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Fede e ragione secondo Kierkegaard: comprendere di non comprendere

Luglio 2005
Maurizio Schoepflin
docente di filosofia e saggista

Inquadrare la personalità e l'opera del filosofo danese Soeren Aabye Kierkegaard (1813-1855), del quale ricorre quest'anno il centocinquantesimo anniversario della morte, che lo colse, appena quarantaduenne, l'11 novembre del 1855 a Copenaghen, non è certo impresa facile. Pensatore complesso, scrittore fecondo e multiforme, animo profondo e tormentato, Kierkegaard non si lascia ricondurre entro schemi interpretativi univoci, e anche per quanto concerne uno dei punti cruciali della sua speculazione, quello riguardante il rapporto tra fede e ragione, è bene evitare letture affrettate e semplificatorie. A questo proposito, molto utili risultano alcune considerazioni svolte dal compianto Padre Cornelio Fabro, il massimo esperto italiano della filosofia kierkegaardiana, il quale, in un'intervista del 1993, riportata nell' Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, si esprime nei termini seguenti: «In Kierkegaard, certamente, alcune espressioni, alcune frasi e formule fanno pensare ad una forma di irrazionalismo fideistico … Ma Kierkegaard, nella grande Postilla e anche nel Diario , configura il rapporto ragione-fede più o meno sullo stesso orientamento di San Tommaso. Io su questo problema ho scritto parecchie pagine, riportando con scrupolo e rigore i testi di Kierkegaard, e ne ho concluso che egli si colloca fra razionalismo e fideismo, cioè sulla linea tomistica». Quelle di Fabro sono considerazioni che fanno riflettere, perché in genere si è abituati a considerare il pensatore danese come uno dei grandi paladini dell'irriducibile opposizione tra fede e ragione e un coerente sostenitore di un irrazionalismo di marca tipicamente luterana. Continua Fabro: «Kierkegaard ha trovato una formula per esprimere il paradosso della fede: “Comprendere che non si può (né si deve) comprendere”. La ragione naturale comprende, dunque, anche se comprende che l'oggetto della fede è incomprensibile. Che Kierkegaard non sia un irrazionalista lo ammette lui stesso quando dice di essere stato educato “alla scuola dei greci”. La ragione naturale, in conclusione, rimane per Kierkegaard la prima grande introduzione alla decisione libera della fede”. Certo, quella a cui guarda Kierkegaard è una ragione che riconosce con chiarezza i propri limiti e capisce di dover lasciare il passo a qualcosa che la supera, ovvero alla fede che, sola, è in grado di rispondere all'enigma della condizione umana. È in questo contesto che si comprende la forte avversione di Kierkegaard nei confronti del panlogismo di Hegel, laddove la ragione è elevata ad Assoluto. A questo riguardo ci viene in aiuto un altro grande interprete italiano del pensiero del filosofo di Copenaghen, Luigi Pareyson, che nell'opera L'etica di Kierkegaard nella “Postilla” del 1971 afferma che Kierkegaard tentò l'impresa «di rendere l'uomo d'oggi capace di ritrovare la verità del cristianesimo; per il che era necessario adoperare un nuovo tipo di riflessione che non sacrificasse l'esistenza alla scienza, ma connettesse inseparabilmente il pensare all'esistere; e a questo scopo era necessario distruggere la filosofia del giorno, cioè la filosofia hegeliana, che negava l'esistere nel pensare, la soggettività nell'oggettività, la passione interiore nel sapere assoluto». Annota ancora Pareyson: «Infine il cristianesimo, presentandosi come verità soggettiva e sottraendosi al dominio della verità oggettiva, è una questione non speculativa, ma esistenziale, che ha a che fare non solo col pensiero, ma col pensiero congiunto con l'esistenza, e che quindi rischia di presentarsi non nella calma e imperturbata armonia della speculazione, ma nell'inquieta e drammatica realtà dell'esistenza».

Frutto di sensibilità diverse e di diverse prospettive di lettura, le interpretazioni di Fabro e di Pareyson, che a prima vista possono apparire lontane e addirittura divergenti, in realtà risultano fecondamente complementari e permettono una comprensione più profonda della concezione che Kierkegaard ebbe del rapporto tra fede e ragione. È certo che per Kierkegaard il cristianesimo non deve essere minimamente confuso con una dottrina speculativa, né è possibile dare di esso una dimostrazione di carattere filosofico: la fede è qualcosa che va ben al di là delle argomentazioni razionali e delle giustificazioni intellettuali, e dice bene Pareyson quando afferma che «la vocazione filosofica, quando la filosofia sia intesa in senso speculativo hegeliano, è direttamente opposta alla vocazione cristiana». Si può dunque affermare che l'attacco frontale portato da Kierkegaard non è contro la ragione tout court , ma contro quella tragicomica caricatura che di essa ha fatto Hegel; come, del resto, la sua critica della cristianità, lungi dall'essere una critica del cristianesimo, lo è di quella ridicolizzazione di esso che egli vedeva operata dal luteranesimo del suo tempo, ridotto a religiosità esteriore, fredda, ormai priva di ogni carica paradossale e drammatica, incapace di scuotere e di provocare l'uomo. E su ciò è perfettamente d'accordo anche Cornelio Fabro, che vede in Kierkegaard il paladino di una nuova e più autentica soggettività dell'uomo, contrapposta al soggettivismo hegeliano: secondo Fabro, l'uomo kierkegaardiano si costituisce nel rapporto concreto con Dio e con Cristo, e in ciò la sua singolarità viene autenticamente esaltata; la modernità, invece, che, a partire da Cartesio, sembra tutta protesa a sottolineare il valore del soggetto, in realtà finisce per annientarlo, come si può ben vedere ancora una volta nel sistema di Hegel, nel quale non v'è alcuno spazio per la singolarità e tutto viene risucchiato all'interno di un Assoluto onnivoro e spersonalizzante. Per altro, è ancora Fabro a menzionare la presenza di una “teologia dello scandalo” in alcuni grandi scritti kierkegaardiani, quali l' Esercizio del cristianesimo e La malattia mortale : «Lo scandalo – afferma Fabro –, per Kierkegaard, nasce nella coscienza umana e nella coscienza cristiana per l'urto di categorie opposte. La filosofia dice che la verità è la ragione, il cristianesimo dice che la verità è la fede. La filosofia dice che la salvezza viene dalla cultura, il cristianesimo dice invece che la salvezza viene dalle opere in conformità del Vangelo. Lo scandalo è il fallimento della ragione che urta contro il mistero; ma lo scandalo è una prova, una via; la fede è la decisione che salva». Uno scandalo, dunque, che non umilia la ragione, ma la presuppone, proprio perché scandalo e paradosso cristiani possano essere riconosciuti come tali, e non come mera irrazionalità. Si tratta, secondo Fabro, di una lezione che si pone in sintonia con quella dei grandi padri e maestri della tradizione, primi fra tutti Sant'Agostino e San Tommaso; di una lezione che, se non permette di sostenere che Kierkegaard era cattolico, autorizza comunque a ritenerlo almeno cattolicizzante.

A Soeren Kierkegaard stava sommamente a cuore ribadire la verità salvifica del cristianesimo, e anche la questione del rapporto tra fede e ragione deve essere letta alla luce di questa sua fondamentale preoccupazione. Se la ragione, e la filosofia come suo prodotto più raffinato, tendono a sviare l'uomo dall'assumersi la responsabilità di aderire concretamente a Cristo, allora esse sono da considerarsi inutili e addirittura nocive; ma se, al contrario, possono aiutarlo a comprendere la debolezza della sua condizione e a spingerlo verso la scelta del Vangelo, avranno avuto un ruolo, forse non decisivo, ma sicuramente positivo. Ciò che conta è diventare autentici discepoli di Cristo, senza scorciatoie e semplificazioni: «Signore Gesù Cristo! – scrive Kierkegaard nell' Esercizio del cristianesimo – Tu non sei venuto al mondo per essere servito, e quindi neppure per farti ammirare o adorare nell'ammirazione. Tu eri la via e la vita. Tu hai chiesto solo imitatori. Risvegliaci dunque se ci siamo lasciati prendere dal torpore di questa seduzione, salvaci dall'errore di volerti ammirare o adorare nell'ammirazione invece di seguirti e di assomigliare a Te».

  

 

Luglio 2005
Giuseppe Tanzella-Nitti
ordinario di Teologia fondamentale - Pontificia Università della Santa Croce

Personalità profondamente convinta delle ripercussioni sociali e umanistiche dell'impresa scientifica, Albert Einstein (1879-1955) si occupò in varie occasioni di temi morali e talvolta anche religiosi. Esistono oltre una dozzina di interventi in proposito, solitamente testi di conferenze o lettere composte per occasioni particolari, nei quali si possono ritrovare frasi divenute poi familiari anche al grande pubblico, spesso riproposte a livello di aforismi, come quella, ben nota, che “la scienza senza la religione è zoppa e che la religione senza la scienza è cieca”. Non sempre, però, tali frasi vengono contestualizzate. Permane inoltre una certa difficoltà ad imbrigliare il pensiero einsteiniano in categorie filosofiche pienamente coerenti, cosa che contribuisce ad un loro impiego frammentario, e talvolta poco pertinente. Per questo motivo abbiamo creduto utile offrire ai visitatori del Portale di Documentazione Interdisciplinare di Scienza e Fede i testi completi di due fra i principali interventi di Einstein sulla religione. Si tratta di testi complessi, ricchi di spunti, dal contenuto non sempre, a nostro avviso, condivisibile, e la cui lettura necessita qualche coordinata di riferimento.

Non mancano autori che si sono cimentati in un'analisi del pensiero religioso di Einstein. Basti ricordare il volume di Max Jammer, Einstein and Religion. Physics and Theology (Princeton: Princeton University Press, 1999) o, più sinteticamente, il contributo di Thomas Torrance, Einstein , presente nelle pagine del Dizionario di questo Portale. Il supposto panteismo o deismo di Einstein e il suo appello ad una religiosità cosmica cui si accederebbe dalla meraviglia per l'ordine e l'intelligibilità del mondo, sono divenuti anch'essi luoghi comuni, e non di rado riportati acriticamente, come lo sono gli aforismi che cercano di imbrigliarli. Da parte nostra siamo convinti che Einstein, di origine e cultura ebrea, ebbe esperienza di ciò che ragionevolmente potremmo chiamare “senso religioso”, come senso di dipendenza dall'Assoluto e percezione dei fondamenti dell'essere, sebbene non fu in grado in tematizzarlo in modo coerente, anche quando ritenne di poterlo fare. Alcuni fattori giocarono un ruolo importante nell'impedire una sintesi matura della sua nozione di Dio. In primo luogo vi giocò l'idea che la tradizione religiosa ebraico-cristiana, di cui apprezzava il ruolo sociale e il valore umano, fosse depositaria di una visione antropomorfa di Dio che egli riteneva (giustamente) incompatibile con quel logos che intravedeva nascosto nelle pieghe della comprensibilità del mondo. In secondo luogo, Einstein mostrò a nostro avviso un'eccessiva dipendenza da una interpretazione positivista dello sviluppo della religione, dalla quale non riuscì mai ad emanciparsi del tutto. Tale interpretazione coesisteva in lui con una visione kantiana dell'idea di religione, come traguardo razionale di una umanità spiritualmente matura.

Uno dei saggi che proponiamo, Religione e scienza (1930) , pubblicato nella raccolta The World as I see it , è abbastanza esplicito al riguardo e pare mostrare l'azione di entrambi i precedenti fattori. In questo scritto egli espone i principi di ciò che ha più volte chiamato «religione cosmica», una sorta di religiosità naturale che sorge dallo stupore per l'ordine e l'intelligibilità del cosmo e che ben potrebbe coniugarsi con la prospettiva di un Logos cristiano depositario del senso e della finalità della creazione, se lo stesso Einstein non avesse precluso questa strada svalutando, o probabilmente trascurando, il significato che l'immagine del Dio di Gesù Cristo ha per la consistenza razionale di un mondo creato. Analogamente a quanto affermato in un altro scritto del 1938, Principi morali e sentimenti , nel saggio Religione e scienza Einstein interpreta la religione secondo un iter alquanto positivista: nata dalla paura e dal timore degli uomini di fronte ai fenomeni naturali e dal loro sentimento di colpa, la religione conosce una successiva strutturazione sociale nelle grandi tradizioni spirituali dell'umanità ed è chiamata ad una progressiva purificazione dalla superstizione e dall'ingenuità. In questo percorso la scienza avrebbe un ruolo determinante. Il passaggio dall'Antico Testamento al Nuovo avrebbe segnato uno sviluppo da una religione “del terrore” ad una religione “morale”, sebbene ogni religione, anche quella cristiana, conterebbe miscelati in vario grado aspetti fondati sul timore e aspetti fondati sul sentimento morale. Ma a queste due fasi è chiamata a subentrare una terza, quella della religione cosmica, appunto, condivisa da tutti gli uomini che si accostano alla natura con spirito scientifico-contemplativo, rispettosa della ragione e capace di dare origine ad una moralità profonda di portata universale. I veri spiriti religiosi dell'umanità, da Francesco di Assisi a Gandhi, sarebbero in accordo, secondo Einstein, con la prospettiva della religione cosmica. Questa assume in fondo le caratteristiche della religione del razionalismo e dell'idealismo dell'età moderna, e viene proposta dal padre della Relatività come elemento trainante dello sviluppo morale dell'umanità, ritenendola una delle poche forze in grado di riunire gli uomini in una sola famiglia.

Appartengono proprio al saggio Religione e scienza le frasi più citate, non di rado in senso teista o perfino cristiano, talvolta impiegate astraendo dal contesto cui appartengono. «La più bella sensazione è il lato misterioso della vita. È il sentimento profondo che si trova sempre nella culla dell'arte e della scienza pura. Chi non è più in grado di provare né stupore né sorpresa è per così dire morto; i suoi occhi sono spenti. L'impressione del misterioso, sia pure mista a timore, ha suscitato, tra l'altro, la religione. Sapere che esiste qualcosa di impenetrabile, conoscere le manifestazioni dell'intelletto più profondo e della bellezza più luminosa, che sono accessibili alla nostra ragione solo nelle forme più primitive, questa conoscenza e questo sentimento, ecco la vera devozione; in questo senso, e soltanto in questo senso, io sono fra gli uomini più profondamente religiosi» (tr. it. Roma 1993, p. 21). O ancora: «La religione cosmica è l'impulso più potente e nobile alla ricerca scientifica. Solo lui che può valutare gli sforzi e soprattutto i sacrifici immani per arrivare a quelle scoperte scientifiche che schiudono nuove vie, è in grado di rendersi conto della forza del sentimento che solo può suscitare un'opera tale, libera da ogni vincolo con la via pratica immediata. [...] Non è senza ragione che un autore contemporaneo ha detto che nella nostra epoca, votata in generale al materialismo, gli scienziati sono i soli uomini profondamente religiosi» ( ibidem , pp. 27-28).

Il secondo scritto che presentiamo ha un titolo speculare, Scienza e religione (1941) e appartiene alla raccolta Out of my Later Years . È in questo testo dove troviamo la nota metafora della scienza zoppa e della religione cieca. Il filo conduttore di tutto il saggio è la discussione dei criteri che favoriscono o che possono ostacolare l'armonia fra religione e scienza, essenzialmente sulla scorta dello schema kantiano di una indipendenza fra essere e dover essere. La scienza si occupa dei fatti, la religione dei valori. La religione non deve qualificare come fatti le informazioni tratte dai contenuti della Scrittura e la scienza non deve far assurgere a livello di valore e di orientamento sapienziale ciò che è mera espressione del rapporto fra dati della realtà. La scienza non può confutare molte delle affermazioni della religione, perché queste riguardano ambiti nei quali la razionalità scientifica non è ancora riuscita a penetrare. Ma la religione non deve rallegrarsene, né abusare di ciò, perché essa finirebbe col proporre un Dio-tappabuchi che, presto o tardi, sarebbe rimosso dalla conoscenza scientifica del reale. E sempre con l'intento di suggerire criteri per una pacifica armonia, Einstein affermerà, senza sconti, che «la principale fonte dei conflitti odierni fra le sfere della religione e della scienza sta tutta in questa idea di un Dio personale» (tr. it. Roma 1996, p. 30). La concezione della religione permane quella storicista presentata anche in altri scritti, secondo la quale l'idea di Dio e il rapporto dell'uomo con il sacro evolvono in dipendenza del grado di sviluppo delle conoscenze. Tuttavia, religione e scienza certamente collaborano alla crescita comune dell'umanità, ma ciascuna a suo modo.

Pur mosso dalla sincera convinzione che scienza e religione debbano convivere pacificamente, i criteri proposti dal Nobel per la Fisica per raggiungere questo fine paiono, almeno allo scrivente, non del tutto convincenti. Di fatto è lo stesso Einstein ad affermare, in altri luoghi, che la scienza è essa pure fonte di valori umanistici e perfino religiosi. Ma la parola religione offre qui il fianco a possibili incomprensioni (e forse anche ad ambiguità), perché da lui impiegata sia per le religioni rivelate che egli critica, sia per la religione naturale che egli proclama. In linea più generale, la separazione fra fatti e valori, fra conoscenza e sentimento, la cui implicita radice kantiana non tarda a farsi avvertire, sebbene assai gettonata, non pare interpretare bene né la fenomenologia religiosa né quella della ricerca scientifica. La legittima pretesa della religione è offrire una interpretazione delle cause ultime e del significato del mondo reale e non solo della nostra esperienza emotiva, e la scienza rappresenta a pieno titolo una attività personale dal valore umanistico. L'intento dichiarato di Einstein resta quello di mostrare che «la ricerca scientifica ha nobilitato e reso più profonda la vera religione» ( ibidem , p. 31), intento che non è lontano da quanto afferma la Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, al riconoscere che la conoscenza critica «la purifica da ogni concezione magica del mondo e dalle sopravvivenze superstiziose» (n. 7). Eppure, per chi si riconosce cristiano, questa “vera” religione, al cui processo di purificazione anche la scienza può contribuire, non è il distillato dei valori della scienza, ma il messaggio rivelato dal Dio fatto uomo, la cui incarnazione nel mondo e nella storia i cristiani ben sanno che nulla fa perdere all'universalità e all'ineffabilità del Logos.

Una valutazione obiettiva della religiosità di Albert Einstein non è dunque cosa immediata e richiede un attento esame dei testi. Classificare lo scienziato tedesco come panteista o come deista può risultare forse comodo al filosofo frettoloso, ma non darebbe ragione delle aspirazioni più profonde che lo animarono. E il teologo perderebbe una buona occasione per riflettere su quale immagine di Dio sia accessibile da un soggetto che si occupa di ricerca scientifica ma non possiede le risorse adeguate per porla in relazione con il vero contenuto della Rivelazione. Una più stretta relazione fra questi due mondi, ad esempio, avrebbe consentito ad Einstein di chiarire l'infondatezza dei suoi timori circa l'antropomorfismo del Dio cristiano e di meglio compredere l'autenticità della vita morale nata da questa tradizione religiosa. Le lettere degli ultimi anni della sua vita tornano frequentemente sul tema di Dio, nominandolo come di passaggio e con tono quasi confidenziale — il grande vecchio, colui che conosce i segreti del mondo, ecc. Riteniamo lo facciano al di là del puro espediente retorico, probabilmente manifestando la nostalgia, ma anche la necessità, di riferirsi all'Assoluto come Qualcuno e non solo come razionalità impersonale. «Una cosa ho imparato in questa lunga vita — scriverà a Michele Besso il 15 aprile del 1950 —: non volendo rimanere in superficie, è maledettamente difficile avvicinarsi a Lui».