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Dominare il dominio

Febbraio 2006
Sergio Rondinara
docente di Filosofia della scienza, Universita Pontificia Salesiana ed Etica ambientale, Pontificia Università Gregoriana

Da cinque anni siamo entrati nel nuovo millennio. In questo passaggio ricco di significati abbiamo portato con noi nuove speranze e vecchi timori. La nostra epoca, infatti, tra problemi vecchi e nuovi, ne ha uno che – per così dire – fa da «contenitore» a molti altri, è la questione ambientale. In essa trovano spazio soprattutto problemi sociali, ma anche scientifici, economici e filosofici.

Ciò che caratterizza l'oggi di noi uomini e donne delle società industriali rispetto al passato è lo sperimentare la capacità di saper gestire un numero sempre maggiore di eventi naturali e globalmente di sentirci sempre più padroni della natura, sempre più capaci di esercitare su di essa un controllo sistematico, un vero e proprio dominio.

Questa nostra tendenza al dominio si esprime non soltanto nell'acquisizione, attraverso l'attività scientifica, di una conoscenza sempre più ampia degli intimi segreti della natura stessa, ma soprattutto nell'intervenire con forza sull'habitat naturale, il quale sospinto oltre le proprie capacità di carico ne risulta seriamente intaccato.

Nell'attuale quadro culturale di una diffusa concezione funzionalista e utilitarista priva di un sostanziale riferimento al concetto di creazione, la natura è diventata sempre più un oggetto nelle nostre mani, che la scienza esplora e la tecnologia sottomette. In questo modo, nelle culture delle società industriali, la natura ha perso sempre più il suo riferimento a Dio creatore, e con esso ha anche perso la sua autonomia in quelle relazioni che la legano alla persona umana, e conseguentemente la pienezza del proprio significato. Assistiamo a quel fenomeno che va sotto il nome di disumanizzazione della natura in cui vengono prima alterate e poi perdute quelle relazioni originarie che legavano costitutivamente la persona umana alla natura.

Allo stesso tempo, vivendo sempre più in un ambiente artificiale, ci scopriamo ogni giorno più estranei dal contesto naturale, e più impoveriti nella nostra identità: siamo soggetti ad una denaturalizzazione della persona.

Se nel recente passato – soprattutto nel periodo della società agricola e contadina – il rapporto persona-natura è stato un rapporto di collaborazione, oggi non possiamo non costatare come esso abbia assunto una configurazione critica, e da più parti è giustamente sentito come un problema etico.

L'agire umano si presenta infatti come causa dei problemi ambientali e allo stesso tempo come luogo e mezzo necessario per la loro soluzione. Ma la crisi ambientale rimanda ad una crisi più profonda che investe la persona umana nella sua interezza, essa è crisi antropologica. La crisi ambientale è la spia, il campanello d'allarme, di una profonda crisi antropologica in cui l'autocomprensione secolaristica dell'uomo contemporaneo produce una cultura del potere, del dominio sulla realtà naturale, ed esalta l'idea di un progresso guidato totalmente dalla ragione tecnico-economica.

Questa crisi è figlia di una precisa concezione dell'uomo moderno che nella ricerca della sua indipendenza si è autonominato padrone assoluto della natura e del proprio destino.

È sotto gli occhi di tutti noi come l'attuale crisi del rapporto uomo-natura evidenzia l'incapacità dell'uomo contemporaneo a gestire allo stesso tempo la propria creatività e la valorizzazione della natura. Aspetti questi che nell'attuale situazione culturale sono tra loro in contrapposizione, in quanto che, se si lascia libero spazio alla creatività umana è la natura a subirne le conseguenze – basti pensare quale impatto ambientale ha causato lo sviluppo tecnologico –, e se si vuole preservare ad ogni costo la natura dalle opere dell'uomo è la creatività di quest'ultimo a venire mortificata.

Valorizzazione della natura e creatività umana risultano oggi tra loro antagoniste poiché molto spesso la creatività umana non è informata da valori forti, ma è condizionata e a volte persino guidata da un modello di sviluppo socio-economico con un forte deficit antropologico: non centrato, cioè, sulla persona umana e su quei valori di cui essa è portatrice, bensì sul profitto.

Ma l'aspetto etico relativo all'esplicazione della nostra creatività è solo una componente di un problema più articolato e complesso quale è quello del rapporto tra persona umana e natura.

Un tale rapporto rinnovato ed adeguato all'oggi – mi sembra – passi necessariamente attraverso il recupero del significato delle relazioni che legano ciascuno di noi alla natura stessa. Ma come è possibile ciò? Ed in particolare, come possiamo fondare un corretto ethos ecologico?

Questi interrogativi sono una sfida per l'uomo contemporaneo che dopo aver allontanato – ma non eliminato – lo spettro di un olocausto nucleare del genere umano per la contrapposizione dei blocchi militari dell'Est e dell'Ovest, trova ora nella crisi ambientale una nuova e ulteriore questione decisiva per il futuro dell'umanità.

Ma questi interrogativi sono un'ulteriore sfida per l'uomo di fede che nella ricerca di un adeguato e rinnovato rapporto con la natura è chiamato a far diventare cultura anche quella componente del messaggio rivelato che riguarda il nostro rapporto con il cosmo.

Oggi, come mai nel passato, la questione ambientale si presenta come un locus privilegiato dove la fede cristiana è direttamente interpellata e dove siamo invitati a dare le ragioni della nostra spe ranza (c f. 1 Pt 3,15).

In tale contesto la fede è interpellata non solo per una risposta apologetica a chi ha accusato il cristianesimo di essere la principale cau sa dell'attuale crisi ecologica; la fede è qui chiamata in causa poiché il pieno recupero semantico delle relazioni tra persona e natura implica per il credente il superamento di un modello bipolare persona-natura che può aver mutuato dal proprio contesto culturale per aprirsi fattivamente ad una relazione Dio-persona-natura in cui riscoprire la propria relazione con la natura alla luce della relazionalità presente nella nozione creazione.

Certamente la questione ambientale presenta sotto l'aspetto etico problematiche nuove che non sono contemplate nei sistemi etici tradizionali centrati esclusivamente suoi doveri morali che la persona umana ha nei riguardi di se stessa e dei suoi simili.

Un'etica come quella ambientale, che consideri il rapporto persona–natura, deve necessariamente considerare allo stesso tempo sia la persona umana che la natura intese come due soggetti portatori di valore, anche se con pesi diversi.

Le etiche tradizionali inoltre prendono in considerazione il rapporto tra gli uomini al momento viventi sulla Terra, mentre l'etica ambientale deve necessariamente tener presente anche i doveri che le attuali generazioni hanno nei confronti di quelle future.

Oggi giorno nella riflessione etica sul rapporto persona–natura assistiamo ad un fiorire di posizioni caratterizzate essenzialmente da due impostazioni di fondo tra loro contrapposte: l'antropocentrismo e il fisiocentrismo.

Non ci si può non domandare a questo punto dove si colloca l'etica ambientale cristiana. A volte lo si fa definendola come un'etica caratterizzata da un antropocentrismo moderato, come se la moderazione fosse la virtù dell'equidistanza tra l'antropocentrismo forte e il fisiocentrismo. Questo non soddisfa pienamente l'esigenze della ragione credente e la questione diventa: «quale antropocentrismo per l'etica ambientale cristiana?». La risposta non può essere trovata che nella peculiarità del modello antropologico, del “tipo” d'uomo, affermato dalla Rivelazione.

Questo tipo di persona umana è pers ona in Cristo, creatura nuova (c f. 2Co r 5,17). È una persona che nell'attuare il dono-di-sé diventa sempre più se stessa in quanto vive come figlio di Dio, vive in piena reciprocità con i suoi simili al punto da essere con loro «un cuore e un'anima sola» ( At 4,32), vive custodendo la terra che gli è stata affidata (Cf. Gn 2,15) e l'accompagna mediante la sua operosità verso una pienezza escatologica adveniente.

Questo non è altro che la realizzazione di quella triplice vocazione annunciata nel Genesi che contraddistingue l'essere umano sin da quando Dio lo creò: a sua immagine e somiglianza (chiamato alla comunione con Dio), nella reciprocità uomo/donna (chiamato alla comunione con gli altri esseri umani) e gli affidò la terra (chiamato alla comunione con il cosmo).

Ciò chiarisce pienamente il tipo di antropocentrismo dell'etica ambientale cristiana. Esso è un antropocentrismo cristico, che nell'esser ben lungi dalle altre forme di antropocentrismo, difficilmente può esser colto dalle attuali classificazioni fenomenologiche. È questo un modello antropologico per gran parte oggi ancora inedito nelle dinamiche economico-sociali e culturali in genere, un modello che poiché esige il passaggio da un'ottica prevalentemente individuale ad un'ottica di comunione, da un'ottica di gruppo limitato ad un'ottica di famiglia umana globale, potrà – tra le altre cose – guidarci nel necessario tentativo di dominare il nostro dominio sulla natura.