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Perché abbiamo bisogno di giovani matematici

Luglio 2007
Lucia Alessandrini
Ordinario di Geometria - Università degli Studi di Parma

In primavera solitamente le Università propongono delle “giornate a porte aperte”, dei “saloni dello studente”, in cui vengono illustrate le prospettive culturali e lavorative che stanno dinnanzi ai giovani che si iscriveranno, e vengono messi in evidenza in particolare quei corsi di studio che portano a professioni molto richieste dalla società. La matematica, quanto è richiesta? Perché abbiamo bisogno di giovani matematici? Qui vorremmo provare a rispondere a questa domanda dal punto di vista della scelta di vita di un giovane cristiano, quindi tenendo in evidenza la prospettiva di fede.

Forse alla comunità cristiana (e alla società in genere) è più chiaro perché abbiamo bisogno di giovani medici o ricercatori in medicina: ci sono tante malattie per cui non esiste ancora una cura risolutiva, ci sono tante persone da curare… E forse è anche chiaro perché abbiamo bisogno di giovani sacerdoti e di teologi: chi porterà l’annuncio del Vangelo alle nuove generazioni, chi servirà la Chiesa del futuro?

Sono due esempi per dire come talora alcune strade appaiano più in evidenza agli occhi dei giovani che si pongono la domanda: che ne farò della mia vita? Che professione vorrei intraprendere? Per cosa vale la pena di spendere anni di studio? Questi giovani sono tanti, anzi ci auguriamo che a tutti i giovani venga presentata l’urgenza delle domande sulla propria vita. E tante sono le risposte che hanno dato grandi educatori, anche molto caratterizzate: don Lorenzo Milani sosteneva che, nella sua epoca, si poteva servire la famiglia umana in due modi: o nella scuola, o nel sindacato.

Per un giovane convinto che affronta dapprima una laurea in matematica, e poi il proseguimento degli studi, al fine di fare, da grande, il matematico (qui intendiamo colui che farà ricerca in matematica, non l’insegnante di matematica), la motivazione di fondo di solito è questa: la matematica mi piace. Mi piace studiarla, capirla, pensarci, provare a risolvere dei problemi autonomamente.

In effetti, chi non sente questo fascino della matematica difficilmente potrà resistere sull’arduo percorso per diventare matematico. Ma è tutto? Può essere tutto qui? Val la pena, dal punto di vista di una scelta morale, anche religiosa, del proprio progetto di vita? Vorrei provare a rispondere affermativamente, portando alcune argomentazioni.

In primo luogo, la ricerca in matematica si situa nel vasto fiume di pensiero umano teso alla ricerca della verità. Non è lontana, in questo senso, dalla ricerca sulle cause di una malattia, o dalla ricerca in teologia. Mentre è lontana da una visione della vita in cui l’individuo è centrato su se stesso, per occuparsi esclusivamente della propria vita. Per quanto il matematico possa lavorare in solitudine (e in genere non è così, perché oggi si lavora soprattutto in collaborazione, o comunque in stretta relazione con la comunità matematica internazionale), sa che non lavora solo per se stesso, per soddisfare un suo piacere intellettuale, ma che la sua opera è un tassello di una grande costruzione umana (una “cattedrale”), iniziata ben prima di lui e che continuerà ben dopo di lui. E questa costruzione ha uno scopo “alto”: far progredire la conoscenza dell’umanità.

Ma abbiamo veramente bisogno di questa crescita della conoscenza matematica? Non dovrebbe essere necessario ricordare le innumerevoli applicazioni della matematica alla vita quotidiana, soprattutto quando è mediata da altre scienze. Non solo nella fisica, nella chimica, nelle scienze ingegneristiche, ma anche nelle scienze umane quasi ovunque è presente della matematica (magari sotto forma di statistiche, o di probabilità); tuttavia gran parte dei matematici si occupa principalmente delle applicazioni della matematica alla matematica stessa, magari fra un settore e l’altro (la geometria all’analisi matematica, l’algebra alla geometria, ecc.).

Dunque il lavoro del matematico risponde in pieno al bisogno umano: sia di approfondire ciò che sappiamo, sia di ampliare il raggio delle applicazioni alla vita quotidiana. Un lavoro quindi non inutile, non egocentrico, ma rivolto al bene comune; un lavoro anche difficile, come si diceva sopra, che ha bisogno di una forte motivazione di “gusto” e di “confidenza”.

E qui rientra un secondo lato della questione: abbiamo bisogno di giovani matematici anche per trasmettere il gusto per la matematica ai bambini e ai ragazzi. Insegnarla, divulgarla, farla apprezzare, motivarla… è sempre più importante. Si arriva ad iniziare un corso universitario in genere a diciannove anni, dopo tredici anni di studio della matematica: il gusto quindi è già formato, la posizione (di rifiuto, di entusiasmo, di indifferenza, di sopportazione…) è già presa. E il professore universitario potrà incidere solo sul (piccolo?) numero di coloro che non hanno già chiuso la mente alla bellezza della matematica: gli altri cercheranno di imparare quanto basta per superare l’esame. Abbiamo bisogno che la matematica sia insegnata, fin dalle scuole primarie, da “matematici nel cuore”, se non da professionisti della ricerca, insegnanti che abbiano provato a “fare matematica”, a “pensare di matematica” almeno qualche volta. Anche essi, in senso lato, fanno parte della schiera di giovani matematici di cui la società di oggi e di domani ha bisogno.