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Fisica e metafisica: riflessioni su un rapporto necessario

Novembre 2008
Giacomo Foglietta
Redazione Nuova Civiltà delle Macchine, Forlì

La Scuola Estiva di Filosofia della Fisica tenutasi a Cesena dal 15 al 20 settembre 2008, è stata per me l’occasione per riflettere attorno ad un tema vasto e e in certo modo problematico, quello fra Fisica e Metafisica. Problematico perché, innanzitutto, è difficile inquadrare esattamente il nucleo della questione, in quanto il termine “metafisica” può assumere molteplici significati, ognuno dei quali connesso, in generale, a ciò che potremmo definire “la ricerca dei princìpi”. Di ciò era perfettamente consapevole Etienne Gilson, che nella prefazione a Costanti filosofiche dell’essere, scrive: «I metafisici stessi ne hanno sempre avuto coscienza e più di uno ha invidiato, a un certo punto, la felicità di uno scienziato che, in quale che sia il suo ambito, non smette mai di apprendere sempre di più sul suo oggetto, mentre il progresso del metafisico consiste piuttosto nel riconoscere che i princìpi, verso i quali risale a partire dalla scienza, sprofondano progressivamente ai suoi occhi in una sorta di nebbia come se, differentemente dai progressi delle scienze della natura, una sorta di non sapere, o di nescienza, fosse in metafisica il sapere sommo. La ricerca dei princìpi getta allora uno sguardo d’invidia sulla ricerca che dai princìpi si sviluppa; e prova la tentazione di concepire la conoscenza dei princìpi sul modello della scienza che essi generano, e da questo desiderio nasce una qualunque delle metafisiche che altro non sono che un’estrapolazione dell’ultima scienza positiva costituita nella chiara visione dei suoi princìpi e dei suoi mezzi particolari. Così nascono le metafisiche-matematiche, o le fisico-metafisiche, seguite dalle metafisiche della vita, dell’uomo e dell’essere sociale. Tutte, anche le più recenti, tendono a ricondurre la scienza dei princìpi a ciò che dovrebbe essere per giustificare la scienza di uno dei particolari modi di essere» (E. Gilson, Costanti filosofiche dell’essere, Massimo, Milano 1993, p. 18).

In effetti, dopo aver ascoltato i vari interventi tenuti alla Scuola, mi pare si possa concludere che il rapporto tra scienze fisiche e metafisica debba costantemente confrontarsi con ciò di cui parla Gilson, la necessità ed insieme il rischio di riportare la scienza, in particolare la fisica, al proprio oggetto immediato, quella realtà che tutti vediamo ma che la scienza ci dice essere, per certi versi, profondamente diversa da come la vediamo. Questo, a sua volta, implica riconoscere i limiti ermeneutici della descrizione scientifica del mondo. Tuttavia – ed è il dato veramente interessante – la riuscita della suddetta operazione non è per nulla scontata, proprio perché, come nota Gilson, la ricerca dei princìpi non deve trasformarsi nell’estensione del metodo scientifico oltre i propri confini, assecondando la tentazione a formalizzare propria della ricerca teorica, poiché ciò rischia di spostare all’infinito i termini del problema; ma, nel mentre si prende atto di tale necessità, parallelamente sembra aprirsi un vuoto sulla possibilità stessa di parlare dei princìpi primi della scienza al di fuori dello stesso ambito scientifico. È per l'appunto in questo crocevia tra fisica e metafisica che si situa gran parte della riflessione filosofica contemporanea, sia epistemologica che fenomenologico-esistenziale. Naturalmente, alla creazione di questo scenario ha contribuito in maniera considerevole la progressiva matematizzazione dell’oggetto fisico, che è andata via via sviluppandosi nel corso del ‘900, allontanando gradualmente la visione scientifica del mondo da quella dell’esperienza quotidiana. Ciononostante, nessuno può dubitare che le moderne conquiste della fisica teorica, in particolare della meccanica quantistica, abbiano portato un considerevole aumento nella conoscenza della realtà, sarebbe a dire su come la realtà “funziona”, e non solo al livello microscopico. Ed ecco, allora, dove si colloca l’inghippo: la descrizione del mondo fattaci dalla scienza negli ultimi cento anni, pur allontanandosi dal senso comune, ha fornito una sempre più esatta comprensione della natura nei suoi meccanismi fisici, alimentando la tentazione, da sempre presente, di eleggere tali meccanismi a verità assolute. Parallelamente, però, a nessuno è sfuggito che quella descrizione scientifica della realtà andava progressivamente distanziandosi da ciò che si pensava il mondo dovesse essere, cioè andava distanziandosi dalla comprensione del mondo in senso metafisico. Ed è in un simile contesto che acquista rilevanza l’osservazione fatta da Gilson sul significato della ricerca dei princìpi. Infatti, questa è da sempre stata ricerca dei princìpi primi dell’essere, proprio quell’essere che però la scienza non può cogliere se non quantitativamente e che, proprio per questo, appare il solo “vero essere”. Non stupiscono quindi i tentativi in senso platonico di costruire delle metafisiche che inquadrino le conquiste scientifiche in un impianto teorico (ma non teoretico!) autosufficiente, dai cui princìpi primi discendano le regole a cui le conquiste stesse si adattano. Rimane fermo, però, che l’essere di cui parla la scienza è lo stesso essere di cui parla la metafisica, e allora non sembra possibile ignorare che la descrizione scientifica del mondo non soddisfa quel bisogno di comprensione della realtà che muove da una spinta originaria, da una domanda che è insieme scientifica ed esistenziale: “il mondo cos’è?”.

Posto di fronte a questo interrogativo, un filosofo della scienza come Quine, di impostazione fortemente analitica, propose che all’interno del contesto scientifico ogni istanza ontologica dovesse essere ridotta al seguente assunto: “l’ontologia, nel contesto di una teoria scientifica, parla di ciò che le teorie dicono che c’è”. Ovvero, per dirla con le parole del grande fisico e matematico irlandese John Stewart Bell, ciò che è “be-able”, quegli oggetti che una teoria postula come fisicamente reali. I “be-able” di Bell altro non sarebbero che gli oggetti della fisica classica, quantità fisiche locali assegnate ad una regione spazio-temporale, che godono della fondamentale proprietà di adattarsi ai sistemi di misura. Anche se questa interpretazione dell’ontologia in fisica può sembrare in qualche modo ingenua e scontata, ha però il grande pregio di riconoscere un fatto molto importante: il mondo che la fisica conosce ed indaga è “già dato” all’esperienza nella sua forma semplice di insieme di oggetti macroscopici e di regolarità che ne fissano i rapporti, ed è a questo mondo dell’esperienza quotidiana che la fisica riconosce il primato ontologico rispetto alla successiva modellizzazione matematica.

Un po’ come dire che quando la scienza si interroga sul senso profondo della propria ricerca, non può fare altro che ritornare alla “superficie” del processo gnoseologico, all’esperienza del mondo nella sua immediatezza fenomenologica. È un tema assai importante, che riprenderemo tra poco. Prima però c’è da notare che l’introduzione sulla scena della meccanica quantistica ha rimescolato le carte nel rapporto tra ontologia e descrizione scientifica del mondo, e lo ha fatto in una direzione che sembra assegnare al formalismo matematico un valore metafisico. Infatti, l’entità fondamentale della meccanica quantistica è la cosiddetta “funzione d’onda” (di Schrödinger), la quale fornisce una descrizione probabilistica del comportamento di una particella. Ma, per l’appunto, si tratta di un oggetto puramente matematico, che non ha alcun riscontro nella realtà, anche se è l’elemento base della descrizione del comportamento del mondo quantistico. Quindi, la funzione d’onda è tutta l’ontologia che ci è concessa in meccanica quantistica, nel senso che non esiste un corrispondente oggetto fisico reale immediatamente esperibile dai sensi. L’unica descrizione possibile del mondo quantistico è quella matematica (probabilistica), la quale fornisce un’immagine di tale mondo perfettamente in accordo con i dati sperimentali. Non si tratta, però, di un’immagine del mondo visibile, macroscopico, che tuttavia sussiste ed è, in un certo senso, un’approssimazione del mondo quantistico. Proprio per questo motivo, dal punto di vista scientifico non è così semplice individuare un confine di separazione tra mondo microscopico e macroscopico. Ciononostante, volendo applicare un sano realismo scientifico, bisognerebbe concludere, partecipando al monito di Wittgenstein, che dell’ontologia del mondo microscopico, così come della sfera metafisica, “non si può parlare”. E, quindi, bisogna accettare il dato di fatto che la meccanica quantistica non descrive la realtà che vediamo, anche se può descrivere in modo esatto il suo comportamento.

Capiamo ora meglio il senso delle affermazioni di Quine e Bell i quali, ben consapevoli dei rischi insiti in una definizione di ontologia scientifica che non tenga conto dei dati sperimentali, propongono di attenersi a quello che una teoria postula come reale in senso puramente descrittivo. Ma, così facendo, essi non sfuggono al paradosso insito nella definizione stessa quando viene applicata al mondo microscopico, poiché, in effetti, quello che la meccanica quantistica dice che c’è non fa parte, secondo il realismo scientifico, di quello che c’è. Si ripropone, allora, il precedente interrogativo, che si potrebbe così riformulare: “quello che c’è, cos’è?”, con ciò intendendo il significato ontologico reale di quello di cui una teoria scientifica parla, o, per dirla in altri termini, del suo “oggetto intenzionale”.

Ed ecco che sulla scena della contesa irrompe prepotentemente il tema fenomenologico, ovvero il problema del ruolo della percezione nella costruzione del mondo esterno. Senza voler entrare nell’intrico della questione, basterà fare qui alcune osservazioni. Innanzitutto, c’è da dire che il punto di vista fenomenologico sul mondo si pone di fronte al problema del realismo in termini differenti rispetto al punto di vista scientifico. Un primo approccio condiviso è quello che tende a ricondurre la realtà all’oggettività, cioè al contenuto intenzionale dell’atto percettivo. Secondo questa impostazione di base esistono vari gradi di realtà, che vanno dagli oggetti mentali, che pure vengono percepiti come ‘esterni’ al soggetto, alle vere e proprie esperienze empiriche. Si tratta di un atteggiamento, se si vuole naïve, che però serve ad inquadrare il nocciolo del problema: in che termini è possibile parlare di realismo rimanendo nell’ambito dell’esperienza quotidiana? Anche in questo contesto, infatti, si danno miriadi di esperienze differenti, ognuna delle quali può rivendicare un proprio grado di oggettività. Due le risposte possibili. Da un lato c’è chi afferma che il pensiero razionale debba essere l’unico giudice dell’esperienza e che, quindi, ogni dichiarazione di realismo vada fondata criticamente. Dall’altro lato c’è chi sostiene, invece, che tutto ciò che è vissuto in modo immediato è tanto reale quanto la realtà fisica. L’unica oggettività possibile è la stessa percezione presa nella sua immediatezza, nella sua unità inscindibile di soggetto ed oggetto. Se la prima posizione corrisponde, più o meno, al realismo scientifico di cui si è detto, la seconda si rifà, in qualche modo, al cogito cartesiano, al primato dell’idea sull’esperienza empirica. In generale, quindi, anche all’interno del punto di vista fenomenologico emerge un’opposizione fra descrizione “inferita” ed “immediata” del mondo, che di nuovo consegna il problema dell’essere all’ambito della metafisica. È curioso notare come le due descrizioni del mondo che sembrano collocarsi “agli antipodi”, quella della meccanica quantistica e quella fenomenologica, abbiano però un cruciale punto di contatto. Agli antipodi perché l’una, come abbiamo visto, descrive il mondo attraverso un ente matematico, la funzione d’onda, che non ha riscontro empirico; mentre l’altra fa dell’esperienza immediata del mondo un fondamentale criterio di verità. Tuttavia, a ben guardare, entrambe sono costrette a mettere tra parentesi l’interrogativo sullo statuto ontologico della realtà, cioè la domanda metafisica sull’essere del mondo. Di nuovo, la meccanica quantistica perché parla di oggetti “immaginari”, che però descrivono esattamente il comportamento del mondo macroscopico; la fenomenologia perché, rimettendosi alla originarietà dell’atto intenzionale, identifica, in un certo senso, realtà e percezione. Ad entrambi queste descrizioni del mondo rimane, come dicevamo sopra, “quello che c’è”, nel senso che entrambe incontrano il limite della difformità tra il proprio approccio alla realtà e la necessità di fondare tale approccio su un criterio che restituisca alla realtà stessa la pienezza ontologica che appare possedere.

La fisica, per parte sua, ha in qualche modo cercato di recuperare questa pienezza attribuendola al concetto di legge naturale. In un famoso articolo del 1959, dal titolo L’irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali, il premio Nobel per la fisica Eugene Wigner si chiedeva perché il linguaggio matematico fosse così “miracolosamente” appropriato per descrivere la realtà fisica. In altri termini, interrogandosi sulla effettiva ‘naturalità’ delle leggi di natura, Wigner manifestava il disagio connesso ad una fondamentale presa di coscienza in quanto scienziato: il fatto che il mondo possa essere descritto in termini matematici non sarà mai una conferma definitiva che la realtà sia intrinsecamente matematica. E tuttavia, l’esistenza della regolarità e dell’ordine ci comunica una proprietà “ fondamentale”della realtà, l’unica che ci permette di decifrarne l’apparenza. Lo stesso Einstein credeva fermamente che la regolarità presupponesse un alto grado d’ordine insito nella natura. Ed infatti, coerentemente con la sua convinzione, aveva un’idea talmente nobile di quell’ordine da elevarlo ad Assoluto, avvicinandosi in questo modo al Deus sive natura spinoziano, come egli stesso ebbe a scrivere: «Credo nel Dio di Spinoza che si rivela nell'armonia di tutto ciò che esiste, ma non in un Dio che si occupa del destino e delle azioni degli esseri umani» (A. Einstein, Pensieri di un uomo curioso, Mondadori, Milano 1997, p. 110). Si tratta di un chiarissimo esempio di quella fisico-metafisica a cui allude Gilson, cioè del tentativo di attribuire un valore fondante ad un linguaggio operativo come quello matematico, che, per la sua stessa natura assiomatica, è sempre suscettibile all’assunzione del ruolo di metafisica.

Per concludere, il tema del rapporto tra fisica e metafisica rimane un tema complesso, al quale, tuttavia, è difficile non assegnare una posizione centrale all’interno della riflessione epistemologica del nostro secolo. Parallelamente, però, tale tema affonda le proprie radici in una più antica e fondamentale opposizione: quella tra descrizione quantitativa e qualitativa della realtà, che percorre tutta la storia della cultura occidentale, a cominciare dai tentativi fatti nel Rinascimento per inquadrare la molteplicità delle discipline in una visione olistica, fino a giungere alle moderne aspirazioni circa una teoria “del tutto”. Ma, forse, l’importanza del richiamo alla metafisica nel rapporto con le scienze fisiche acquista senso proprio alla luce del significato originario del termine. Quella ricerca dei fondamenti della realtà che – come anche la riflessione sui fondamenti della matematica ci ha ampiamente mostrato – si svela proprio mentre sfugge ad ogni tentativo di riduzione, manifestando quel carattere trascendente che faceva esclamare misticamente ad Heidegger: «l’essere si sottrae mentre si scopre nell’ente».