fede cristiana. Grazie all’analogia tra le due ragioni in gioco, il Logos può essere accolto dall’uomo, da ciascun uomo, come risposta a quella domanda di verità che gli è costitutiva. Il logos diventa perciò apologia, la ragione della speranza diventa risposta grazie all’universalità della ratio umana e della ratio di Dio. In questo modo, l’intelligenza dà un assenso razionale, ponderato e vagliato da categorie filosofiche, teologiche e scientifiche, a ciò cui il cuore “tende” con moto spontaneo. Tutta la persona, senza distinzioni, anela a Dio e si sente chiamata a condividere, pur nella limitatezza delle capacità umane, la bellezza, l’intelligibilità e la finalità di tutto il creato.

Torna di fondamentale importanza, perciò, disporre l’anima e la mente a quell’escatologismo esistenziale che ha guidato non solo i monaci, ma generazioni di cristiani tesi alla ricerca e alla contemplazione di Dio, una ricerca che ha permesso loro, mentre cercavano Dio, di costruire quel meraviglioso edificio che è la cultura europea, un edificio al quale anche noi siamo chiamati tutt’oggi a dare il nostro contributo.