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Embrioni “umani”: e se ascoltassimo la ragione?

Giugno 2006
Giuseppe Tanzella-Nitti
ordinario di Teologia fondamentale - Pontificia Università della Santa Croce

Il visitatore di questo Portale di Documentazione Interdisciplinare avrà già notato che i temi legati alla bioetica, pur presenti in alcune sezioni del sito, non rappresentano il principale terreno di dibattito scelto per informare ed orientare sui rapporti fra scienza, filosofia e teologia. Le molteplici fonti di documentazione in proposito, già disponibili sul web, dal Portale di Bioetica all'Associazione Scienza e Vita, ci hanno suggerito in passato di mantenere questa impostazione. La bioetica suscita interrogativi complessi, nei quali la chiarezza su pochi principi di base deve spesso armonizzarsi con le diverse circostanze che ogni caso specifico, ogni esistenza individuale, reca con sé. La differenza fra eutanasia e accanimento terapeutico, per fare solo un esempio, non è quasi mai definibile in base a principi astratti, ma richiede sempre l'attenta analisi delle circostanze del paziente, delle terapie ragionevolmente a disposizione in quello specifico contesto di luogo e di tempo, della risposta del paziente alle terapie già applicate. Quanto però avvenuto lo scorso giovedì 15 giugno a Strasburgo rappresenta un evento che impone un commento. Lo impone per diversi motivi: per lo strappo a livello civile e culturale che comporta, per le conseguenze che ne verranno, per il grave ulteriore effetto di confermare un processo che negli ultimi anni ha progressivamente staccato la vita umana da quanto più la caratterizza, ovvero dal suo essere, appunto, umana.

La decisione di includere nel Settimo Programma Quadro della Unione Europea i finanziamenti a ricerche che utilizzino in modo distruttivo embrioni umani, con un'autorità che porta la firma della maggiore Organizzazione di governo politico del Primo Continente, ci fa riflettere non poco. Ci fa riflettere ancora una volta su questo aggettivo, “umano”, che non possiamo non accostare a questi embrioni, sui quali a poter adesso sperimentare non saranno più dei ricercatori impazienti, disposti a ritagliarsi spazi nelle pieghe delle leggi, ma interi eserciti di biotecnologi. In centinaia di laboratori, pubblici e privati, il denaro dei contribuenti consentirà di sviluppare tecniche che porteranno alle stelle la valutazione di brevetti, da tempo depositati, per i quali la legislazione non consentiva ancora un largo impiego. La motivazione sarà ancora quella già ascoltata: far progredire la ricerca, aumentare le nostre conoscenze, trovare farmaci e terapie che aumenteranno al qualità della nostra vita… Ogni ricercatore serio sa bene che queste ragioni non reggono: la ricerca da cellule staminali tratte da embrioni umani non ha portato finora a nessun risultato positivo, a differenza delle molteplici applicazioni dovute a cellule staminali da tessuti non embrionali e da adulti. E ogni ricercatore sa anche bene che il progresso delle nostre ricerche di genetica e di embriologia non dipende affatto dalla distruzione di questi embrioni, umani appunto, i cui processi di manipolazione sono orientati esclusivamente alla produzione di tecniche commerciali.

Molto si è scritto, negli ultimi anni, a favore e contro l'impiego di questi embrioni. Il lettore potrebbe avere in proposito un comprensibile, sebbene non giustificato, senso di rigetto. In fondo un embrione umano è così piccolo e lontano dalla esperienza quotidiana che farsi un'opinione sulla liceità o meno del suo impiego in esperimenti di alta biotecnologia può sembrare qualcosa che non influisca minimamente sul nostro vissuto immediato. Eppure, è proprio quell'aggettivo umano che ci chiede di fermarci un momento a riflettere, tentando di ascoltare la ragione.

Ogni cellula che si riproduce appartiene inequivocabilmente a quel complesso e insieme meraviglioso fenomeno che chiamiamo vita, un fenomeno che il nostro pianeta ospita da almeno 3.8 miliardi di anni. Per quanto limitate ed imprecise siano le definizioni che di esso possiamo dare (è proprio necessario offrire una “definizione” di vita e non, piuttosto, limitarsi ad individuare i criteri che ci consentono di riconoscerla?), sappiamo con certezza che tale fenomeno non è anonimo, ma porta con sé sempre un nome, quello della specie biologica cui la vita appartiene. Può essere un semplice batterio unicellulare o un mammifero superiore, un fiore dei più comuni o un esemplare di una rarissima orchidea. Ogni vita è vita di una specie biologica: non esiste la vita in astratto. Di fronte a degli embrioni umani nei quali il processo di riproduzione ed accrescimento cellulare non è stato irreversibilmente interrotto, qualunque sia la loro provenienza, dobbiamo riconoscere di essere in presenza di embrioni appartenenti ad una precisa specie biologica: si chiama homo sapiens sapiens , relativamente recente sul panorama del pianeta, ma che ha fatto molta strada. Questi embrioni siamo noi. Ciascuno di noi lo è stato. Se il processo di riproduzione dell'embrione umano che ha originato me che scrivo o voi che leggete fosse stato interrotto, come lo sarà quello di milioni di embrioni umani nei prossimi anni (si pensi all'ingente quantità di embrioni umani distrutti in Inghilterra lo scorso anno in seguito ad una riorganizzazione dei laboratori), noi non saremmo qui. Non credo che dal punto di vista etico o filosofico sia necessario addentrarsi in complesse questioni se un embrione umano abbia un'anima, sia una persona, abbia una sua capacità di relazione con l'ambiente, sia un uomo in potenza oppure no, o cosa voglia dire avere tale capacità in potenza. Si tratta in fondo di questioni che alla biologia, oggettivamente intesa, non interessano (potrebbero interessare al biologo, ma non è questo il punto che vogliamo adesso mettere in luce). La biologia sa soltanto una cosa: questi embrioni appartengono ad una precisa specie biologica che si qualifica con un aggettivo, da laboratorio, specie umana. Non sono embrioni di ratto, né di pollo, né colture batteriche di streptococchi: sono embrioni di uomo.

Come si è arrivati a questo punto? Come ha potuto la ragione non far sentire più la sua voce? Possono bastare la esigua dimensione dell'oggetto/soggetto in gioco o l'estrema lontananza dalla vita comune degli scenari dove questi vengono manipolati, a rendere il cittadino medio insensibile a questa situazione? La motivazione —spesso addotta per giustificare la sperimentazione su embrioni umani— che si tratta di materiale biologico già votato alla distruzione, non risolve affatto il problema, ma semplicemente lo sposta: la ragione è allora chiamata ad esprimere il suo giudizio sul perché abbiamo prodotto questi esseri umani, ben sapendo che il loro pieno e corretto sviluppo non sarebbe stato più possibile. La domanda non viene dunque elusa, ma solo spostata di ambito.

Mi permetto di suggerire quale sia, a mio avviso, il motivo di fondo che ha determinato questo stato di cose, e che oggi porta a chiederci: come siamo arrivati a questa situazione così estrema? Riteniamo che la ragione sia stata quella di aver progressivamente eclissato nella vita umana tutto ciò che è umano. Il nascere e il morire, l'amare e il soffrire, ma anche donare la propria capacità di essere padre e madre al proprio coniuge, generare la vita ed accoglierla. Tutte queste azioni avevano con sé sempre l'aggettivo “umano”, perso il quale non sorprende più che adesso non siamo capaci di riconoscerlo come qualificativo per un piccolo embrione. Madre Teresa cominciò la sua attività raccogliendo per le strade di Calcutta relitti umani, di qualsiasi religione e cultura, razza ed età, semplicemente per aiutarli a morire in modo umano, perché avessero accanto qualcuno che facesse loro sentire tutto lo straordinario valore di questo aggettivo. Solo dei gesti fermi e controcorrente, eroici forse come quelli protratti per le strade di Calcutta, potranno aiutarci a recuperare i significati ormai persi. E potrebbero esserlo i gesti di tutti quei biologi ed operatori biotecnologici, di qualunque convinzione e credo religioso, che rifiutandosi decisamente di manipolare embrioni di uomo ci aiutino a riscoprire il valore di un aggettivo che ci qualifica e che merita il nostro più alto rispetto.

21 giugno 2006